E’ MORTA L’UNIONE EUROPEA, VIVA L’UNIONE EUROPEA!

di Gianni Giovannelli

Il rapimento di Europa – Rembrandt, 1632

Se crederete subito vi ordineranno
qualche cosa di più grande ancora
nella convinzione che la paura vi ha fatto dire di si
anche a questo primo punto.
Se rifiuterete con decisione
farete capire chiaramente
che dovranno rivolgersi a voi
solo da pari a pari

Tucidide
(Le storie, I, 141, Sansoni, 1967 pag. 516)

Il parlamento della Repubblica Federale Tedesca è stato rinnovato con le recenti elezioni tenute il 23 febbraio scorso e, come noto, l’assetto è cambiato notevolmente, con un forte incremento della destra (AFD, 152 seggi), l’ingresso della sinistra (Neue Linke, 64 seggi), il forte calo di Verdi e Socialdemocratici (ora 85 e 120 seggi), l’uscita dei Liberali. Il quadro potrebbe mutare a seguito del ricorso presentato alla Corte Costituzionale da Sahra Wagenknecht (BSW, comunisti populisti) che ha chiesto il riconteggio, avendo mancato la soglia del 5% per un pugno di voti. Ove mai la spuntasse (il che non è da escludere, pur se non facile) verrebbe a cadere l’esile maggioranza composta da democristiani e socialisti, con conseguente ingovernabilità. Intanto i due partiti hanno sostenuto la proposta Von der Leyen di aumentare a dismisura la spesa militare, legittimando il deficit di bilancio nei singoli paesi nazionali. Il problema, tuttavia, in Germania è quello di una legge costituzionale (detta freno al debito) che vieta qualsiasi disavanzo superiore a 0,35% del PIL: si tratta di un ostacolo insormontabile per l’applicazione del riarmo in terra tedesca. Il Presidente Steinmeier ha sciolto il Bundestag già 27 dicembre 2024, ora in carica solo provvisoriamente fino all’insediamento di quello nuovo, previsto per il 31 marzo 2025; ma nella nuova composizione manca la maggioranza di 2/3 necessaria per rimuovere la norma costituzionale. Sia Neue Linke sia AFD hanno escluso di dare l’assenso e i loro 216 voti bastano a bloccare la riforma, anche ove Wagenknecht non la spuntasse. Mostrando un totale disprezzo per ogni elementare regola democratica democristiani e socialdemocratici si stanno allora impegnando, congiuntamente, per far votare la modifica della Costituzione al parlamento disciolto, avviando una trattativa con i Grunen che, come noto, sono irresistibilmente attratti dalle bombe e dalle guerre, dunque disponibili a questo colpo di mano contro la pace.
Un altro sostenitore del riarmo è un altro sopravvissuto come Emanuel Macron, incollato alla sua posizione nonostante la sconfitta elettorale e la mancanza di sostegno nel paese; la maggioranza della Francia (sia la destra lepenista, sia la sinistra di Fronte Popolare) si oppone alle spese militari, ma questo non conta nulla, il programma viene imposto con prepotenza, con la repressione del dissenso. Il Presidente del Consiglio Europeo, il socialista Antonio Costa, ha sostenuto con opportune astensioni il governo conservatore portoghese di Montenegro, schierato con i più oltranzisti paesi della NATO contro qualsiasi trattativa; ma proprio nei giorni scorsi a Lisbona l’esecutivo è caduto e si va verso nuove elezioni, probabilmente a maggio. In Romania poi il favorito nazionalista Calin Georgescu (fra l’altro con un passato ecologista) è stato clamorosamente escluso dalla ripetizione delle elezioni, dopo l’annullamento della consultazione precedente da parte di una Corte Costituzionale assai poco indipendente dalle pressioni governative; chi ha sottoscritto il riarmo certamente rappresenta una minoranza del paese. Quanto avvenuto a Bucarest si presenta come un vero paradosso: la destra europea appoggia il candidato socialista pro riarmo e esclude il candidato nazionalista favorito, accusandolo di aver ricostituito il movimento fascista con il finanziamento di Putin e dei comunisti nordcoreani! In questa cornice confusa si cala la scelta (anche questa forzata, autoritaria e sostanzialmente antigiuridica) di procedere al riarmo e allo scontro militare senza richiedere il voto del parlamento europeo; imposto dalle circostanze e concesso di malavoglia aveva carattere consultivo, oltre a non rappresentare la realtà dei cittadini che vivono nei 27 paesi dell’Unione Europea. Rievocare il fascismo storico conduce fuori strada. Certamente rivivono nell’attuale cabina di comando elementi che hanno caratterizzato i regimi dittatoriali europei della prima metà del secolo scorso, quali la xenofobia, il colonialismo, l’intolleranza repressiva, la repressione poliziesca, la giustizia classista. Ma non basta a spiegare quel che sta avvenendo. Siamo di fronte ad un nuovo assetto politico fondato su un rapporto dispotico fra governo e sudditi, sulla relatività del diritto sempre piegato alla ragion di stato, sull’esproprio del comune e delle risorse primarie (aria, acqua, cielo) in una forma che si presenta, in veste nuova, come accumulazione primitiva volta a ottenere valore dall’esistenza collettiva riducendo la maggioranza degli esseri viventi a merce che produce, sempre, ogni minuto della giornata, senza sosta. In questa guerra non ci sono solo le armi convenzionali in azione: ci sono soprattutto satelliti che preparano la morte in precise aree territoriali scelte da anonimi funzionari in strutture indipendenti da quella che viene chiamata democrazia occidentale e che oggi forse non esiste già più (o comunque si avvia verso una inevitabile sparizione dalla scena, in tempi brevi).
L’irruzione di Donald Trump ha probabilmente accelerato quel che comunque sarebbe accaduto nella vecchia Europa. Non viene neppure contrapposta una diversa visione del mondo rispetto a quella che brutalmente il presidente americano rivendica come propria. L’Unione Europea dei 27 (affiancata dalla Gran Bretagna che pure si era sfilata pochi anni addietro) è frammentata, divisa, perfino provinciale, senza prospettive reali oltre che priva di valori morali da difendere. Pensa, sbagliando, che sia possibile, nel XXI secolo, fermare i flussi migratori; non ci riuscirono negli ultimi cinque secoli del primo millennio i cittadini dell’impero, quando ci si spostava a piedi o con i carri, pensano di riuscir-ci in un’epoca che dispone di navi, aerei, automobili, treni! Pensa, ancora, di poter vincere la guerra senza combattere, senza mettere a rischio la vita, senza esporla ai droni, alle pallottole, alle armi chimiche, alla strage intelligente pianificata dalle migliaia di satelliti che ci ruotano sopra la testa. O magari sognano di poter ripristinare la leva obbligatoria. Quando Macron minaccia di mandare truppe francesi o europee a combattere (o a separare i combattenti: cambia poco) ha in mente qualche migliaio di mercenari pronti a qualunque scelleratezza, come ha sempre fatto. Dimentica che non è riuscito a tenere la posizione neppure in Africa, di fronte a truppe male equipaggiate il suo esercito ha ceduto il campo: contro l’armata russa è ragionevole dubitare che possa andargli meglio. L’Unione Europea abbaia alla luna, rischia di provocare un disastro senza sapere tuttavia come reagire davvero, sul campo, dopo averlo stupidamente innescato.
Ottocento miliardi. Sottratti alla spesa sanitaria, alla ricerca, all’istruzione, alla difesa dalla povertà, all’ambiente, al futuro, all’accoglienza, al meticciato inteso come unica vera reale speranza dei popoli europei. Ottocento miliardi buttati al vento per un programma sconclusionato che non ha la minima possibilità di ottenere risultati concreti, neppure dal punto di vista criminale di chi lo ha concepito. Serviranno solo ad arricchire ulteriormente le imprese che producono armi e che, tendenzialmente, si disinteressano di come vengano usate dopo aver incassato il corrispettivo. Il comico Maurizio Crozza ci ha rivelato che il dispositivo di accensione del Lockeed Martin F-35 (circa cento milioni ciascuno) rimane esclusiva americana, possono bloccarlo se non sono d’accordo, alla faccia dell’autonomia difensiva europea! Sono ottocento miliardi spesi male, sparsi in 27 paesi in costante lite fra loro, governati spesso da partiti minoritari, corrotti, con unico punto in comune il dispotismo quale forma necessaria di esercizio del potere (la Romania è un esempio emblematico).
Ora ci apprestiamo alla messa in scena di una farsa, quella del 15 marzo 2025, a Roma, in sostegno dell’Europa. Non si sa quale, naturalmente. Ma il lancio proviene da Michele Serra, giornalista (ovviamente retribuito) di Repubblica, quotidiano fin dall’inizio schierato per la prosecuzione del conflitto russo-ucraino e contrario ad ogni trattativa. Repubblica è interamente posseduto da Exor, società controllata dalla famiglia Agnelli. La famiglia Agnelli ha la proprietà (fra le tante) di Iveco Defence Vehicles (IDV), azienda produttrice di mezzi militari che nel 2024 ha aumentato il fatturato del 31% e l’utile del 92%: non stupisce il risultato considerando il proliferare degli scontri bellici nel mondo. La Rivista Italiana di Difesa ha reso noto l’accordo siglato in data 11 novembre 2024 fra IDV e Leonardo per la fornitura (da parte della prima alla seconda) di motore e cambio-trasmissione da montare su due nuovi modelli di carri armati, l’Italian-Main Battle Tank (IMBT) e il c.d. A2CS/AICS (una nuova famiglia di veicoli da combattimento). Si tratta di un affare colossale che renderà alla famiglia Agnelli, datrice di lavoro del giornalista Serra, una montagna di soldi; ma, persona riservata, il giornalista Serra non ha ritenuto di far sapere ai convocati tramite le colonne del quotidiano questo particolare di cronaca economica, probabilmente valutandolo di scarso interesse. Eppure il dubbio che l’editore del suo giornale abbia magari un conflitto d’interesse sorge spontaneo! Il progetto Von der Leyen approvato dal Consiglio Europeo par costruito apposta per riempire le tasche della famiglia Agnelli, naturale che abbia volentieri messo a disposizione la testata per creare sostegno ad un riarmo che procurerà vantaggio finanziario al gruppo, controbilanciando la crisi di Stellantis e rafforzando il governo.
Chi, magari in perfetta buona fede, andrà alla manifestazione, contribuirà certamente a far crescere il patrimonio (un po’ logorato ma sempre notevole) della famiglia Agnelli, difficilmente aiuterà la pace nel mondo e forse (per lo più inconsapevolmente) verserà invece benzina sul fuoco, contribuendo a morte e distruzione, sottraendo risorse a sanità, ambiente, istruzione, ricerca. Ma non c’è alcuna possibilità di mantenere in vita l’Unione Europea, quella è già morta, nessuno potrà resuscitarla. Michele Serra evoca, con una sorta di nostalgia per la propria gioventù comprensibile in chi ha ormai passato i settanta, l’Europa di De Gasperi e Adenauer, perfino quella di Altiero Spinelli o di Aldo Capitini; ma è cambiato il secolo, il modo di produzione, il pianeta. L’unica Europa che esiste oggi l’abbiamo davanti: è quella dei 27, di Orban ungherese e Marcel Ciolacu rumeno, di Giorgia Meloni e Emanuel Macron, di Costa e Von der Leyen. E’ un’Europa dispotica, aggressiva, predatrice, xenofoba, ostile. Ha sostituito e ucciso quella del XX secolo. Andare in piazza a sostenerla è follia pura, autolesionismo. Ne prendano atto tutti, finalmente: come nelle vecchie monarchie la cerimonia funebre del 15 marzo prevede il grido è morta l’Unione Europea viva l’Unione Europea! I presenti sono chiamati a incoronare il nuovo sovrano.
Esiste un’altra Europa? Ma certo! I giovanissimi nati nel terzo millennio (nonostante il calo demografico esistono) hanno imparato a girare nel vecchio continente senza incrociare sbarre doganali di confine, la Gran Bretagna pagherà un prezzo per averle rimesse e già sta cominciando a farlo. I migranti sono fuggiti dalla guerra, non certo per andare altrove ad armarsi e a combattere. Bisogna ritrovare l’orgoglio di essere internazionalisti, non è in contraddizione con l’amore per la propria terra, per una casa, per una vigna, per un lembo di orizzonte. Mai come in questo frangente la pace prende la forma di un programma rivoluzionario; è l’esatto contrario del programma di riarmo, che infatti mira all’esproprio del comune. La nostra Europa pone quale condizione preventiva proprio la diserzione in aperta opposizione al riarmo; e si tiene consapevolmente lontana dalla manifestazione dl 15 marzo, senza anatemi, ma al tempo stesso con una ostile estraneità.

L’immagine è tratta da Wikimedia

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La violenza del potere nudo

Pixabay.com

di Alessandra Algostino

È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità; genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio indifferente e complice. È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore, che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera forza.

Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra.

È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora percepita come un disvalore.

Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace.

I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti deportati in catene: è la violenza disumana del potere.

Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico, come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big del capitalismo digitale.

È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima – e non sufficiente – come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un fascio-liberismo.

Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene prospettato è la guerra. La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello della guerra.

E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di un’Europa che da secoli

«non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo» (Fanon),

la rendono incapace di sfuggire all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico orizzonte.

Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia? Iniziamo a pensare possibile ciò che appare impossibile. «Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta spingerlo in su e respirare» (Krenak).

Pubblicato su il manifesto del 7 marzo 2025.

e su su Comune-info l’8 Marzo 2025

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Europa di pace per tutti i popoli

di Rete Italiana Pace e Disarmo

Oggi, di quale Europa stiamo parlando? Europa di pace o Europa di guerra? Europa armata, o Europa disarmata? Europa che investe in armi tagliando il welfare? O Europa che investe in cooperazione tagliando le spese militari? Ci opponiamo alla scellerata decisione di sospendere le regole di bilancio per le spese della difesa armata, facendoci entrare in una economia di guerra.
Siamo con gli ucraini. D’accordo, ma come? Dicendogli “vi diamo le armi e combattete” o facendo diplomazia per salvare il salvabile?

Da sempre ripetiamo che non esiste soluzione militare del conflitto: la guerra non la vince nessuno. La scelta armata fatta per difendere l’Ucraina dall’invasione russa, ha portato da 3 anni ad uno stallo evidente, una guerra di logoramento costata da entrambe le parti decine di migliaia di morti e un numero infinito di vedove, orfani e mutilati. La via militare è un fallimento è l’evidenza dei fatti è lì a dimostrarlo.

Nessuno la guerra la vince, la pace invece la possono vincere tutti.

Stessa cosa per quanto accade nella sponda sud del Mediterraneo, l’Europa è pronta a schierarsi per il riconoscimento del diritto di autodeterminazione dei palestinesi come riconosciuto da infinite risoluzioni delle Nazioni Unite, o per gli amici si usa la politica del “doppio standard”, tollerando crimini di guerra, occupazione e pulizia etnica?

Non sono domande provocatorie, sono domande sincere, necessarie, per capire quale Europa dobbiamo ricostruire, quale sicurezza e politica estera vogliamo sostenere.

Il Manifesto di Ventotene, Per un’Europa libera e unita, aveva l’obiettivo di liberare l’Europa, e progressivamente il pianeta, dalle guerre.

“Quale sia il male profondo che mina la società europea è evidentissimo ormai per tutti: è la guerra totale moderna, preparata e condotta mediante l’impiego di tutte le energie sociali esistenti nei singoli paesi. Quando divampa, distrugge uomini e ricchezze; quando cova sotto le ceneri, opprime come un incubo logorante qualsiasi altra attività. Il pericolo permanente di conflitti armati tra popoli civili deve essere estirpato radicalmente se non si vuole che distrugga tutto ciò a cui si tiene di più”. (Altiero Spinelli in Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, 1942).

L’Europa per dimensione e peso economico, per cultura politica, per tradizione storica deve farsi carico di promuovere il rilancio della multilateralità e la collaborazione globale per un futuro comune. Deve dismettere la postura della supremazia e porsi in una posizione di neutralità attiva nella competizione globale. Deve promuovere una “sicurezza condivisa”, e non la “fortezza Europa”, tenuta in piedi con la forza delle armi, con i muri e con politiche economiche restrittive, inique ed ancora fondate sul fossile.

Data la natura altamente delicata della sicurezza, della difesa e della politica estera, l’idea che la costruzione di un complesso militare-industriale europeo possa avere come risultato un rafforzamento dei legami tra gli Stati membri favorendo un miglioramento del consenso, è un tragico errore. Ciò che è certo è che l’Esercito europeo è attualmente solo una giustificazione retorica di decisioni che puntano a spostare ingenti risorse dai compiti civili dell’Unione a fondi a disposizione degli interessi dell’industria militare senza una visione ed un progetto di società per le future generazioni, con il solo risultato di togliere fondi alla coesione sociale ed economica, alla cooperazione ed alla transizione ecologica.

L’Europa deve rimanere uno spazio multinazionale capace di diventare una grande potenza di pace, che faccia i conti con il passato coloniale e con la necessità di porvi rimedio, che escluda la guerra dai propri strumenti politici e che utilizzi la sua grande capacità economica, scientifica e tecnologica per favorire il riequilibrio nella distribuzione delle opportunità e delle conoscenze tra i popoli. La pace è una conquista della politica che si costruisce nel tempo: sappiamo che c’è sempre un’alternativa da poter percorrere al fallimento totale della politica che è la guerra.

Per un’Europa costruttrice di pace e di sicurezza per tutti i popoli:

– L’Europa deve agire come una vera comunità politica, democratica ed economica dentro un sistema multilaterale e non di blocchi politico-militari che competono e si reggono sulla deterrenza militare.

– L’Europa deve avere una propria politica estera fondata sulla cooperazione e sulla costruzione di pace, giustizia e sicurezza condivisa e comune, regolata dal diritto internazionale.

– L’Europa deve rafforzare il modello sociale europeo ampliando l’accesso ai diritti ed alle tutele, destinando le proprie risorse alla difesa civile, alla transizione ecologica alla cooperazione ed al la solidarietà dentro e fuori l’Unione Europea, allargando la sfera di cooperazione (economica, culturale, strategica) per il rafforzamento della democrazia e del raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile a partire dalle aree di vicinato, tanto a Est come a Sud, per poi estendersi al resto del mondo, e non per il riarmo e per l’economia di guerra.

– L’Europa deve praticare una politica commerciale coerente e strumentale alla politica di pace e di sicurezza condivisa: ridurre il divario tra paesi ricchi e paesi poveri; ridurre le diseguaglianze e sconfiggere le povertà e le migrazioni forzate; investire nella transizione ecologica, promuovere stabilità, pace e sicurezza comune.

Così facendo, il concetto di difesa assume un connotato completamente diverso da quello che si sta discutendo, non è più la difesa militare ed il riarmo per difendersi da un nemico o da una invasione, ma è il consolidamento di un sistema di relazioni tra stati che cooperano, regolato dal diritto internazionale e da forti scambi economici, culturali, di interdipendenza e di scambio, con un basso investimento negli eserciti e nelle armi, ed alto investimento nella difesa civile e nonviolenta, nella cooperazione e nel mutuo aiuto.

Rinnoviamo l’invito a portare nelle piazze, ad esporre alle finestre la bandiera della pace che rappresenta questa idea di Europa e che non può essere usata per giustificare la corsa e la spesa al riarmo ed alla guerra, ma per sostenere l’alternativa alle guerre ed alla prepotenza dei più forti, di chi vuole imporre la legge del più forte, dei ricatti, della supremazia. Vale per l’Ucraina, Vale per la Palestina, vale per tutte le guerre che subiscono le popolazioni.

La nostra Europa deve essere un’Europa di pace e di sicurezza condivisa e comune per tutti i popoli.

È il momento di una grande campagna europea per contrastare la corsa al riarmo ed un’economia di guerra.

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Trump non è un cialtrone da circo

di Paolo Cacciari

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È un terribile errore liquidare Trump come uno sbruffone psicopatico. Il suo lavoro – ahinoi! – lo sta portando avanti. Non per “fare grande l’America” – questo è quello che vuol far credere ai suoi fan – ma, a suo modo, per salvarla. The Trump sa di essersi impadronito di un impero fragile, “dai piedi d’argilla”, zavorrato da “40 mila miliardi di dollari di debito – poco meno di metà del Pil del mondo, presenti nei portafogli di privati, fondi, banche e banche centrali del pianeta” (vedi Federico Fubini sul Corriere della sera del 17 febbraio) e fa quello che pensa debba fare ogni nazione in un mondo iper competitivo regolato dalla logica ferrea del capitalismo: aumentare la capacità produttiva interna per migliorare la bilancia commerciale, tenere alto il valere della moneta per drenare investimenti dall’estero, colonizzare quanto più possibile altri territori per avere accesso a materie prime a basso costo e per garantirsi mercati di sbocco delle merci marchiate Usa, mantenere la supremazia militare (ma senza sprecarla in conflitti “non strategici” come quello ucraino), mantenere alto il morale del proprio popolo in vista dei salassi che gli saranno imposti (smantellamento del welfare, inflazione, tasse al consumo). Poco altro.
A farne le spese sono per prime le persone tenute ai margini del sistema: gli immigranti, quelli che sono dentro i confini fortificati dell’Impero e quelli che non hanno altra alternativa che sperare di entrarci. Per secondi sono le popolazioni delle periferie del Sud globale che cercano di resistere alla rapina delle proprie risorse e del proprio lavoro. Inoltre, – ed è questa la vera novità – ad essere colpiti sono i popoli dei paesi vassalli della costellazione degli stati dell’ex alleanza imperiale nordatlantica che non potranno più godere delle clausole di maggiore favore negli scambi commerciali e nella difesa militare. Infine, ogni essere vivente, umano e non umano pagherà le conseguenze della sfrenata corsa alla predazione della terra, degli oceani, delle foreste, dell’Artico, dello spazio.
Ovviamente, per avere le mani libere nella vera competizione globale che l’Impero si gioca con la Cina e gli altri paesi emergenti, The Trump deve fare carta straccia di tutti gli accordi, i trattati, i patti di cooperazione internazionale e delle relative istituzioni e agenzie interstatali. L’Onu è il primo della lista. Altro che democratizzazione. Il multipolarismo assomiglia più ad una rissa da saloon che a una danza armoniosa.

Gli Stati Uniti, dopo aver ottenuto tutto ciò che potevano ottenere dalla globalizzazione delle merci e della finanza, sono ora obbligati dalla “stagnazione secolare” dei tassi di profitto a cambiare strada, a rinserrare le fila e provare a ripartire da sé. Per questo hanno bisogno come il pane della retorica patriottica, dei bagni di folla negli stadi, della investitura divina, della reinvenzione della Nazione bianca e di un nuovo grande nemico esterno: la Cina, i Brics e il loro (per ora solo ipotizzato) mezzo di pagamento indipendente dal dollaro per gli scambi internazionali.

No, Trump non è un cialtrone da circo, segue un copione ben studiato, e il trumpismo non è una accolita di sciamani, imbottiti di fake news da canali social e predicatori/trici televisivi/e. Così come le destre-destre europee non sono un rigurgito romantico d’altri tempi. Hanno in testa un disegno di moderna restaurazione dell’”ordine naturale” delle cose: capofamiglia, capofabbrica, capobastone, capi di stato plebiscitati. Forse sono queste cose che accumunano Trump a Putin e, temo, anche a Xi Jinping.

La pericolosa sottovalutazione – da parte dei liberaldemocratici come dei socialdemocratici – dell’avvento delle destre in tutto il mondo dipende dalla rimozione delle ragioni che stanno alla base del loro consenso popolare. Le varie famiglie politiche progressiste e i loro maîtres à penser, ben insediati nelle accademie e nei mass media, sono alla deriva, frastornati e afoni, perché si rifiutano di ammettere la caduta verticale di credibilità e legittimità delle istituzioni rappresentative liberai da loro mitizzate, plasmate e malgovernate. È probabilmente vero: siamo a un passaggio di regime. La lunga golden age del compromesso keynesiano nell’ex Primo mondo è terminata. Siamo entrati nella stag-flation. Non aver preso sul serio e per tempo questa “crisi terminale” (per dirla con Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi, 2024) del modello sociale liberaldemocratico ha inevitabilmente lasciato dietro di sé una marea montante di insoddisfazioni, risentimenti e odi verso le élite al potere. Dalla lenta decomposizione della “post democrazia” (C. Crunch, 2003) è sorto il nuovo mostro della “internazionale bianca” suprematista, nazionalista, patriarcale, neocolonialista, xenofoba, sessista, classista e tecno-modernista – tanto per gettare un po’ di polvere di stelle negli occhi! Fino a che le socialdemocrazie e le liberal democrazie non faranno i conti con le ragioni del loro fallimento – in tutti i campi: socioeconomico, geopolitico e soprattutto ordinamentale – non riusciranno mai a capire e, quindi, a fronteggiare la nuova situazione. Sono crollate le promesse di benessere (ricordate la retorica del “non lasceremo indietro nessuno”?), di esportazione pacifica della democrazia in ogni dove (ma sotto l’ombrello della Nato), di rigenerazione green del pianeta (ma senza eliminare i sussidi ai fossili). Ma ciò che ha smesso di funzionare è stato proprio il sistema della rappresentanza e dei poteri con la consegna delle decisioni pubbliche ai gruppi di potere economico-finanziari transnazionali (le giant corporation americane) e, a cascata, ai faccendieri sotto casa. Il risultato è stato lo smantellamento del sistema delle imprese e dei patrimoni pubblici, la privatizzazione del welfare, politiche fiscali regressive, inattivismo ambientale. Soprattutto, svuotamento e squalificazione delle assemblee elettive, ridotte ad accrocchi di lobbisti.

Siamo giunti così al più paradossale e – questo sì, sorprendente – rovesciamento mentale, prima che politico e geopolitico, sulla questione della guerra in Ucraina. A fronte di una realistica valutazione dell’imperatore The Donald circa l’insostenibile costo della guerra, i vassalli europei, traditi nel loro orgoglio, non trovano di meglio che chiedere soldi ai propri sudditi (leggi: superamento del Patto di stabilità) per comprare più baionette e mandare alla morte ancora più soldati. Se questi sono gli eletti, i custodi dell’ordine democratico, povere liberal democrazie. Non si stupiscano poi se il “popolo sovrano” cerca altre vie per farsi rappresentare.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 19 febbraio 2025

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Festival del Medioevo 2025

Gubbio, 24–28 settembre 2025

Dal 24 al 28 settembre 2025, Gubbio ospiterà l’undicesima edizione del Festival del Medioevo, dedicata al tema “Il viaggio. Pellegrini, viandanti, esploratori”. Un’occasione per sfatare l’idea di un Medioevo statico e raccontare le migrazioni, i pellegrinaggi, i commerci e gli incontri culturali che hanno segnato quell’epoca.

Per cinque giorni, storici, scrittori, scienziati, giornalisti e filosofi animeranno il festival con conferenze stimolanti, affiancate da mostre, mercati, spettacoli, rievocazioni storiche e laboratori didattici per i più giovani.

Tra gli appuntamenti irrinunciabili: la Fiera del Libro Medievale, lo spazio Scriptoria, dedicato alla miniatura e alla calligrafia, e il ciclo “Medievalismi”, che esplora l’influenza del Medioevo sulla cultura contemporanea.

Il festival è organizzato dall’Associazione Festival del Medioevo, in collaborazione con il Comune di Gubbio, con il sostegno di numerosi sponsor e istituzioni culturali.Inizio modulo

Fonte: Festival del Medioevo

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