Dagli hippie ai corpi civili di pace

di Giuseppe Paschetto

di Giuseppe Paschetto

Visto che non volete gli USA e nemmeno il riarmo dei Paesi Europei, vorrà dire che pensate a una comunità hippie demilitarizzata! Sentenziava qualche giorno fa Giorgia-donna-madre-cristiana.
E’ evidente che con l’uso di quei due termini “hippie” e “demilitarizzata” la presidente del consiglio che è sicuramente una efficace comunicatrice voleva colpire, non solo Schlein, ma tutto lo schieramento pacifista e ambientalista che si colloca a sinistra. Non a caso il fenomeno hippie degli anni 60 si caratterizzava per una grande attenzione all’ambiente, alla pace, ai diritti civili. Tutti termini che stanno alla destra come i cavoli stanno alla merenda. E anche il termine demilitarizzata era chiaramente usato in termini di scherno, di derisione, per tutti quelli che pensano che la pace non si prepari riarmando gli Stati ma seguendo ben altre vie.
E’ chiaro che nella efficace superficialità comunicativa di chi viene dal MSI e dal culto militarista come Giorgia-donna-madre-cristiana-armata può risultare incomprensibile che esistano altre vie per difendersi rispetto alle forze armate e altri metodi per risolvere in conflitti che non siano le guerre, ma l’alternativa in realtà esiste. E oltre a essere propria della rispettabilissima cultura hippie è un fatto documentato nella storia e negli studi e accademici oltre che ampiamente dimostrato da schiere di seri ricercatori.
Certo la presidente del consiglio non sa chi siano personaggi come Gene Sharp o Antonino Drago che con i loro libri le permetterebbero di uscire dai luoghi comuni di facile presa sull’opinione pubblica. Non passa per la testa ai nostri fautori del riarmo che ogni coltello mostrato tra i denti all’ipotetico nemico ne causa una reazione simmetrica? E quando appunto le parti saranno armate fino ai denti prima o poi a una delle due viene la voglia di usarlo quel coltello.
Erica Chenoweth ha scritto recentemente l’illuminante testo “Come risolvere i conflitti – senza armi e senza odio con la resistenza civile”. La ricercatrice statunitense ha svolto un’approfondita ricerca su centinaia di conflitti, rivolte, rivoluzioni, dell’ultimo secolo dimostrando dati alla mano e quindi in modo scientifico e non ideologico come la resistenza civile senza armi abbia avuto riscontri positivi in quantità doppia rispetto ai conflitti affrontati con le armi. E ovviamente con una perdita di vite umane e beni materiali incommensurabilmente minore. Si pensi a quante energie, quanti capitali finanziari e umani assorbe la struttura militare.
Quanta cura è messa nella preparazione, nelle esercitazioni, nell’organizzazione. Le molte situazione di resistenza e difesa civile vincenti documentate a livello storico si sono in massima parte basate invece sullo spontaneismo e l’improvvisazione. Quali potenziali enormi potrebbero esserci nel momento in cui fosse adeguatamente preparata, organizzata, insegnata, finanziata!
Naturalmente occorre precisare che difesa civile non è solo quella dei confini, ma dei diritti dei cittadini, delle libertà civili, delle norme di convivenza, è difesa ad esempio da possibili militari golpisti all’interno dei propri confini. Per questo non è appannaggio solo di pattuglie di esperti che lo facciano per professione, anche se pure questo serve, ma è un compito dell’intera popolazione, si impara fin dalle scuole.
Per tornare al libro che si citava, l’aspetto caratterizzante dell’approccio di Chenoweth è il pragmatismo. Lascia da parte gli aspetti etici della nonviolenza, i substrati ideologici, per dimostrare come la resistenza civile sia semplicemente più efficace al di là delle convinzioni filosofiche e della concezione della vita e del suo rispetto del prossimo che si abbiano. Oltre ad esaminare centinaia di conflitti affrontati in modo nonviolento la ricercatrice documenta in modo efficace tutte le condizioni che dovrebbero essere soddisfatte per garantire la vittoria a una resistenza civile che contempli anche la prevenzione dei conflitti.
Uno dei fattori chiave è sicuramente la preparazione. Così come esiste una esercitazione riferita alle strategie militari anche la resistenza civile che contempla anche la difesa popolare nonviolenta deve essere accuratamente preparata e organizzata. Non può essere improvvisata. Eppure anche quando è improvvisata la resistenza civile mostra illuminanti spiragli.
Pensiamo alle decine di spontanei casi di resistenza nonviolenta dei cittadini ucraini nei primi giorni dell’invasione russa. Con il dialogo, la non collaborazione, la resistenza passiva, anche se attraverso tecniche del tutto improvvisate gli ucraini avevano ottenuto non indifferenti successi prima che tutto precipitasse con la scelta sciagurata dell’opzione bellica.
Per venire all’Europa che ora stanzierà 800 miliardi per le forze armate, l’alternativa non solo a questa follia ma anche all’esercito europeo si chiama “Corpi civili europei di pace”, un’intuizione di più di 30 anni fa da parte dell’allora europarlamentare dei Verdi Alex Langer.
Mentre si sta affermando sempre più l’idea che la guerra continui a essere l’unico modo per risolvere i conflitti, il riarmo sappiamo che toglie preziose risorse all’umanità e si corre il serio rischio che la “guerra mondiale a pezzetti” si trasformi in una guerra mondiale di stampo nucleare. L’Europa invece può indicare la via al mondo.
Il rapporto Bourlanges/Martin adottato dal Parlamento Europeo 30 anni fa, il 17 maggio 1995 prevedeva proprio la creazione di CCPE con il compito di addestrare osservatori, mediatori e specialisti nella risoluzione dei conflitti. Tra i promotori di questa iniziativa proprio l’europarlamentare Alex Langer poi scomparso prematuramente e tragicamente nel luglio 1995 anche a causa delle sofferenza interiore causatagli dai massacri di Bosnia.
I CCPE dovrebbero essere chiamati a intervenire a livello di prevenzione, gestione dei conflitti e ripristino di condizioni di dialogo tra le parti. Questa organizzazione potrebbe operare principalmente a livello europeo ma essere impiegata su mandato ONU anche in altre aree del mondo. I CCPE possono rappresentare davvero un innovativo supporto alla diplomazia e essere messi in relazione a seconda delle situazioni anche con i peacekeeper militari chiamati a offrire protezione. Questo può essere il contributo affinché l’Unione Europea esplori con coraggio e lungimiranza nuove strade che consentano di mettere la guerra tra i tabù dell’umanità dimostrando che altre vie, più efficaci per la risoluzione dei conflitti e eticamente sostenibili sono percorribili.
L’UE ha insomma una straordinaria occasione di rafforzare la sua politica estera e di sicurezza comune creando un nuovo strumento pratico che potrebbe essere messo a disposizione delle parti belligeranti, prevenire l’escalation della violenza e apportare una soluzione pacifica alle crisi, difendere il proprio Paese e nello specifico l’Unione dei Paesi europei.
Ma cosa è successo dopo il 1995? Ce lo racconta in breve la docente, scrittrice e attivista Marianella Sclavi: “l’architettura del governo europeo è piena di veti e controlli incrociati, e quando finalmente nel 2001 la istituzione dei Corpi civili di Pace Europei è stata deliberata, questi erano già stati scorporati (divisi per materie, per tematiche..) e fatti dipendere da una serie di apparati i quali, tenendo ferma la proclamazione degli alti e ambiziosi obbiettivi, ne hanno reso impossibile il funzionamento. Non è una questione di cattiva volontà: semplicemente la proposta è stata reinterpretata entro organismi adatti a interventi settorializzati e specifici, diversi e opposti a un approccio integrato e dal basso. In altre parole, dalla metà degli anni ’90 in poi la sigla è stata ribadita senza un dibattito sui cambiamenti istituzionali in grado di promuovere questo approccio e renderlo per davvero operativo. La proposta dei CCP è diversa dall’avere una squadra che occasionalmente si mette al lavoro in situazioni di emergenza. Riguarda un dispositivo stabile, permanente, che rappresenta e incorpora un modo sistematico un patrimonio culturale relativo alla trasformazione dei conflitti sia all’interno di un territorio che nei rapporti fra stati. Pur avendo anche bisogno in determinate situazioni di un appoggio militare, è l’arma della nonviolenza che sostituisce quella dei cannoni.”
Certo, ora è dura, abbiamo dei generaletti al parlamento europeo invece che dei giganti della cultura e della politica come Alex Langer ed è veramente un periodo cupo ma la speranza che ci siano europarlamentari intelligenti in grado di raccogliere quel messaggio non è spenta. Se ne faccia una ragione la nostra benearmata Giorgia nazionale, quella che chiama con scherno “comunità hippie demilitarizzata” è il
modello di Europa pacifica, solidale, ecologica, che tanti abbiamo in mente di realizzare.


L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 14 aprile 2025

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LA PERSEVERANZA DEL SANTO

Dalla quarta di copertina

Rimini. Nel caldo afoso del luglio 2012, l’ufficiale dei carabinieri Federico Santucci, noto come “il Santo”, si ritrova coinvolto in un’indagine per il ritrovamento di un corpo avvenuto in acqua, a poca distanza dalla spiaggia. E’ una ragazza e indossa solo il reggiseno. Mentre cerca di affrontare il dolore nella sua vita personale, segnata dal fallimento di una relazione importante, l’omicidio di Estella, una giovane donna in cerca di evasione e intrappolata in una spirale di dipendenza, cambia il corso della sua vita.
La storia si sviluppa tra eventi drammatici e ricordi dolorosi, rivelando i segreti e le ombre che si nascondono dietro la facciata di una città balneare. Con una narrazione avvincente, il romanzo esplora temi di perdita, redenzione e la lotta contro i propri demoni interiori.

Davide Grassi, avvocato penalista, scrittore e podcaster vive e lavora a Rimini.
Prima di questo thriller ha pubblicato nella veste di coautore il libro inchiesta San Marino SpA (Rubbettino 2013) e il romanzo Il braccio destro (Mursia, 2020).


Davide Grassi – La perseveranza del santo, Carlo Filippini Editore, 2024


Recensione di Davide Cardone


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Guerre e spinelli 

Rossi, Spinelli e Einaudi a Ventotene (Foto di Archivio Storico Federalista Europeo)

di Tonino Biffarino

Prosegue il tormentone legato alla manifestazione di Piazza del Popolo, convocata da Michele Serra, a spese del Comune di Roma, per una specie di Europa Pride, senza ulteriori dettagli. Non è dato capire in quanti abbiano partecipato: gli organizzatori, commentando a caldo nell’immediatezza, hanno detto che erano trentamila. Poi ci hanno ripensato rilanciando a cinquantamila. La Questura, per una volta, si è astenuta da ogni commento; di solito cerca di abbassare il numero specie quando, come in questo caso, chi sta al governo rema contro. Comunque il silenzio è una sorpresa, ci si aspettava il tradizionale diecimila secondo il Viminale e invece niente di niente, riserbo completo. Stampa e televisione hanno ad una sola voce proclamato il successo dell’iniziativa, soprattutto tenendo conto che, ci raccontano, si trattava di iniziativa spontanea, senza partecipazione di partiti e strutture organizzate, nata quasi dal nulla.

Non è così. Michele Serra ha lanciato l’iniziativa dalle colonne del quotidiano Repubblica e subito ha ricevuto ospitalità dal più abile comunicatore televisivo disponibile in Italia, Fabio Fazio, che ha provveduto da par suo, a diffondere l’invito all’adesione, in nome di una non meglio precisata difesa del vecchio continente, attaccato da Trump e Putin, entrambi indicati come nemici dell’Europa, o quanto meno come sabotatori decisi a creare danni a popolazioni invece operose e pacifiche. L’appello era costruito in modo da mettere personaggi come Calenda e Lorenzo Guerini (sostenitori aperti dell’intervento armato in Ucraina) insieme a Fratoianni e Bonelli (contrari alle spese di riarmo), con decine di sindaci (almeno ottanta, misti destra-sinistra, tutti con la fascia tricolore) e con le tre organizzazioni sindacali (divise al tavolo della trattativa, unite per l’occasione). Facevano da richiamo, o, alla peggio, da contorno, nomi celebri come i cantanti Vecchioni e Jovanotti, il conduttore Formigli (Fazio, più astuto, ha preferito il divano di casa), lo scrittore Scurati e la scrittrice Avallone, gli attori Albanese e Amendola. L’opposizione parlamentare era in piazza, con la sola eccezione dei pentastellati, complice dell’ammucchiata e dunque evitando accuratamente qualsiasi imbarazzante precisazione sulle spese belliche, sanitarie, fiscali, strutturali o di welfare. In particolare nessun cenno si ritrova circa la conversione dell’industria automobilistica in industria militare, gli accordi Iveco-Rheinmetal per mettere le zampe sui fondi del riarmo europeo a vantaggio della proprietà di Repubblica (che appartiene come noto agli Agnelli). Anche la famiglia Agnelli sosteneva la Piazza per l’Europa, in attesa di vendere gli strumenti per far la guerra.

Un simile spiegamento di forze e di energie ha radunato trentamila persone (accettiamo per buono, senza la consueta mediazione questura/organizzatori, il primo dato fornito da Serra, il secondo non è credibile). Sono pochi i partecipanti, a ben vedere. Rete Impresa Italia, associazione di artigiani, il 19 febbraio 2014 riempì Piazza del Popolo, contro la pressione fiscale, con ottantamila lavoratori autonomi. Non dico che dovessero competere con 220.000 scesi a Modena il 1 luglio 2017 per ascoltare il concerto di Vasco Rossi o con i 102.861 che si sono trovati all’Arena di Reggio Emilia per il concerto di Harry Styles; ma se si tiene conto della forza istituzionale del blocco promotore la mobilitazione non può dirsi davvero riuscita. Anzi. Le falle dentro l’opposizione (con il PD spaccato in due tronconi durante il voto europeo) sembrano essersi allargate più di quanto non siano emerse contraddizioni dentro la maggioranza.

Giorgia Meloni, è assai disinvolta nel nascondere i propri problemi creandone altri al fronte nemico. Non sa bene che pesci pigliare in questa lite fra Ursula e Donald (lei vorrebbe tenere con entrambi buoni rapporti) e in più ha il problema di tenere a bada la coppia litigiosa Taiani/Salvini sempre sull’orlo della frattura. Fra i numerosi corni del dilemma ha deciso di sceglierli tutti quanti: il mazzo intero. Così ha riesumato Altiero Spinelli, deceduto nel 1986 (quando lei aveva nove anni), e un testo da lui scritto a sei mani (con Ernesto Rossi e Eugenio Colorni) nell’agosto del 1941, il Manifesto di Ventotene. Ha tirato un sasso nello stagno per far scappare i ranocchi; e i ranocchi, che sono scemi, hanno abboccato. Invece di chiederle se per caso non si fosse fumata uno spinello di pachistano nero (e sarebbe stata questa l’unica reazione sensata nel parlamento riunito per discutere se essere a favore o contro una spesa straordinaria europea di 800 miliardi per far la guerra alla Russia senza gli Stati Uniti) i democratici del PD si sono gettati a corpo morto su Spinelli, chi difendendolo, chi santificandolo, chi strillando al sacrilegio. La citazione, probabilmente estratta da un cattivo riassunto o forse volutamente manipolata (vai a saperlo), ha aperto la rissa e tutti si sono dimenticati di decidere se far la guerra o no.

Altiero Spinelli si era iscritto alla federazione giovanile comunista nel 1924, a 17 anni. Nel 1927 (a vent’anni) già lo avevano messo in prigione, con una condanna a 16 anni senza aver fatto sostanzialmente nulla; l’amnistia concessa per festeggiare la marcia su Roma consentì la scarcerazione nel 1937 ma non la libertà: andò al confino, prima a Ponza poi a Ventotene nel 1939. Nel 1937 venne espulso dal Partito Comunista e si legò a Ernesto Rossi (liberale, azionista) e a Eugenio Colorni (liberalsocialista e allora marito di un’altra Ursula, quella Hirschmann che sarebbe in seguito diventata sua moglie). Quando i tre scrissero il manifesto, nell’agosto 1941, la guerra andava piuttosto bene per i nazifascisti: la Francia era caduta, la Danimarca era occupata dai tedeschi, la Grecia e le terre slave stavano ancora sotto il controllo dell’Asse, l’Inghilterra era bombardata sia di giorno sia di notte. Mentre i tre scrivevano a Ventotene, da un mese (luglio 1941) tre divisioni del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) avevano invaso l’odierno Donbass, affiancando le truppe di Hitler. Era l’esercito regolare italiano, quello che piace a Vannacci, prima di Salò. Sembravano avere la vittoria in mano; la destra ucraina li appoggiava e sterminava gli ebrei del paese. In quel frangente il progetto federalista degli Stati Uniti d’Europa, antisovietico e antinazionalista, era innanzitutto il desiderio di vincere la guerra, di assistere alla sconfitta del nazifascismo, di essere liberati. In effetti, dopo la caduta del regime, nel 1943, furono i tre liberati e il manifesto (peraltro revisionato e adattato al nuovo quadro militare) venne pubblicato.

Le righe sui compiti del dopoguerra stralciate da Giorgia Meloni sono, per quel che si sa, opera di Ernesto Rossi (economista) e non di Altiero Spinelli. La citazione è palesemente falsificata a mezzo di tagli e omissioni, cambiandone totalmente il senso. In premessa, e quale “bussola”, i firmatari escludono che il riferimento possa essere il principio dottrinario secondo il quale la proprietà privata deve essere abolita. Infatti ritengono i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. Dunque la valutazione deve essere fatta caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. E, di volta in volta, secondo opportunità e singolo segmento, la proprietà privata (per alternative conviventi: o/o) deve essere abolita, limitata, corretta, estesa. Anche estesa! Ernesto Rossi esponeva principi consolidati del pensiero liberaldemocratico, l’uso congiunto di intervento statale nei settori strategici e sovvenzioni all’iniziativa privata per favorire lo sviluppo. Le linee guida del c.d. Piano Marshall rientrano in questa concezione ricostruttiva, che prescinde dal federalismo in quanto tale; il manifesto propugna anche l’opzione federale come rimedio preventivo contro la malattia senile del nazionalismo, ovvero l’aggressività prepotente. Giorgia Meloni ha stravolto il senso, consapevolmente, e gli scemi ci sono cascati.

Come diavolo tutto questo possa avere una qualche relazione con il problema delle spese straordinarie in armamenti nessuno lo potrà mai comprendere. L’intero parlamento italiano ha preferito soffermarsi a discutere di Spinelli, evitando accuratamente di esprimere una chiara opinione sull’opportunità o meno di spendere 800 miliardi, peraltro in violazione del principio del pareggio di bilancio acquisito con una maggioranza bulgara nella Costituzione Italiana, per tagliare il welfare, poi effettivamente tagliato. Ma il taglio non vale per le armi prodotte da Ansaldo&Agnelli, per quelle il deficit va accettato. Giorgia Meloni ha aperto le danze con una consapevole provocazione, onde rinviare (sperando di evitare) una puntuale presa di posizione che già nel voto consultivo europeo ha diviso la maggioranza. Ma l’opposizione non si è opposta, si è sgretolata. Il PD ha preferito rifugiarsi nella difesa agiografica di Altiero Spinelli (e di una mai esistita Federazione degli Stati Uniti d’Europa) piuttosto che dire un si o un no alla decisione del Consiglio che ha deliberato la spesa bellica. Si è appiattita sopra un silenzio ipocrita. Elly Schlein ha dimenticato, forse per via di Spinelli, il celebre passo evangelico (Matteo, 5, 37): ma il vostro parlare sia si si no no tutto ciò che va oltre viene dal maligno.

Eugenio Colorni
L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 29 marzo 2025

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Perché l’autocoscienza maschile fa così paura?

di Lea Melandri


Quelli che oggi chiamiamo “stereotipi di genere”, se li guardiamo più profondamente, ci accorgiamo che non si tratta di “differenze”, ma di un processo sempre in atto di “differenziazione”, la spaccatura che ha diviso, contrapposto nella loro complementarità, parti inscindibili dell’umano, come il corpo e il pensiero, la ragione e i sentimenti, la biologia e la storia, e che perciò stesso tende alla loro riunificazione. Femminilità e virilità parlano di rapporti e di gerarchie di potere, di sfruttamento e di violenza, ma è innegabile che ritornano, sotto un altro aspetto, come i volti di quel desiderio di unità, appartenenza intima, che è il sogno d’amore: “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso” (Sibilla Aleramo).
’uscita dal due in uno della nascita, dal momento che la donna è stata confinata nel ruolo materno, non poteva far incontrare due singolarità incarnate, ma le figure dell’origine in posizioni capovolte. Anche quando è diventato il padre di se stesso l’uomo, che celebra nella sessualità penetrativa la “vittoria sul trauma della nascita” (Sàndor Ferenczi), non può dire di aver reciso il cordone ombelicale, la dipendenza che nell’infanzia lo ha visto inerme affidato al corpo con cui è stato tutt’uno, e da cui ancora teme immaginariamente di poter essere riassorbito.
Di questa ambiguità delle figure di genere, strette dentro logiche di desiderio e di paura, di amore e di odio, di vita e di morte, a dare conto è stata finora la pratica che il femminismo ha chiamato “autocoscienza”: un pensiero e una parola spinti fin dentro le acque insondate della persona, ai confini tra inconscio e coscienza, tanto da portare allo scoperto vissuti che sfuggono alle costruzioni teoriche e al discorso politico tradizionalmente inteso, o che restano “impresentabili”.
Nei rari casi in cui sono stati uomini a vincere, nelle loro scritture, la ritrosia a parlare di sé, a esporre sentimenti, fantasie, ritenute “naturali” inclinazioni femminili, non sono mancate voci critiche anche nel femminismo. Il vissuto di un figlio, l’intreccio di sentimenti opposti di amore e odio, tenerezza e violenza, affidamento e autonomia, destano comprensibilmente inquietudini nella donna che, suo malgrado, ha fatta propria come portato “naturale” la maternità: madre sempre e comunque, che abbia o non abbia avuto figli. Se è stato storicamente lo sguardo dell’uomo, l’ideologia del patriarcato, a identificarla con la sessualità e la maternità, è nell’immaginario di un figlio maschio che prende corpo negli anni dell’infanzia e della adolescenza una relazione destinata a prolungarsi nella vita amorosa adulta, con tutte le sue contraddizioni e ambivalenze.

“L’ossessione era sempre quella dell’identità maschile: confonderla e riavvicinarla a quella dell’altro sesso (capelli, orecchini eccetera) o al contrario credere di custodirla a colpi di forbici (…) Vedono la femminilità come una infezione, temono di esserne contaminati, custodiscono la virilità come un sistema chiuso, compatto, impermeabile alle mollezze che il contatto con il femminile evoca e provoca (…) Nella prima esperienza, abbracciati a una donna, ai ragazzi manca il respiro, si sentono soffocare, intrappolati. Altro che possedere, conquistare, dominare! Un uomo si sente avviluppato dalle spire, avvinghiato dai tentacoli, sepolto nella cedevolezza delle forme di un corpo femminile, e quando entra dentro di lei è come se fosse entrato nella tomba. Con immenso piacere e sgomento, la sconcertante novità della morbidezza”.
(Edoardo AlbinatiLa scuola cattolica, Rizzoli 2016)

Settant’anni prima, nel 1946, Franco Matacotta, il giovane poeta marchigiano, ultimo amore di una Sibilla Aleramo che si scopriva “madre- amante”, descrive la sua formazione di adolescente con parole e immagini molto simili.

“Mia madre! Essa lo era stata quando un minuscolo grumo di sangue attendeva nel suo grembo d’essere chiamato alla luce. Allora essa m’aveva posseduto, io ero stato tutt’uno con le sue viscere. Ora mi pareva che tra me e lei il rapporto fosse come tra l’acqua e le viscere della montagna. L’acqua se ne fugge, corre lontana. E io, perché dovevo continuare ad appartenere a mia madre? (…) Si amavano i miei genitori? Quelle braccia della mamma ch’io m’era rappresentato naturalmente protese verso il babbo, le sentivo invece deviate da non so qual vento nemico verso di me. Braccia. Bramose di offrirsi, di sacrificarsi, perennemente sollevate nell’atmosfera elettrica della casa: braccia senza corpo, senza volto, con quel loro gesto concavo delle mani sempre vuote. Perchè quella curva terribile, nel gesto d’amore? Essa chiama, stringe, diviene cerchio e spira”.
(Franco MatacottaLa lepre bianca, ristampato da Feltrinelli, 1982).

Figlia femmina, cresciuta per vent’anni in una famiglia contadina, dove i maltrattamenti riguardo alle donne sembravano far tutt’uno con la povertà e la fatica del lavoro dei campi, neppure il privilegio di aver potuto frequentare un buon liceo di provincia mi ha permesso allora di districare il perverso annodamento tra la debolezza e la violenza paterna, la vitalità prorompente di mia madre e la sua sottomissione. Ma, soprattutto, avendo potuto percorrere le strade riservate di solito al figlio maschio – lo studio, la fuga verso la grande città, l’impegno politico – non mi è stato difficile, con la consapevolezza che mi è venuta in seguito dal femminismo, rendermi conto di quanto la visione maschile del mondo – la “fuga dal femminile”, il desiderio e la paura di una possessività materna, sia pure legata agli affetti più che al potere – avesse messo radici profonde anche nella memoria del mio corpo. “Non c’è rivoluzione senza la liberazione delle donne”, scrivevamo nei volantini degli anni Settanta. Oggi direi “Non c’è liberazione senza una rivoluzione della coscienza maschile”. Se invece pensiamo che le donne siano “innocenti”, toccate dal patriarcato solo come vittime, e gli uomini malvagi “per natura”, allora non resta che chiederci perché continuiamo a mettere al mondo dei mostri.



L’articolo è stato pubblicato su  Comune-info il 24 Marzo 2025
L’immagine è di Folco Masi da unsplash

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E’ MORTA L’UNIONE EUROPEA, VIVA L’UNIONE EUROPEA!

di Gianni Giovannelli

Il rapimento di Europa – Rembrandt, 1632

Se crederete subito vi ordineranno
qualche cosa di più grande ancora
nella convinzione che la paura vi ha fatto dire di si
anche a questo primo punto.
Se rifiuterete con decisione
farete capire chiaramente
che dovranno rivolgersi a voi
solo da pari a pari

Tucidide
(Le storie, I, 141, Sansoni, 1967 pag. 516)

Il parlamento della Repubblica Federale Tedesca è stato rinnovato con le recenti elezioni tenute il 23 febbraio scorso e, come noto, l’assetto è cambiato notevolmente, con un forte incremento della destra (AFD, 152 seggi), l’ingresso della sinistra (Neue Linke, 64 seggi), il forte calo di Verdi e Socialdemocratici (ora 85 e 120 seggi), l’uscita dei Liberali. Il quadro potrebbe mutare a seguito del ricorso presentato alla Corte Costituzionale da Sahra Wagenknecht (BSW, comunisti populisti) che ha chiesto il riconteggio, avendo mancato la soglia del 5% per un pugno di voti. Ove mai la spuntasse (il che non è da escludere, pur se non facile) verrebbe a cadere l’esile maggioranza composta da democristiani e socialisti, con conseguente ingovernabilità. Intanto i due partiti hanno sostenuto la proposta Von der Leyen di aumentare a dismisura la spesa militare, legittimando il deficit di bilancio nei singoli paesi nazionali. Il problema, tuttavia, in Germania è quello di una legge costituzionale (detta freno al debito) che vieta qualsiasi disavanzo superiore a 0,35% del PIL: si tratta di un ostacolo insormontabile per l’applicazione del riarmo in terra tedesca. Il Presidente Steinmeier ha sciolto il Bundestag già 27 dicembre 2024, ora in carica solo provvisoriamente fino all’insediamento di quello nuovo, previsto per il 31 marzo 2025; ma nella nuova composizione manca la maggioranza di 2/3 necessaria per rimuovere la norma costituzionale. Sia Neue Linke sia AFD hanno escluso di dare l’assenso e i loro 216 voti bastano a bloccare la riforma, anche ove Wagenknecht non la spuntasse. Mostrando un totale disprezzo per ogni elementare regola democratica democristiani e socialdemocratici si stanno allora impegnando, congiuntamente, per far votare la modifica della Costituzione al parlamento disciolto, avviando una trattativa con i Grunen che, come noto, sono irresistibilmente attratti dalle bombe e dalle guerre, dunque disponibili a questo colpo di mano contro la pace.
Un altro sostenitore del riarmo è un altro sopravvissuto come Emanuel Macron, incollato alla sua posizione nonostante la sconfitta elettorale e la mancanza di sostegno nel paese; la maggioranza della Francia (sia la destra lepenista, sia la sinistra di Fronte Popolare) si oppone alle spese militari, ma questo non conta nulla, il programma viene imposto con prepotenza, con la repressione del dissenso. Il Presidente del Consiglio Europeo, il socialista Antonio Costa, ha sostenuto con opportune astensioni il governo conservatore portoghese di Montenegro, schierato con i più oltranzisti paesi della NATO contro qualsiasi trattativa; ma proprio nei giorni scorsi a Lisbona l’esecutivo è caduto e si va verso nuove elezioni, probabilmente a maggio. In Romania poi il favorito nazionalista Calin Georgescu (fra l’altro con un passato ecologista) è stato clamorosamente escluso dalla ripetizione delle elezioni, dopo l’annullamento della consultazione precedente da parte di una Corte Costituzionale assai poco indipendente dalle pressioni governative; chi ha sottoscritto il riarmo certamente rappresenta una minoranza del paese. Quanto avvenuto a Bucarest si presenta come un vero paradosso: la destra europea appoggia il candidato socialista pro riarmo e esclude il candidato nazionalista favorito, accusandolo di aver ricostituito il movimento fascista con il finanziamento di Putin e dei comunisti nordcoreani! In questa cornice confusa si cala la scelta (anche questa forzata, autoritaria e sostanzialmente antigiuridica) di procedere al riarmo e allo scontro militare senza richiedere il voto del parlamento europeo; imposto dalle circostanze e concesso di malavoglia aveva carattere consultivo, oltre a non rappresentare la realtà dei cittadini che vivono nei 27 paesi dell’Unione Europea. Rievocare il fascismo storico conduce fuori strada. Certamente rivivono nell’attuale cabina di comando elementi che hanno caratterizzato i regimi dittatoriali europei della prima metà del secolo scorso, quali la xenofobia, il colonialismo, l’intolleranza repressiva, la repressione poliziesca, la giustizia classista. Ma non basta a spiegare quel che sta avvenendo. Siamo di fronte ad un nuovo assetto politico fondato su un rapporto dispotico fra governo e sudditi, sulla relatività del diritto sempre piegato alla ragion di stato, sull’esproprio del comune e delle risorse primarie (aria, acqua, cielo) in una forma che si presenta, in veste nuova, come accumulazione primitiva volta a ottenere valore dall’esistenza collettiva riducendo la maggioranza degli esseri viventi a merce che produce, sempre, ogni minuto della giornata, senza sosta. In questa guerra non ci sono solo le armi convenzionali in azione: ci sono soprattutto satelliti che preparano la morte in precise aree territoriali scelte da anonimi funzionari in strutture indipendenti da quella che viene chiamata democrazia occidentale e che oggi forse non esiste già più (o comunque si avvia verso una inevitabile sparizione dalla scena, in tempi brevi).
L’irruzione di Donald Trump ha probabilmente accelerato quel che comunque sarebbe accaduto nella vecchia Europa. Non viene neppure contrapposta una diversa visione del mondo rispetto a quella che brutalmente il presidente americano rivendica come propria. L’Unione Europea dei 27 (affiancata dalla Gran Bretagna che pure si era sfilata pochi anni addietro) è frammentata, divisa, perfino provinciale, senza prospettive reali oltre che priva di valori morali da difendere. Pensa, sbagliando, che sia possibile, nel XXI secolo, fermare i flussi migratori; non ci riuscirono negli ultimi cinque secoli del primo millennio i cittadini dell’impero, quando ci si spostava a piedi o con i carri, pensano di riuscir-ci in un’epoca che dispone di navi, aerei, automobili, treni! Pensa, ancora, di poter vincere la guerra senza combattere, senza mettere a rischio la vita, senza esporla ai droni, alle pallottole, alle armi chimiche, alla strage intelligente pianificata dalle migliaia di satelliti che ci ruotano sopra la testa. O magari sognano di poter ripristinare la leva obbligatoria. Quando Macron minaccia di mandare truppe francesi o europee a combattere (o a separare i combattenti: cambia poco) ha in mente qualche migliaio di mercenari pronti a qualunque scelleratezza, come ha sempre fatto. Dimentica che non è riuscito a tenere la posizione neppure in Africa, di fronte a truppe male equipaggiate il suo esercito ha ceduto il campo: contro l’armata russa è ragionevole dubitare che possa andargli meglio. L’Unione Europea abbaia alla luna, rischia di provocare un disastro senza sapere tuttavia come reagire davvero, sul campo, dopo averlo stupidamente innescato.
Ottocento miliardi. Sottratti alla spesa sanitaria, alla ricerca, all’istruzione, alla difesa dalla povertà, all’ambiente, al futuro, all’accoglienza, al meticciato inteso come unica vera reale speranza dei popoli europei. Ottocento miliardi buttati al vento per un programma sconclusionato che non ha la minima possibilità di ottenere risultati concreti, neppure dal punto di vista criminale di chi lo ha concepito. Serviranno solo ad arricchire ulteriormente le imprese che producono armi e che, tendenzialmente, si disinteressano di come vengano usate dopo aver incassato il corrispettivo. Il comico Maurizio Crozza ci ha rivelato che il dispositivo di accensione del Lockeed Martin F-35 (circa cento milioni ciascuno) rimane esclusiva americana, possono bloccarlo se non sono d’accordo, alla faccia dell’autonomia difensiva europea! Sono ottocento miliardi spesi male, sparsi in 27 paesi in costante lite fra loro, governati spesso da partiti minoritari, corrotti, con unico punto in comune il dispotismo quale forma necessaria di esercizio del potere (la Romania è un esempio emblematico).
Ora ci apprestiamo alla messa in scena di una farsa, quella del 15 marzo 2025, a Roma, in sostegno dell’Europa. Non si sa quale, naturalmente. Ma il lancio proviene da Michele Serra, giornalista (ovviamente retribuito) di Repubblica, quotidiano fin dall’inizio schierato per la prosecuzione del conflitto russo-ucraino e contrario ad ogni trattativa. Repubblica è interamente posseduto da Exor, società controllata dalla famiglia Agnelli. La famiglia Agnelli ha la proprietà (fra le tante) di Iveco Defence Vehicles (IDV), azienda produttrice di mezzi militari che nel 2024 ha aumentato il fatturato del 31% e l’utile del 92%: non stupisce il risultato considerando il proliferare degli scontri bellici nel mondo. La Rivista Italiana di Difesa ha reso noto l’accordo siglato in data 11 novembre 2024 fra IDV e Leonardo per la fornitura (da parte della prima alla seconda) di motore e cambio-trasmissione da montare su due nuovi modelli di carri armati, l’Italian-Main Battle Tank (IMBT) e il c.d. A2CS/AICS (una nuova famiglia di veicoli da combattimento). Si tratta di un affare colossale che renderà alla famiglia Agnelli, datrice di lavoro del giornalista Serra, una montagna di soldi; ma, persona riservata, il giornalista Serra non ha ritenuto di far sapere ai convocati tramite le colonne del quotidiano questo particolare di cronaca economica, probabilmente valutandolo di scarso interesse. Eppure il dubbio che l’editore del suo giornale abbia magari un conflitto d’interesse sorge spontaneo! Il progetto Von der Leyen approvato dal Consiglio Europeo par costruito apposta per riempire le tasche della famiglia Agnelli, naturale che abbia volentieri messo a disposizione la testata per creare sostegno ad un riarmo che procurerà vantaggio finanziario al gruppo, controbilanciando la crisi di Stellantis e rafforzando il governo.
Chi, magari in perfetta buona fede, andrà alla manifestazione, contribuirà certamente a far crescere il patrimonio (un po’ logorato ma sempre notevole) della famiglia Agnelli, difficilmente aiuterà la pace nel mondo e forse (per lo più inconsapevolmente) verserà invece benzina sul fuoco, contribuendo a morte e distruzione, sottraendo risorse a sanità, ambiente, istruzione, ricerca. Ma non c’è alcuna possibilità di mantenere in vita l’Unione Europea, quella è già morta, nessuno potrà resuscitarla. Michele Serra evoca, con una sorta di nostalgia per la propria gioventù comprensibile in chi ha ormai passato i settanta, l’Europa di De Gasperi e Adenauer, perfino quella di Altiero Spinelli o di Aldo Capitini; ma è cambiato il secolo, il modo di produzione, il pianeta. L’unica Europa che esiste oggi l’abbiamo davanti: è quella dei 27, di Orban ungherese e Marcel Ciolacu rumeno, di Giorgia Meloni e Emanuel Macron, di Costa e Von der Leyen. E’ un’Europa dispotica, aggressiva, predatrice, xenofoba, ostile. Ha sostituito e ucciso quella del XX secolo. Andare in piazza a sostenerla è follia pura, autolesionismo. Ne prendano atto tutti, finalmente: come nelle vecchie monarchie la cerimonia funebre del 15 marzo prevede il grido è morta l’Unione Europea viva l’Unione Europea! I presenti sono chiamati a incoronare il nuovo sovrano.
Esiste un’altra Europa? Ma certo! I giovanissimi nati nel terzo millennio (nonostante il calo demografico esistono) hanno imparato a girare nel vecchio continente senza incrociare sbarre doganali di confine, la Gran Bretagna pagherà un prezzo per averle rimesse e già sta cominciando a farlo. I migranti sono fuggiti dalla guerra, non certo per andare altrove ad armarsi e a combattere. Bisogna ritrovare l’orgoglio di essere internazionalisti, non è in contraddizione con l’amore per la propria terra, per una casa, per una vigna, per un lembo di orizzonte. Mai come in questo frangente la pace prende la forma di un programma rivoluzionario; è l’esatto contrario del programma di riarmo, che infatti mira all’esproprio del comune. La nostra Europa pone quale condizione preventiva proprio la diserzione in aperta opposizione al riarmo; e si tiene consapevolmente lontana dalla manifestazione dl 15 marzo, senza anatemi, ma al tempo stesso con una ostile estraneità.

L’immagine è tratta da Wikimedia

E’ MORTA L’UNIONE EUROPEA, VIVA L’UNIONE EUROPEA! Leggi tutto »

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