In memoria di John Young e di Cryptome


di Denis Roio

Omaggio a John Young e a  Cryptome, il più antico progetto per la libertà di informazione in rete che non si è mai svenduto e non si è mai arreso

John Young è morto. Aveva ottantanove anni. La sua opera con Cryptome è eminente per molti di coloro che furono attivi agli albori delle reti digitali. Young assieme a sua moglie Deborah Natsios fu il cofondatore di Cryptome, un progetto che, per il sottoscritto e per altri, costituì un esempio precoce di attivismo in rete, o hacktivism, che dir si voglia.

Scroprii Cryptome durante le mie prime esplorazioni in rete. Credo fossi da poco diventato maggiorenne e la mia passione per la letteratura americana mi portò a leggere dibattiti contemporanei collegandomi a comunità digitali nascenti quali The Well, Nettime ed i fora ospitati da The Thing BBS a New York City. Agli albori di Internet, Cryptome già si distingueva assieme a pochi altri siti: un sito scevro da orpelli che distribuiva documenti non reperibili altrove e tra i quali i più interessanti davano prova di crimini commessi da stati o multinazionali che malcelavano la propria buona fede. Cryptome era la prova che Internet avrebbe significato per tutti noi una nuova frontiera per la libertà delle informazioni.

Cryptome nacque nel 1996 e credo che Young abbia iniziato pensando il suo ruolo come quello di un archivista: curava la collezione, ma non i contenuti dei singoli documenti, nel senso che non li modificava e filtrava in alcun modo. Ha pubblicato informazioni molto utili ed approfondite concernenti crittografia, contro-spionaggio, operazioni più o meno celate di governi e multi-nazionali, tutti argomenti ai quali io stesso mi appassiono da una vita. La collezione di Cryptome per sua stessa ammissione conteneva anche materiale datato o impreciso: non si poneva come una fonte autoritativa, ma affidava le informazioni alla capacità del pubblico di valutarle autonomamente.

Le motivazioni di Young sembrano essere state plasmate dalla sua esperienza delle proteste studentesche del 1968 alla Columbia University, erano i tempi delle proteste contro la guerra in Vietnam, per le quali venne anche brevemente arrestato. Nei primi anni Novanta il governo americano bloccò l’esportazione di algoritmi crittografici con una legislazione che li equiparava alle armi, una storia ben raccontata nel libro “Crypto” di Stephen Levy. Fu in quell’epoca che Phil Zimmermann rilasciò il codice di Pretty Good Privacy (PGP) e Cryptome naque in supporto a tale azione rivendicando la libertà di ricerca ed condivisione.

Negli anni seguenti Cryptome pubblicò svariati documenti probanti serviti a fare chiarezza ed alle volte anche giustizia sui misfatti di multinazionali e governi senza scrupoli. Dai colpi bassi di Monsanto ai contadini di tutto il mondo passando per i documenti dello “stay-behind” network di cui faceva parte il nostrano progetto Gladio, fino alle operazioni della CIA nei luoghi più remoti del pianeta atte a scardinare l’integrità democratica di paesi ostili agli USA. La passione di John per la tecnologia ed in particolare per la crittografia lo portarono anche a pubblicare documentazione tecnica di grande utilità per chi, come giornalisti ed attivisti che attraversano zone pericolose, ha bisogno di custodire dati digitali in sicurezza, inclusa manualistica sul nostro software “Tomb” di Dyne.org, esso stesso usato da attivisti, ma anche alcuni operativi della US Army.

Alcuni anni più tardi, circa venti anni fa, ebbi l’opportunità di incontrare John Young di persona. Ciò avvenne a Berlino, al festival Transmediale, dove fui onorato di ricevere il premio Vilem Flusser. Incontrare l’individuo dietro Cryptome, un archivio che ormai possedeva una certa mitologia per noi del settore, fu un’esperienza significativa. Fu incoraggiante sapere che un lavoro di quella portata possa essere il risultato della dedizione di individui che agiscono per principio, piuttosto che da organizzazioni cospicue con finanziamenti sostanziosi.

È importante ricordare che Cryptome non ha mai fatto profitto delle sue attività, le spese molto limitate del sito erano a carico dei suoi creatori, architetti di professione, che lo dichiaravano servizio pubblico. Questo lo rende molto diverso da altre piattaforme per la libertà di informazione come WikiLeaks o The Intercept.

L’approccio di John Young ancora oggi ci insegna che un’attività del genere non deve mirare all’approvazione generale, ai riconoscimenti, alle donazioni e quantomeno al profitto: un impegno saldo all’accesso pubblico all’informazione, indipendentemente da quanto scomoda quell’informazione potesse essere per i poteri costituiti, deve escludere qualsiasi interesse finanziario dal suo orizzonte, per essere assolutamente indipendente.

Internet è mutato dall’inizio di Cryptome, ma le questioni che il progetto di Young sollevò già trent’anni fa circa segretezza, controllo ed etica della pubblicazione rimangono attualissime e irrisolte. Cryptome mostra che chiunque abbia a cuore la libertà di informazione possa attivarsi per essa anche con poche risorse. Nonostante la dipartita di John Young, il suo progetto resta un punto di riferimento per un’ideologia di trasparenza radicale che possiamo annoverare tra le ricette di salvezza per un tipo di informazione pubblica che gli interessi di governi e multinazionali spesso vorrebbero mettere a tacere.

Qui il ricordo di John Yound da parte dell’Electronic Frontier Foundation



L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 30 maggio 2025

Nella foto: John Young e Deborah Natsios di Cryptome.org

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Premio Cesare Zavattini


AAMOD – Comunicazione & Ufficio Stampa 

Al via la X edizione del Premio Cesare Zavattini: aperto il Bando per giovani filmmaker Iscrizioni, Bando e Regolamento disponibili sul sito www.premiozavattini.it
Scadenza il 20 luglio 2025.

È online il Bando della X edizione del Premio Cesare Zavattini, iniziativa che intende consolidare le competenze di giovani cineasti interessati al riuso creativo e sperimentale delle immagini d’archivio, consentendo loro di realizzare i propri progetti di cortometraggio, e nello stesso tempo promuovere la conoscenza degli archivi filmici e del cinema che li utilizza in modo originale e sperimentale. Il Bando è rivolto a filmmaker tra i 18 e i 35 anni, professionisti e non, di qualsiasi nazionalità, i quali possono candidarsi proponendo un progetto di cortometraggio della durata massima di 15 minuti, che preveda il riuso, anche parziale, di materiale filmico d’archivio.

Una Giuria composta da cinque personalità del cinema italiano selezionerà, tra i progetti pervenuti, nove finalisti e fino a tre uditori. Gli autori e le autrici delle proposte selezionate parteciperanno gratuitamente a un Workshop formativo e di sviluppo, articolato in incontri di formazione collettiva e sessioni di tutoring individuale per l’approfondimento delle idee progettuali. Al termine del percorso, i partecipanti presenteranno il proprio lavoro alla Giuria attraverso un pitch, che condurrà alla selezione dei tre progetti vincitori, con eventuale assegnazione di una Menzione speciale.

I progetti vincitori potranno utilizzare liberamente il materiale filmico dell’AAMOD e degli archivi partner e riceveranno servizi gratuiti di supporto alla produzione dei cortometraggi e un contributo economico di 2.000 euro ciascuno. Il Workshop si svolgerà tra settembre e dicembre 2025, mentre la fase di realizzazione è prevista tra febbraio e maggio 2026.

Le candidature devono essere inviate entro la mezzanotte di domenica 20 luglio 2025, compilando il form disponibile al seguente link:
 Modulo di iscrizione

Alla proposta progettuale (da redigere secondo il format scaricabile nella sezione “Bando” del sito www.premiozavattini.it), vanno allegati in formato PDF anche un curriculum vitae e una copia di un documento d’identità.

La presentazione ufficiale della X edizione del Premio, con la sua articolazione, le novità previste e le modalità di partecipazione, si terrà sabato 31 maggio 2025 alle ore 18.30 presso lo Spazio SCENA (Via degli Orti d’Alibert 1, Roma). Interverranno Antonio Medici, direttore del Premio, Aurora Palandrani, coordinatrice, e Matteo Angelici, project manager. L’evento rientra nella cornice di “Riuso di classe”, sezione collaterale della III edizione di UnArchive Found Footage Fest, festival internazionale dedicato al riuso creativo delle immagini d’archivio, promosso – come il Premio Zavattini – dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD).

A completamento della X edizione, nel mese di dicembre 2025, la sezione Zavattini Live! ospiterà una rassegna speciale con tutti i cortometraggi vincitori delle passate edizioni e una selezione di film italiani che si distinguono per l’uso originale di materiale d’archivio. La rassegna includerà anche una giornata di studio dedicata agli sguardi e alle pratiche dei giovani filmmaker che hanno partecipato al Premio nel corso degli anni, offrendo una riflessione sul presente, sulla memoria e sull’evoluzione del cortometraggio come forma espressiva contemporanea.

Il Premio Cesare Zavattini è una iniziativa promossa e organizzata dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, sostenuta da Cinecittà S.p.A. – Archivio Storico Luce, con la partnership di Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia e la collaborazione di Nuovo ImaieCineteca SardaArchivio delle Memorie MigrantiPremio Bookciak Azione!Deriva FilmOfficinaVisioni, Associazione Cinema del realeUCCA, FICC e Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza. Media partner: Radio Radicale e Diari di Cineclub.

Per informazioni e aggiornamenti:
www.premiozavattini.it
info@premiozavattini.it

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Un’apartheid nostrana


di Raffaele Crocco


Di tutti i cinque referendum abrogativi che dovremo affrontare, come elettori, l’8 e 9 giugno, quello sul diritto alla cittadinanza intriga molto.
È il referendum che più racconta delle contraddizioni della democrazia, che ancora oggi pare essere un diritto per alcuni, non per tutti. Come diceva Gino Strada, se un diritto non è universale, si chiama privilegio e l’idea che il nostro Paese da rispetto agli stranieri che ci vivono e magari ci sono nati, è quello di voler discriminare. Pensate alla frase, citata da chi da anni si oppone a qualunque concessione agli stranieri: “la cittadinanza – dicono costoro – bisogna meritarsela”. Una frase così fantasiosa e roboante che viene da chiederci cosa abbiamo fatto tutti noi – a parte avere avuto la fortuna di nascere qui, in questo periodo storico – per meritare di essere italiani certificati.

Detto questo, facciamo un doveroso ripasso. Il referendum chiede di abrogare interamente la lettera F dell’articolo 9 della legge del 1992 sulla cittadinanza. Quella legge dice che «la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del ministro dell’Interno, al cittadino straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio dello Stato» . Questo termine si riduce a quattro anni per i cittadini dell’Unione Europea e a cinque per gli apolidi, coloro che non hanno cittadinanza. Prima di allora, del 1992 intendo, il termine di attesa per la richiesta di cittadinanza era di cinque anni. La riforma – decisamente peggiorativa – venne varata in un clima di crescente stupore e paura: chi è più anziano ricorda, gli altri facciano lavorare la fantasia. Nell’agosto del 1991 erano iniziati gli arrivi massicci di albanesi. Arrivavano su navi mercantili, prese d’assalto nei porti albanesi e costrette a dirigersi in Italia, cariche di esseri umani. Un fenomeno nuovo per noi, allora, addestrati storicamente ad essere Paese di emigranti, non luogo d’immigrazione. Qualcuno – più o meno gli stessi di oggi – iniziarono a usare la cosa per creare paura e insicurezza. Iniziarono a parlare di “invasione straniera”, di “pericolo per le nostre donne e le nostre case”, di “rischio per i posti di lavoro”. L’idea del nemico nacque così: lo straniero divenne – e resta – pericoloso. Tra le varie scelte che vennero fatte, tutte utili ad aprire la strada alle contraddizioni che ancora oggi viviamo sul tema dell’emigrazione, vi fu appunto il varo della legge sulla cittadinanza. Si decise di prolungare il termine dai cinque anni precedenti, ai dieci attuali.

Una decisione che, di fatto, creò e crea un’apartheid nostrana: più di 2,5milioni di persone, che vivono in questo Paese da anni, lavorano, producono ricchezza, pagano le tasse, non hanno alcun diritto politico. Molte di loro, spesso più giovani, in Italia ci sono nate. Vuol dire che stanno studiando qui, sono cresciute qui, pensano, parlano, agiscono come qualsiasi altra ragazza o ragazzo italiani. Eppure, anche se durante le gare sportive tifano Italia e vivono questo Paese come casa loro, vengono trattati da stranieri, da cittadini di serie B. In qualsiasi momento, per qualsiasi bizza burocratica o perché la fabbrica dove il padre o loro lavorano chiude e si perdono così occupazione e permesso di soggiorno, possono essere presi e “rispediti al loro Paese”. Ma loro quel Paese là non lo conoscono, perché si sentono e sono italiani.

Votare SI l’8 e 9 giugno per abrogare quella norma è, quindi, un voto contro l’idea di avere una democrazia monca. Votare SI significa ristabilire giustizia e senso di cittadinanza ad un Paese che pratica un aphartheid subdolo e vigliacco. Il SI è un primo passo per stabilire il principio che la cittadinanza non è un privilegio, ma un sentire comune e condiviso. Soprattutto, deve essere il modo per iniziare a far tacere gli imbecilli che continuano a giocare con le paure e le fragilità di molti. Ancora oggi si sentono slogan che invitano a votare No o a non andare a votare per “impedire ai clandestini di diventare italiani”. Una menzogna clamorosa, raccontata come verità.
Se è vero che una bugia raccontata dieci volte può diventare, grazie alla propaganda, una verità, è altrettanto vero che un’idiozia raccontata cento volte resta una misera idiozia.


L’aricolo è stato pubblicato su Unimondo il 26 maggio 2025

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Ultima chiamata


di Paolo Cacciari

A fine giugno i capi di governo dei paesi Nato decideranno nei dettagli quanto spendere nella produzione di armi e con quale denaro. Si tratta di risorse immense. L’Ue ha già invitato gli stati a «mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare la conoscenza e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate…». Il 21 giugno in tutte le capitali reti di associazioni, comitati, gruppi pacifisti hanno finalmente scelto di mettersi assieme per cercare di fermarli. “L’attuale gruppo di comando della Ue ha deciso di sopravvivere a sé stesso e ai suoi fallimenti militarizzando la società civile e la sua economia – scrive Paolo Cacciari – Sottrarsi a questo esito bellicista e autoritario è l’unico obiettivo davvero esistenziale per tutti gli europei…”

È questo il momento di farsi sentire. A fine giugno all’Aja e poi a Washington i capi di governo dei paesi membri dei “due pilastri” della Nato, quello europeo e quello nordamericano, decideranno nei dettagli quanto spendere, con quali denari, per produrre quali armi e contro chi utilizzarle. Stiamo parlando di quantità di risorse enormi, mai così tante dalla fine della guerra fredda, tra Golden Dome Usa (lo scudo missilistico spaziale da 175 miliardi di dollari) e Rearm europeo (800 miliardi di euro).
Fermarli è possibile. Almeno in Europa. Il 21 giugno in tutte le capitali reti di associazioni, comitati, gruppi spontanei che animano i movimenti pacifisti diffusi in questi ultimi anni di guerre spietate hanno finalmente deciso di mettersi assieme e di prendere sul serio la grande minaccia che incombe sull’umanità: una nuova guerra mondiale.

Gino Strada amava stupire dicendo: «Non sono pacifista, sono contro le guerre», un paradosso per andare al sodo: la pace è anzitutto fermare qualsiasi conflitto armato tra gli stati. Il cammino della pace non può che essere «disarmante», per usare le parole del nuovo papa Robert Francis Prevost. E, prima ancora, Simon Weil a proposito della “deterrenza” scrisse: «Ciò che si definisce sicurezza nazionale è una condizione chimerica: in cui un paese conserverebbe la possibilità di fare guerra privandone tutti gli altri» (Sulla guerra, 1933-1943).

Verso la fine del documento approvato dal Parlamento europeo sulla Sicurezza e la difesa comune (Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2025, Relazione annuale sull’attuazione delle politiche di sicurezza e di difesa comune) c’è scritto che la Ue aprirà «un dibattito pubblico informato», per «sviluppare una comprensione condivisa e un allineamento delle percezioni delle minacce in tutta Europa», così da «garantire un sostegno da parte delle istituzioni democratiche, di conseguenza, dei cittadini» (§164). Bene, questo confronto pubblico, trasparente e certificato (speriamo) lo chiedono per prime le persone annichilite dal delirio bellicista che pervade il discorso pubblico, le televisioni, la stampa. Ma per essere vero dovrebbe svolgersi prima che vengano assunte decisioni irreversibili. Altrimenti non è un dibattito, ma un indottrinamento.

In ballo c’è una montagna di soldi – di ricchezza socialmente prodotta (il famoso 2 o 3 o 5 per cento del Pil) – che verrà inevitabilmente sottratta agli usi civili. Ma non è nemmeno questa la questione più grave. Il documento sulle politiche di sicurezza (59 pagine, 197 paragrafi), ribattezzato Readines 2030 (Pronti nel 2030), va letto e studiato per intero. Intanto: “pronti” a fare cosa? I 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Onu e le relative Agende nazionali traguardate al 2030 (coincidenza!) non contemplano l’entrata in guerra. Cosa è cambiato da dover mutare così radicalmente tutti i piani? «La scelta del regime russo – si legge nella Risoluzione – di dichiarare guerra ai paesi europei» (§ B delle premesse). L’invasione dell’Ucraina è certo un atto intollerabile da qualsiasi parte lo si voglia vedere, in tutti gli aspetti umanitari e del diritto internazionale, ma per sanzionare tale realtà non vi è alcun bisogno di attribuire alla Russia delle finalità che non ha mai espresso e che ha sempre smentito. A chi giova ampliare ed esasperare i motivi del conflitto sul controllo delle zone russofone dei paesi usciti dalla Federazione russa? Comunque, la contro-scelta dell’Europa di cercare «La pace attraverso la forza» (§ 23) per realizzare il «piano per la vittoria dell’Ucraina» così come formulato da Zelensky (§ 28), entra in contrasto con quanto stabilito da quasi tutte le carte costituzionali nazionali e internazionali uscite dalla Seconda guerra mondiale. La nostra, come si sa, «ripudia la guerra […] come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Come l’Unione Europea intende superare questo ostacolo “formale” non lo dice. Per ora si limita a prepararsi all’eventualità che si verifichino le peggiori «minacce e rischi per la sicurezza», tenendo conto anche «dell’intensificarsi dei legami tra la Russia e la Cina» (§ 4 delle premesse), nonché delle «azioni aggressive della Cina nel Mar cinese” (§ 87). Faccia attenzione anche la Cina!

Esclusa a priori la riconciliazione, messa da parte la prevenzione, non rimane che la preparazione alla guerra. Come? Il documento Ue è lungo e dettagliato: si va dagli investimenti in armi, logistica e servizi annessi (da reperire a debito, secondo uno schema keynesiano) (§ 73 e successivi), allo sviluppo e coordinamento del comparto industriale militare (§ 47 e successivi); dal sostegno alle «tecnologie a duplice uso, applicabili sia nei contesti civili che militari» (§ 54), nucleare compreso, con particolare attenzione «al ruolo svolto nel settore della difesa dalla tecnologia di rottura emergenti, quali l’intelligenza artificiale, il calcolo quantistico, il cloud computing e la robotica» (§ 55) – e qui il pensiero va alle “armi autonome” approntate e sperimentate da Israele a Gaza – fino agli investimenti nel settore spaziale (§150 e successivi).

Tutto ciò non è ancora nulla. Senza mobilitazione delle masse a sostegno della guerra non la si può fare. Serve quindi «rafforzare la resilienza [sic!] e la preparazione della società alle sfide in materia di sicurezza» (§164). A tal fine gli stati sono invitati a «mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare la conoscenza e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate» (§164). Dovranno quindi essere messi a punto «programmi di formazione degli insegnanti e di cooperazione tra le istituzioni di difesa e le università, quali corsi militari, esercitazioni e attività di formazione con giochi di ruolo per studenti civili» (§ 167). Crosetto, con il suo Programma di comunicazione per la diffusione della “cultura della Difesa”, non si inventa nulla! Gli «Stati membri devono affrontare sfide cruciali relative al reclutamento e al mantenimento del personale nelle forze armate» (§168). Il tutto per «rafforzare la preparazione e la prontezza civile e militare dell’Europa (…) in particolare la resilienza psicologica degli individui e la preparazione delle famiglie» nelle situazioni di emergenza (§ 165). Il grottesco kit di sopravvivenza per le prime 72 ore di guerra predisposto dal governo svedese è preso ad esempio.

La Risoluzione del Parlamento europeo sull’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune che abbiamo fin qui richiamato, andrebbe letta assieme alla Comunicazione proposta dalla Commissione Ue il 26 marzo: Strategia dell’Unione europea in materia di preparazione per prevenire e reagire alle minacce e alle crisi emergenti (30 azioni chiave e un dettagliato piano d’azione). In questo documento la Commissione Ue intreccia “crisi e minacce” di diversa fattispecie: da quelle derivanti dai cambiamenti climatici e dalle pandemie alle «crescenti tensioni e conflitti geopolitici, alle minacce ibride e alla cibersicurezza, alla manipolazione delle informazioni e alle ingerenze straniere». Per ciò: «Dobbiamo prepararci ad affrontare incidenti e crisi su larga scala e intersettoriali, compresa la possibilità di aggressioni armate che colpiscano uno o più Stati membri». Come? «In un numero crescente di scenari (ad esempio emergenze sanitarie, eventi meteorologici estremi, attacchi ibridi e informatici), le autorità civili hanno bisogno di un supporto militare. In caso di aggressione armata, le forze armate avrebbero bisogno del supporto civile per garantire il funzionamento continuo dello Stato e della società. Occorre quindi migliorare l’interazione tra attori civili e militari (…) che coinvolgono in modo coerente tutte le parti interessate civili e militari» (§5). Due le azioni da intraprendere: verso l’alto, migliorando la «cooperazione e l’integrazione con i partner strategici esterni come la NATO in materia di mobilità militare, clima e sicurezza, tecnologie emergenti, cibernetica, spazio e industria della difesa»; e verso la base della società coinvolgendo tutti i livelli di governo e le amministrazioni pubbliche in «un approccio che coinvolge l’intera società, riunendo i cittadini, le comunità locali e la società civile, le imprese e le parti sociali, nonché le comunità scientifiche e accademiche». In particolare «la Commissione svilupperà linee guida per lo sviluppo dei programmi scolastici, a partire dall’educazione della prima infanzia, per sostenere l’acquisizione di competenze di base sulla preparazione, compresa l’alfabetizzazione mediatica, come chiave per una cittadinanza attiva e informata e per combattere la disinformazione e la manipolazione delle informazioni. Gli insegnanti avranno accesso a risorse e opportunità di sviluppo professionale sulla piattaforma europea per l’istruzione scolastica». (§15).

Nulla di serio si dirà. In Europa l’immaginario orwelliano funziona ancora da anticorpo. Ma le politiche sulla sicurezza della UE non sono da sottovalutare poiché, da un lato, alimentano uno stato d’animo di inquietudine e di paura permanente e dall’altro accreditano l’inevitabilità dello scontro armato. Le guerre sono un fenomeno complesso, sono la forma estrema di violenza collettiva che per deflagrare hanno bisogno di molte condizioni: un oggetto conteso, una giustificazione, un dispendioso apparto tecnico-organizzativo e soprattutto una motivazione che giustifichi le sofferenze inaudite che patiscono le popolazioni civili. Rinunciando ad analizzare le cause storiche, ideologiche, economiche, geopolitiche del conflitto ucraino – così come delle altre 60 guerre in atto, Palestina compresa – l’attuale gruppo di comando della Ue ha deciso di sopravvivere a sé stesso e ai suoi fallimenti militarizzando la società civile e la sua economia. Sottrarsi a questo esito bellicista ed autoritario è l’unico obiettivo davvero esistenziale per tutti gli europei.


L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 27 maggio 2025
La foto è di Lorenzo De Tomasi in Wikimedia Commons

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Referendum sulla cittadinanza: un principio di civiltà


Due contributi di Alberto Guariso e Francesco Ferri

Torniamo sul tema della cittadinanza (oggetto del referendum n. 5) con due contributi, il primo di Alberto Guariso, il secondo di Francesco Ferri, entrambi giuristi.

Guariso, in particolare, si sofferma sul principio di democrazia fondamentale sottostante un quesito di questo genere, che sostiene i diritti di base di chi vive in questo paese già da un periodo di cinque anni: “Chi a quel popolo appartiene perché ne condivide le sorti su un territorio, magari per esservi addirittura nato, perché lì ha relazioni e stabilità di vita, perché lì adempie i suoi doveri di solidarietà, questi è cittadino e ha diritto che questa sua condizione venga riconosciuta”. Si ricorda che l’eventuale vittoria dei SI non garantisce – come propagandato in modo falso e tendenzioso dalle destre razziste e populiste – l’immediato ottenimento della cittadinanza italiana, in quanto occorre possedere altri requisiti, la cui certificazione richiede spesso attese di ulteriori due o tre anni.
Francesco Ferri, invece, fa notare come la legge sull’ottenimento della cittadinanza sia del 1992, pensata in un contesto sociale profondamente diverso, e non è mai stata sottoposta a una revisione sistemica. Questa volontà di non intervenire in materia – scelta ovviamente politica – giustifica ancor di più la necessità di votare SI, ben coscienti che non sarà questo referendum a risolvere la questione migrante (in particolare l’induzione alla clandestinità come strumento di dumping sociale sul mercato del lavoro). Ma può essere un punto di partenza per ribadire che l’esclusione non è un errore del sistema ma una sua funzione: “La cittadinanza è una delle forme principali attraverso cui si produce esclusione istituzionale. È un terreno di conflitto. Il referendum non risolve questa tensione, ma può riaprirla. Può rendere nuovamente possibile la domanda: chi è riconosciutə come parte della collettività? Chi decide? Su quali basi?”.


Chi vive in Italia ha diritto in tempi brevi alla cittadinanza

di Alberto Guariso
Poiché ultimamente le cose semplici sono sempre più rare, era inevitabile che anche il quesito referendario sulla cittadinanza avesse una formulazione un po’ complicata: gli elettori troveranno infatti sulla scheda il riferimento al maggiorenne “adottato da cittadino italiano” e magari si chiederanno perché mai i promotori del referendum dovrebbero avercela con gli adottati, tanto da voler abrogare una norma che li riguarda.
Ma la ragione è presto detta: la nostra Costituzione, come noto, ammette solo i referendum abrogativi e dunque era assai difficile riuscire a estendere le possibilità di acquisizione della cittadinanza mediante la abrogazione dell’una o dell’altra norma.
Si è quindi dovuto scegliere una strada stretta: prendere in considerazione una delle ipotesi di  residenza “abbreviata” per poter proporre la domanda di cittadinanza e cancellare le parole che limitano questa ipotesi ai soli adottati da cittadini italiani (altre ipotesi di abbreviazione sono quelle dei cittadini dell’Unione Europea e dei titolari dello status di rifugiato): cancellato il riferimento agli adottati e cancellata anche (con la seconda parte del quesito)  l’altra previsione generale dei 10 anni di residenza,  si ottiene che il termine abbreviato viene esteso a tutti. Una soluzione ingegnosa che, nonostante comporti una certa manipolazione della norma, la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile, sufficientemente chiara e del tutto conforme agli obiettivi dichiarati dai promotori (sentenza 11/2025).
Una precisazione deve però essere fatta: l’abbreviazione riguarda solo il periodo dopo il quale è consentito “fare domanda” di cittadinanza, ma non comporta affatto che dopo 5 anni si divenga automaticamente cittadini italiani;  la domanda  rimane comunque sottoposta a una valutazione ministeriale altamente discrezionale (un “atto di alta amministrazione”,  tendenzialmente incensurabile, come ricorda la citata sentenza della Corte Costituzionale) e dunque dovrà passare al vaglio del Ministero per quanto riguarda, la sufficienza del reddito, la conoscenza dell’italiano, l’assenza di precedenti penali o di comportamenti ipotizzati come “antisociali” e così via: con un procedimento per il quale, oltretutto,  la legge attribuisce al Ministero ben 3 anni di tempo (sicché i cinque anni diventano automaticamente otto).
Mentono dunque, sapendo di mentire, le forze politiche di governo quando equiparano la vittoria del SI a una sorta di  “regalo” della cittadinanza a chiunque la chieda: quello che accadrebbe è solo che il periodo di residenza sufficiente per proporre domanda si ridurrebbe al medesimo livello previsto dalla gran parte dei paesi europei: il termine di  cinque anni è infatti previsto in Francia, Germania, Paesi Bassi,  Irlanda, Svezia;  in Austria sono 6, in Spagna solo due se si proviene da paesi sudamericani; persino l’Ungheria, paese non certo tenero con i migranti,  prevede un periodo inferiore a quello italiano (8 anni).
Nulla cambierebbe invece per quanto riguarda i casi di acquisizione della cittadinanza “per diritto” (cioè per il caso di matrimonio, del 18enne nato in Italia che ivi abbia sempre risieduto e pochi altri) e dunque le varie proposte nate per estendere l’accesso alla cittadinanza (per diritto) a coloro che sono nati in Italia (ius scholae, ius culturae ecc.) resterebbero ancora una volta senza risposta.
Un esito positivo del referendum avrebbe tuttavia l’effetto –  quasi rivoluzionario nel clima politico attuale –  di rendere manifesta la volontà popolare di rompere l’inerzia del legislatore e arrivare a una soluzione ragionevole.
Tra l’altro un ulteriore spinta in questo senso potrebbe paradossalmente venire dal “pasticcio dello ius sanguins”: e infatti il governo, risvegliatosi improvvisamente dal suo torpore, ha improvvisamente deciso che il riconoscimento dello status di cittadino solo per discendenza dall’avo italiano (il famoso ius sanguins)  stava generando effetti paradossali, tra le divisioni della maggioranza, è corso ai ripari con il decreto legge 36/2025, ormai già convertito in legge e destinato, per la sua formulazione pasticciata, a generare ulteriore contenzioso.
L’operazione, al di là del contenuto, segnala quantomeno l’indifendibilità del regime vigente e se qualcosa si è potuto fare (tra l’altro in tempi brevissimi) in termini restrittivi sul versante della trasmissione iure sanguinis, significa che qualcosa si può fare anche in termini estensivi sugli altri versanti.
Ancor più lo segnala il fatto che nel corso del mese di giugno verrà anche discussa alla Corte Costituzionale l’eccezione sollevata dal Tribunale di Bologna secondo il quale la eccessiva facilitazione (fino alla DL 36/2025)  nella acquisizione della cittadinanza “per diritto di sangue” sarebbe contraria alla Costituzione addirittura per violazione dell’ l’art. 1,  laddove sancisce che “la sovranità appartiene al popolo”: attribuire “la sovranità” (prima di tutto mediante il diritto di voto) a persone che a quel popolo non appartengono,  per distanza geografica e culturale,  violerebbe il diritto del “popolo” a decidere lui stesso delle proprie sorti.
Non è detto che la tesi del Tribunale di Bologna sia giusta e giuridicamente fondata. Sicuramente segnala quanto sia giusto e fondato il principio opposto: che cioè chi a quel popolo appartiene perché ne condivide le sorti su un territorio, magari per esservi addirittura nato, perché lì ha relazioni e stabilità di vita, perché lì adempie i suoi doveri di solidarietà, questi è cittadino e ha diritto che questa sua condizione venga riconosciuta.
Il referendum, se vinceranno i SI, servirà a fare un passo in questa direzione. Dunque, senza dubbi, un SI!

Cittadinanza in movimento. Il referendum contro lo stallo istituzionale

di Francesco Ferri

A poche settimane dal voto referendario sulla cittadinanza, vale la pena fermarsi a riflettere su due domande: in che momento politico arriva questa iniziativa? E quali scenari può aprire?
Il referendum propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale e continuativa richiesto a chi vive in Italia, insieme a molti altri requisiti, per poter presentare domanda di cittadinanza. Si tratta di una modifica specifica, ma tutt’altro che irrilevante: non solo perché agisce su uno dei dispositivi principali dell’esclusione istituzionale, ma perché costringe il dibattito pubblico a tornare su un terreno che la politica istituzionale ha sistematicamente evitato.

Un contesto di transizione bloccata

Nonostante questa dimensione sia sistematicamente rimossa, l’Italia è una società eterogenea, plurale attraversata da processi di mobilità, mescolanze, genealogie plurali. La presenza di milioni di persone di origine straniera – molte delle quali nate o cresciute in Italia, o residenti da decenni – è un dato strutturale. Eppure, l’impianto normativo che regola la cittadinanza resta ancorato a un paradigma identitario. La legge in vigore risale al 1992, pensata in un contesto sociale profondamente diverso, e non è mai stata sottoposta a una revisione sistemica.
I tentativi di riforma – dal cosiddetto ius soli temperato allo ius scholae– sono stati depotenziati o bloccati, neutralizzati da un sistema politico incapace di affrontare il tema della cittadinanza fuori da logiche emergenziali o securitarie. Nel frattempo, la cittadinanza continua a funzionare come una barriera d’accesso, una soglia che separa chi è riconosciutə come parte della collettività da chi, pur vivendoci, ne resta formalmente esclusə.
In questo quadro, il referendum si presenta come un’interruzione dell’inerzia. Non è una riforma organica, ma un’iniziativa politica puntuale e necessaria: rompe il silenzio istituzionale, costringe a ridefinire il perimetro della discussione, chiama alla mobilitazione soggetti da tempo marginalizzatə nel dibattito pubblico.

La partecipazione delle persone escluse

Il referendum sposta lo sguardo sulle persone adulte escluse dalla cittadinanza. Il discorso dominante si è concentrato, nell’ultimo decennio, quasi esclusivamente sulle cd. “seconde generazioni”, in particolare su bambinə e adolescenti, raffiguratə come innocenti, integratə, meritevoli. Questa narrazione, oltre a essere paternalistica, ha prodotto una rimozione sistematica della condizione materiale e simbolica dellə adultə esclusə dalla cittadinanza.
Chi oggi non ha accesso alla cittadinanza partecipa già attivamente alla vita collettiva. Lavora, studia, abita, costruisce relazioni, si organizza. Ma lo fa da una posizione subalterna. L’esclusione dalla cittadinanza ha conseguenze materiali molto concrete: limita la possibilità di accedere a determinati lavori, soprattutto nel pubblico impiego; impedisce la piena libertà di movimento; nega il diritto di voto e di rappresentanza; alimenta una condizione di precarietà amministrativa.
Non si tratta dunque di persone “in attesa” di partecipare: si tratta di soggetti che partecipano già, ma a cui viene sistematicamente negato il riconoscimento e la titolarità piena dei diritti.

La cittadinanza come dispositivo selettivo

La cittadinanza non è solo uno status formale. È un dispositivo che organizza l’accesso a diritti, risorse, spazi, forme di visibilità. È una soglia che definisce chi può prendere parola nello spazio pubblico, chi può rivendicare, chi può essere consideratə interlocutorə politico. Funziona come un filtro, selettivo e diseguale, che riproduce gerarchie razziali, economiche e sociali. Il referendum non mira a cancellare questa soglia, ma a ridurne almeno una parte dell’arbitrarietà. Prolungare artificialmente l’esclusione giuridica serve solo a consolidare disuguaglianze.
Comunque vada, il referendum ha già avuto effetti politici. Ha riattivato discorsi, messo in circolazione argomentazioni, prodotto alleanze, mobilitato soggettività. In vista del voto, gli scenari che si aprono sono molteplici. Se il quorum venisse raggiunto e l’esito fosse netto, si aprirebbe la possibilità concreta di riaprire il dibattito parlamentare, rompendo un tabù che da troppo tempo paralizza ogni riforma. Se anche il quorum non fosse raggiunto, ma la partecipazione fosse significativa, si potrebbe comunque consolidare una rete politica ampia e durevole. Viceversa, un’astensione diffusa rafforzerebbe lo status quo.
Per questo il referendum va attraversato con tutta l’energia possibile. Non si tratta di affidare a una scheda elettorale il potere di cambiare tutto. Si tratta di cogliere un’occasione per mettere in discussione il modo in cui lo Stato organizza l’appartenenza e per politicizzare un terreno che è stato depoliticizzato per decenni.

Politicizzare l’esclusione

La cittadinanza è una delle forme principali attraverso cui si produce esclusione istituzionale. È un terreno di conflitto. Il referendum non risolve questa tensione, ma può riaprirla. Può rendere nuovamente possibile la domanda: chi è riconosciutə come parte della collettività? Chi decide? Su quali basi?Sta a noi tuttə mantenere aperto questo spazio. Non solo per difendere una proposta importante ma parziale, ma per farne un punto di partenza. Politicizzare la cittadinanza significa mostrare che ogni soglia è storicamente costruita, e come tale può essere modificata, anche radicalmente. Significa affermare che l’esclusione non è un errore del sistema, ma una sua funzione. E che può essere rovesciata solo se viene nominata, contestata, decostruita.


I contributi sono stati pubblicati su Effimera il 26 maggio 2025

Immagine: Ivan Milev, Rifugiati, 1926 – Wikimedia Commons

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