L’arma che uccide, da quando è diventata un prodotto industriale, si rivolta contro l’umanità, e il soldato di professione non sa più di quali aspirazioni egli sia lo strumento.
Karl Kraus (Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, 1980, pag.184)
Mercoledì 14 maggio 2025, Milano, Piazza Martini: è giorno di mercato, frotte di persone camminano fra le bancarelle guardano, parlano, chiedono, esitano, a volte comprano. In quello stesso giorno l’esercito israeliano ha bombardato il campo profughi di Jabalya, il più grande degli otto esistenti nella striscia. In 1400 metri quadrati, dentro tende e baracche, ai margini della città, ci abitano in 116.011, registrati da UNRWA nel 2023; la città vicina ne conta invece 82.877. L’area del campo, già nel XIV secolo, era celebre per la fertilità della terra e per gli agrumeti. Senza difesa, colpiti dalle armi che piovevano dal cielo, sono morti almeno in settanta, di cui 22 bambini. Il giorno prima era stato distrutto l’ospedale del campo di Khan Younis (6 morti); il giorno dopo sarebbe toccato ad altri 115, uccisi dall’alto, all’alba. Nella striscia l’esercito israeliano ha distrutto il cibo, cancellato ogni traccia di agrumeto insieme alle case.
La frutta al mercato
Mentre i palestinesi senza cibo muoiono sotto i colpi dell’occupante, ormai privo di qualsiasi remora o pietà per le vittime, nelle bancarelle di Piazza Martini si vendono molte varietà di frutta o verdura. Molti fra i lavoratori che servono i clienti vengono dai paesi del sud mediterraneo, sono tunisini, egiziani, marocchini, sono nati e cresciuti accanto ai palestinesi, non possono non fraternizzare, condividono, come è naturale, la loro sofferenza. In maggio la stagione dei mandarini (con i semi) e delle clementine (senza semi) può dirsi giunta a conclusione, inizia a novembre, dopo i primi giorni di aprile anche la specie tardiva non si trova più. Eppure tutti i banchi hanno in bella vista le clementine, con un bel colore, una buccia invitante, il pezzo aperto in mostra appare morbido, succoso, senza semi; il prezzo è tuttavia più alto, per quanto si sia al mercato mai sotto i quattro euro al chilo, spesso di più. Viene spontaneo chiedere e così imparo che il paese di origine è Israele.
La Clementina Orri
Dopo essermi documentato spiego l’arcano. Si tratta di un ibrido che la genetista Aliza Vardi (1935-2014) ha creato nei laboratori dell’Istituto di Ricerca Agricola Volcani. Si chiama Cultivar Orah (oppure Orri in commercio), il Ministero dell’agricoltura israeliano lo ha brevettato negli USA il 4 marzo 2003 (PP13616) e ha ottenuto la certificazione UE nel 2013, ottenendo la licenza in esclusiva per questo prodotto di laboratorio e natura. La caratteristica di Orri è proprio quella di essere disponibile quando gli agrumi similari hanno chiuso il ciclo; Israele condivide l’affare con la multinazionale spagnola Genesis Innovation Group (AM Fresh Group) e chiunque si mettesse in mente di piantarlo altrove deve pagare i diritti. La legge spagnola (a garanzia dell’accordo) punisce con il carcere chi non rispetta l’esclusiva; un contadino valenciano si è beccato una multa oltre a 31 giorni di carcere per coltivazione abusiva di Orri. Di fatto Israele (con la multinazionale spagnola) ha il monopolio; usa le leggi europee per conservare l’esclusiva ma al tempo stesso distrugge gli agrumi palestinesi infischiandosene della normativa internazionale che dichiara di non riconoscere. Per uno strano scherzo della storia l’Istituto Volcani fu creato nel 1921 da Itzhak Elazari Volcani, un sionista nato in Lituania, emigrato in Palestina nel 1908 per sfuggire ai pogrom, socialista e collettivista, morto nel 1955, avversario fierissimo della destra nazionalista israeliana. Torniamo ora in Piazza Martini.
Discussione in piazza
La reazione nasce spontanea dopo aver saputo la provenienza del frutto: se viene da Israele non compro le clementine! Nasce subito una discussione animata davanti alla bancarella. Una signora interviene per prima: non ti piacciono perché ci sono i pesticidi velenosi? No! Non è per quello, non riuscirei a mangiare sapendo che è merce sporca di sangue. Il ragazzo al banco guarda sorpreso, non se lo aspettava, si sente coinvolto, pare quasi commosso. Vi capisco, avete ragione, dice, io sono qui per lavorare, vendo quello che mi dicono di vendere, ma avete ragione, non bisogna dare soldi a Israele, li usano per uccidere, per rubare la terra ai palestinesi. Si guarda intorno, teme orecchie ostili, ha paura di essere mandato via, poi sorride, approva. Intorno a Piazza Martini ci sono caseggiati popolari in cui abitano molte famiglie di immigrati, la solidarietà per il popolo di Gaza si respira nell’aria. Ci saranno sicuramente nel crocchio che si è formato sostenitori di Israele, o magari anche razzisti e perfino popolani resi ciechi dal rancore, dal bisogno, dal malessere sociale. Tuttavia tacciono vergognosi, consapevoli di essere in minoranza. Diventa un coro di voci indignate, di protesta convinta, di condanna della strage quotidiana di cui si stanno macchiando le truppe israeliane. Cade il silenzio indifferente, si incrina, sia pure (purtroppo) per poco, l’omertà complice che consente l’attuazione sistematica del genocidio a poca distanza dalle nostre abitazioni, sull’altra costa del Mediterraneo.
Un massacro finanziato
Il governo italiano manda/vende (poco cambia) armi usate per la strage continua. Il governo israeliano distrugge gli agrumeti dei palestinesi e coltiva, anche nei campi espropriati illegalmente, i frutti che vende nei paesi europei, usando il profitto (e i proventi di licenze concesse) per finanziare il massacro. I coloni che incassano il corrispettivo della Clementina Orri sono gli stessi che, protetti dall’esercito, bruciano case e campi dei contadini palestinesi. Intanto ai profughi della striscia viene tolto ogni sostegno alimentare, si impedisce con le armi l’arrivo di acqua, energia, medicine, vestiti. I paesi dell’Unione Europea, pronti a riarmarsi e a sottrarre fondi al welfare per costruire la guerra, assistono senza reagire. Non solo mandano strumenti di morte, non solo evitano sanzioni economiche, si guardano bene perfino dal disporre misure diplomatiche dissuasive, anche minime, come l’espulsione degli ambasciatori del genocidio. L’attuale ambasciatore israeliano a Roma, l’ufficiale dell’aeronautica Jonathan Peled, si dichiara assai soddisfatto della posizione assunta dal governo italiano e sostiene (come in fondo naturale) l’operato del governo in carica, compreso il blocco degli aiuti umanitari a Gaza. Un governo presieduto da chi dovrebbe essere arrestato, in quanto criminale di guerra, ove decidesse di visitare il paese amico!
Reagir bisogna
La specialista addetta alla comunicazione per UNICEF, Tess Ingram, nell’intervista rilasciata il 19 gennaio 2024, aveva rilevato che nei 105 giorni precedenti, durante l’invasione e il quotidiano bombardamento della popolazione nella striscia di Gaza, erano nate/i oltre 20.000 bambine/i. Il 2 aprile 2025 l’associazione Save the Children ha riferito che in media, senza ospedali e senza aiuti, nascono ogni giorno a Gaza 130 nuove creature (sono oltre 47.000 in un anno). Una resistenza e una resilienza incomprensibili per chi, come Trump, vorrebbe trasformare Gaza in una seconda Sharm El Sheikh. Tuttavia i soldati israeliani non desistono, perseguono il loro disegno omicida. È giunto il tempo di rompere il muro del silenzio, di fermare la strage. Di restituire la Clementina Orri al mittente rifiutando ogni complicità.
Cantava Rudi Assuntino: o forse si aspetta/la rossa provvidenza/per cui gli altri decidono/e noi portiam pazienza.
NOTA Si veda, a questo proposito, la rete BDS – Boicotta, Disinvesti, Sanziona.
L’articolo è stato pubblicato su Effimerail 22 maggio 2025
La campana della Chiesa Madre ha un suono più allegro del solito stasera. La gente del piccolo borgo è accorsa a frotte, vestita degli abiti migliori, come se andasse ad una festa. E festa sarà davvero, sempre che i protagonisti si decidano ad arrivare. L’attesa è iniziata ormai da più di un’ora, e un’altra ancora manca all’istante in cui l’evento, così tanto a lungo evocato, accadrà, finalmente. Giorni e giorni, ore e ore di preparativi, di prove, di correzioni di piccoli impercettibili errori, che solo ai protagonisti sono apparsi tali al momento. E, finalmente, il visto, il si proceda, l’imprimatur sono stati concessi da entrambe le parti, dai numerosi e non sempre richiesti supervisori, che hanno voluto dire la loro in merito all’evento, alle sue dinamiche e alle sue varie fasi. Sono intervenute, innanzi tutto, le madri, future consuocere, sempre in lizza per definire la supremazia del rispettivo figlio o figlia nella gerarchia familiare, considerando come sempre in queste situazioni il loro parere “vincolante”, una condizione – anzi, una serie di condizioni – senza la quale – e senza le quali. Insomma, basta, va da sé, ci siamo capiti. Chi non si è capito sono state proprio loro, le amiche-rivali, che si sono fronteggiate per giorni e giorni, a volte per settimane e mesi, una volta rese edotte della tanto attesa notizia – Ci sposiamo! – a colpi di “questo sì, quest’altro no, questo forse, quest’altro è impossibile!”. Fino allo sfinimento, fino alla necessaria discesa in campo dei consorti, che, fino a quel momento, avevano osservato dall’alto della loro esperienza l’evoluzione delle schermaglie, sfociate infine in aperti combattimenti, tra le di loro coniugi.
Ad imporre per primo la tregua – armata, ma pur sempre tregua – era stato il signor Orlando, che aveva tuonato un baritonale “Adesso basta!”, alle ennesime rimostranze che la di lui legittima consorte, signora Franca, gli aveva sottoposto tra una portata e l’altra del pranzo domenicale. Assenti i “ragazzi”, strategicamente defilatisi per una sana boccata di aria marina, la signora Franca aveva potuto finalmente dare libero sfogo a tutta la sequela di ripicche con le quali, a suo dire, la futura consuocera l’aveva tormentata e torturata fino a quel momento, negandole persino la facoltà di esporre, civilmente s’intende, il suo parere in merito all’organizzazione dell’intera cerimonia. E dire che lei, la consuocera, si era permessa di dare consigli sul come disporre i posti a tavola al banchetto nuziale. E, sulla torta, aveva potuto dire qualcosa lei? Sulla torta, per mantenere la pace familiare, era stato opportuno tacere. Anche se. Anche se di parole da aggiungere al già detto la signora Franca ne avrebbe avute e ne aveva ancora, in abbondanza, perfino in sovrabbondanza. E tutte quelle parole, trattenute a stento, pro bono pacis, s’intende, le avevano provocato un mezzo travaso di bile che, insomma. Basta. “Basta” lo aveva detto anche il signor Orlando, sempre con quella bella voce baritonale impostata, perché lui cantava nel coro della chiesa, e peccato che nel giorno della cerimonia non avrebbe potuto farlo, impegnato ovviamente in tutt’altro ruolo. E lo aveva fatto notare, tutto questo, alla signora Franca, le aveva fatto notare a cosa avrebbe dovuto rinunciare anche lui nell’occasione.
E che, dunque, lei la smettesse di fare i capricci per una torta sulla quale avrebbero dovuto decidere, in fondo, soltanto gli sposi. Ed era stato allora che la signora Franca si era temporaneamente azzittita, ma dentro di sé continuava a ribollire come un vulcano prossimo all’eruzione. Ma, tornando a noi e al presente, un improvviso ondeggiare della folla, radunata sulla piccola piazza antistante la chiesa, segnala l’arrivo di qualcuno di importante ai fini della riuscita della cerimonia. Si tratta forse dello sposo? Impossibile, ancora troppo presto per poterne ammirare l’arrivo, la discesa dalla macchina condotta dal fidatissimo amico Gianriccardo, l’elegante ascesa dei pochi gradini che conducono al portone della chiesa, spalancato come deve essere nell’occasione. Il tutto in una salva di applausi e di auguri che sembrano rendere ancora più leggero ed elastico il passo dello sposo. A proposito, si chiama Andrea, lo sposo. Ma non è lui a destare l’interesse della folla, si tratta invece di una ragazza elegantissima – amica della sposa, prontamente riconosciuta come tale da alcuni e subito conosciuta e ammirata anche dal resto degli spettatori. Ma anche amica dello sposo, mormora qualcuno dei presenti, amica “particolare” spettegola qualcun altro, evidentemente bene informato, perché sono davvero in pochi a conoscere i dettagli di una breve relazione che ha tenuto legati Angelica – la nostra invitata in arrivo – e Andrea, come già detto, lo sposo. Le cose, però, finiscono sempre per andare come devono andare, mai come vorremmo che andassero, noi semplici spettatori di vicende nelle quali l’unico coinvolgimento avviene attraverso le decine di pareri non richiesti, che ci permettiamo di sottoporre alla attenzione di chi di dovere. Che poi, alla fin fine, decide sempre secondo la propria volontà, o almeno così dovrebbe accadere, di solito.
Così è stato, infatti, per Andrea, quando si è trovato a dover scegliere la futura compagna della sua vita, senza dare ascolto alle voci che lo avrebbero voluto vincolato per l’eternità ad Angelica. A risolvere la questione ci ha pensato Gianriccardo, che ha trovato campo libero per far conoscere ad Angelica le sue intenzioni – difatti si sposeranno di lì a un mese, al ritorno dal viaggio di nozze degli sposi del giorno. La vita è scontata? La vita è monotona? Chi può dirlo? Intanto, mentre tentiamo di sciogliere la serie ininterrotta di interrogativi che si propongono alla mente in questa situazione, sta facendo il suo ingresso nella piazza antistante la chiesa l’auto della sposa. La cerimonia vera e propria, a questo punto, può avere inizio e, difatti, già lo sposo ha raggiunto la sua postazione, già il padre della sposa è sceso dall’auto per aprire lo sportello alla propria figlia e darle il braccio. Un sorriso soddisfatto gli sta affiorando alle labbra, quel genere di sorriso che equivale a un “finalmente” rassicurante e consolante, ormai è fatta e adesso non si torna più indietro. Attento, adesso, a non inciampare su qualcuno dei cinque gradini che conducono all’ingresso vero e proprio della chiesa. Del resto, non sarebbe la prima volta che accadono episodi del genere, sicuramente non di buon auspicio per l’esito della cerimonia e del matrimonio nel suo complesso. Ricorda ancora, il padre della sposa, quando qualcosa di simile accadde in occasione del suo matrimonio, al padre della sposa di allora, sua attuale consorte, a suo suocero, insomma, e ci vollero settimane e mesi per assorbire i malumori legati a quell’insignificante incidente e a quel tanto di ridicolo che ne era conseguito.
Ma, ormai, è fatta, c’è solo da percorrere la navata e consegnare la sposa nelle mani dello sposo, mani un po’ sudaticce, per la verità, dopotutto l’emozione comincia a prendere il sopravvento. Intanto, le prime note della Marcia Nuziale si spandono nell’aria della chiesa, è il segnale, non convenuto ma universalmente riconosciuto, che dà inizio alla cerimonia.
Si può davvero ancora pensare dopo Gaza? Pensare dopo Gaza è un saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, come indicato nel sottotitolo del libro di Bifo uscito nel febbraio 2025 per la casa editrice indipendente Timeo. Ultimamente recensire i libri di Bifo è veramente difficile ma proveremo a definire delle linee di lettura e di pensiero che si sforzano di capire, aprire varchi, indicare cosa vuol dire pensare oggi, dopo Gaza e dopo quel 1900 che sembrava, dopo Auschwitz e Hiroshima, dirci “mai più”…
La ferocia
Proprio dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, dopo i continui avvertimenti sui rischi di guerre, povertà, miserie culturali e falsi miti, dittature e tecnologie usate per uccidere, siamo di fronte, in quel cimitero spettrale a cielo aperto che è Gaza, al “ritorno della ferocia come unico regolatore degli scambi tra gli umani che segna il processo di estinzione della cosiddetta civiltà”, dove ogni forma di linguaggio e di spettacolo di tv, media, social diventa uno strumento di sterminio. La politica e la società diventano i grandi assenti di questa crisi epocale dove la stessa cultura ebraica tradisce se stessa e l’universalità della ragione umana e della democrazia falliscono qualsiasi tentativo di mediazione e di risoluzione del conflitto, o meglio del genocidio in corso. Perché in quelle bombe ci siamo anche noi, inermi e responsabili, occidentali, stati, istituzioni, colonialismo interminabile, Orientalismo pervasivo, tecno-capitalismo e neoliberismo sfrenato. Se tutto poi viene mediato dalla ferocia vuol dire che gli spazi della politica sono ormai vuoti gusci fini a se stessi. Cosa fare di fronte a questa ferocia pervasiva? Disertare forse, cercare una pace senza condizioni, la rinuncia a vincere, l’alleanza tra le vittime…Ma in realtà siamo solo parte inerme e privilegiata di un Occidente che si sta sgretolando in maniera irreversibile: no, non abbiamo la forza di fermare questo genocidio inarrestabile.
Gaza è Auschwitz con le telecamere
Bifo è sicuro: “la differenza tra Auschwitz e Gaza sta nel carattere pubblico, orgogliosamente ostentato dell’Olocausto inflitto ai palestinesi” dove l’orgia degli orrori su tv, computer e telefonini produce “una sorta di nichilismo visuale” che porta a una pericolosa assuefazione estetica dell’orrore. Ricordando il libro Mille piani di Deleuze e Guattari, l’autore definisce il fascismo come una situazione in cui la guerra è dappertutto, in ogni nicchia e in ogni luogo: siamo nelle tenebre davvero: “un tecno fascismo che si manifesta biopoliticamente come sterminio illimitato”.
Basta con la memoria
La memoria non esiste più e non crea più resistenza, conoscenza, storia, intensità. Inoltre si tratta di una memoria bianca, occidentale, patriarcale che non ricorda le varie stragi del colonialismo e dell’imperialismo: per esempio la popolazione della più grande democrazia al mondo, che deve diventare di nuovo grande, ha nella sua pelle lo sterminio delle popolazioni indigene del Nord America. Inoltre non ci ricordiamo mai che non sono gli ebrei che hanno voluto tornare in Palestina ma “sono i nazisti europei che li hanno spinti ad andarsene, sono i sionisti che insieme agli inglesi hanno preparato la trappola in cui gli ebrei sono caduti: quella trappola si chiama Israele”. Allora per Bifo la vera lotta per allontanarsi dal potere è “liberazione dalla memoria, da tutte le memorie”. L’odio, le barbarie, il nazionalismo, il fascismo, il sovranismo, le guerre in corso hanno la loro memoria e ne traggono linfa vitale ma la memoria è ingannevole e si può trasformare in rancore: “perciò la memoria può essere nemica dell’amicizia”.
Disintegrazione
Non esiste nessuna democrazia liberale e il potere dei vari Putin, Trump, Milei, intesi come tiranni, sono soltanto “la manifestazione politica (cioè spettacolare) del potere sempre più ineludibile del sistema finanziario e del sistema tecno militare”. Ma Bifo ci ricorda continuamente che se la differenza tra democrazia liberale e sovranismo è ormai vuota invece la disintegrazione è reale. E comunque le bande di mafiosi attuali che governano Israele e Usa non faranno altro che accelerare questa disintegrazione di ogni valore sociale, culturale, politico ed esistenziale della nostra civiltà.
Una nazione bagnata di sangue
Bifo ci ricorda anche che Paul Auster, prima di morire, scrive un libro fondamentale (Una nazione bagnata di sangue) per i suoi Stati Uniti: “Questo è un paese nato nella violenza, con 180 anni di preistoria vissuti in continuo stato di guerra con gli abitanti delle terre di cui ci siamo impossessati e continui atti di oppressione contro la nostra minoranza schiavizzata”. Adesso, e non solo negli USA, ci sono guerre, gang, armi, sparatorie, psicosi di massa, complottismo, suicidi, depressioni, sonno dimenticato, gaming permanente, crescente antinatalismo, schiavismo digitale e molto altro ancora. Bifo rincara la dose: “lo schiavismo fa parte del bagaglio psichico della nazione americana… come può questa nazione pretendere di essere considerata come un esempio per qualcun altro? E forse gli americani votano Trump proprio perché è uno stupratore e un bugiardo nella stessa misura gli Israeliani votano Netanyahu proprio perché pratica il genocidio… Nel suo libro Franco Berardi analizza anche concetti come l’ipercolonialismo, inteso come estrattivismo delle risorse mentali attraverso l’unione micidiale del capitalismo finanziario con il capitalismo delle piattaforme digitali e come il darwinismo sociale, inteso come esaltazione del mercato e della competitività, cioè della capacità di adattarsi e di rispondere alle esigenze sociali. Le pagine finali del testo rappresentano, quasi come un piccolo Urlo di Munch, un grido doloroso e un appello alla cultura, alla poesia, a ogni forma di movimenti e solidarietà possibili, a una sorta di diserzione permanente verso le forme e i caratteri brutali e feroci di questa società per cercare di evitare la terminazione della civiltà umana. Sabato 12 aprile 2025, in una libreria di Castelnuovo Berardenga, la “Libreria del Mondo Offeso”, Bifo ha raccontato che, presentando il suo libro in varie parti d’Italia, esponendo le sue idee e le sue linee di pensiero, si è trovato di fronte a due tipi di reazioni: i suoi amici di un tempo, i vecchi compagni del 68 e del 77, i marxisti più o meno ortodossi si sono meravigliati del nichilismo di fondo e dell’appello a disertare di fronte a queste barbarie che ci avvolgono; ma le nuove generazioni invece non si sono stupiti di questo mondo feroce e barbarico, di questa crisi nella crisi, di queste depressioni e psicosi pervasive, di questo paesaggio disincantato privo di ideali politici e di sogni collettivi. Non vorrei aggiungere altro, ma bisogna sforzarsi di ripensare profondamente le possibilità a venire delle nostre vite per non poter più affermare che “la sospensione della procreazione è la sola speranza per evitare un futuro di tormento e di orrore”.
Per Gaza, oltre Gaza.
L’articolo è stato pubblicato suCodice Rossoil 26 Aprile 2025
Franco Beradi Bifo – Si può ancora pensare dopo Gaza? Bifo e la fine dell’umano. https://timeo.store/ 2025
Oh San Precario, Protettore di noi, precari della terra Dacci oggi la maternità pagata Proteggi i dipendenti delle catene commerciali, gli angeli dei call center, le partite iva e i collaboratori appesi a un filo Dona a loro ferie e contributi pensionistici, reddito e servizi gratuiti e salvali dai lugubri licenziamenti
San Precario, 29 febbraio 2004
di Andrea Fumagalli e Cristina Morini
Correva l’anno 1997 quando Tiziano Treu, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale dell’allora governo di Romano Prodi, propose “un pacchetto” di norme che introducevano per la prima volta i contratti co.co.co. e gli interinali gestiti da società di intermediazione. Per la verità, già nel 1995, con Dini al comando, si era cominciato a parlare della necessità di disciplinare la flessibilità del lavoro e il lavoro a tempo determinato con stravaganti modulazioni di job sharing, fino a quel momento non esistenti in Italia. Ma, insomma, Prodi con la legge n. 196 del 24 giugno 1997, approvata da tutte le forze della sinistra (nessuna esclusa, e con poche lodevoli eccezioni personali), dà piena autorizzazione al progetto di legge Treu e con ciò accelera il processo di precarizzazione generalizzata del mercato del lavoro, introducendo anche nuove tipologie contrattuali, oltre all’interinale, che faranno da lancio per l’odierno. scandaloso stage a prezzi stracciati. Con le ricostruzioni degli esordi ci fermiamo qui, limitandoci ad aggiungere che, prima ancora di queste date basilari, avvisaglie si erano avute sin dagli anni Ottanta. Ciò che è certo è che il completamento del disegno avviene con l’introduzione del Jobs Act di Matteo Renzi, legge delega 183, anno 2014. Seguiranno, l’anno successivo, senza più bisogno di passare dalle due camere, alcuni Decreti legislativi di attuazione. E nell’ultimo decennio (con la sola timida eccezione del c.d. decreto dignità) è stato un susseguirsi costante di norme contro i lavoratori. L’aspetto più eclatante del Jobs Act fu, notoriamente, l’abolizione dell’articolo 18 che significava per le imprese oltre i 15 dipendenti poter procedere liberamente a licenziamenti individuali, con riduzione delle garanzie per i lavoratori licenziati e abbassamento delle indennità previste in caso di licenziamento illegittimo, laddove la difficile dimostrazione di quello che in pochi casi residuali consentiva di richiedere la reintegrazione, veniva addossata al lavoratore o alla lavoratrice. Tutto ciò che è accaduto su questo terreno in questi trent’anni ha completamente investito le nostre esistenze e adesso travolge le generazioni più giovani, con ancor maggior violenza poiché, nel frattempo, i processi di accumulazione si sono complessificati. Ne abbiamo molto scritto. Abbiamo fatto parte, ciascuno di noi a modo proprio, delle varie evoluzioni del movimento dei precari e delle precarie che ha avuto nella città di Milano il suo centro nevralgico, con l’avvio delle prime lotte sul tema, dai Chainworker a San Precario, agli Stati Generali della Precarietà e alle varie MayDay. Senza scivolare nella memorialistica, ricordiamo che in quei primi anni Duemila si riconosceva che solo poche strutture politiche o sindacali e alcuni giuslavoristi si erano accorti del pericolo in corso, mentre il resto delle discipline accademiche (soprattutto economiche) latitava, faticava a intendere o, peggio, appoggiava il “sabotaggio” del lavoro in corso a opera delle oligarchie imprenditoriali e finanziarie. Cosicché, i movimenti, le lotte, le forme di rappresentazione che sono state ideate in quel tempo precario sono state manifestazioni e linguaggi sorti esclusivamente dal basso. San Precario è una sorta di epifania dell’intelletto generale. È inutile negare che il sindacato confederale non fu, allora, un alleato. Ci furono alcune organizzazioni sindacali di base, come la Cub, presenti sin dagli esordi. Ma con i confederali ci fu incomprensione. Una comprensibile incomprensione, all’interno di una visione divergente del lavoro e della sua precarizzazione Oggi, il fatto che Maurizio Landini e la Cgil abbiano indetto quattro referendum sulla tematica del lavoro al fine benemerito di contrastare l’attuale dilagante precarietà, che si traduce in forme di sempre più pericolosa coazione verso il lavoro povero, fa capire quanto sia profondo il vulnus inflitto dal capitale al lavoro vivo, per usare un vocabolario evocativo, e quanto abbia pesato e pesi quell’antica incomprensione. Il vasto schieramento reazionario in favore dell’astensione segnala la consapevolezza del potere di non rappresentare la maggioranza; raccolgono l’astensionismo crescente e la sfiducia nelle istituzioni per usarli contro le moltitudini. Sanno che giocando una partita leale (diciamo con una partecipazione al voto “normale” del 60%) perderebbero la partita; e giocano barando, come sempre hanno fatto, incuranti di ogni contraddizione come pure fanno di continuo. Per questo ha un senso raccogliere la sfida. Bisogna perciò valorizzare il fatto che la Cgil abbia riconosciuto che la condizione precaria è oggi regola nei rapporti di lavoro, a prescindere dalle innumerevoli tipologie contrattuali: l’impermanenza del lavoro vale per tutte e tutti. Appoggiamo, dunque, con convinzione, la necessità di recarsi alle urne a votare a favore dei quattro quesiti referendari sui quali ci si dovrà esprimere l’8 e il 9 giugno prossimi. I temi riguardano: Quesito 1: Reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo; Quesito 2: Maggiore tutela nei licenziamenti delle piccole imprese; Quesito 3: limiti ai contratti a termine e ritorno all’obbligo di causale; Quesito 4: responsabilità negli appalti e sicurezza sul lavoro. Siamo di fronte a una battaglia importante. Soprattutto i giovani dovrebbero sentire la necessità di esprimersi su tali argomenti ma in generale chi pensa che questi referendum riguardino solo una componente della società italiana e ritiene di non doversi impegnare sull’argomento sbaglia grossolanamente. Sono in gioco principi di giustizia economica e sociale e chi invita a non votare o scommette sulla possibilità di non raggiungere il quorum è nemico dei lavoratori e delle lavoratrici. I motivi sono semplici. La generalizzazione della condizione precaria, infatti, peggiora la situazione economica e sociale del lavoro, con effetti negativi sull’intero sistema economico. La precarietà è la prima causa dei bassi salari e del lavoro povero che oramai è dirompente in Italia. Ridurla è un primo passo per far aumentare i salari. È scandaloso che ci siano giovane/i con titolo di master e laurea magistrale con contratti di stage retribuiti con paghe inferiori agli 800 euro al mese per 40-45 ore di lavoro alla settimana. È scandaloso che più dell’80% dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro siano costituiti da contratti di stage, apprendistato, interinali, part time o a tempo determinato. È scandaloso che dal 2021 a oggi in media i salari (compresi quelli dei lavoratori più stabili) abbiano perso quasi il 7% del loro potere d’acquisto. È scandaloso che la precarietà del lavoro sia la prima causa degli incidenti sul lavoro, mettendo a repentaglio giovani e anziani lavoratori. È scandaloso che le donne subiscano, grazie alla condizione precaria, una discriminazione ancor maggiore in termini di salario e di possibilità di carriera di quella che già vivono nella vita quotidiana. È scandaloso il crescente sfruttamento del lavoro migrante a causa del difficile accesso a un diritto di cittadinanza che dovrebbe essere naturale in un paese civile e non razzista quale è oggi l’Italia (a proposito del referendum numero 5 che propone la riduzione del tempo necessario per diventare cittadino italiano, cui dedicheremo un articolo apposito). Lo vediamo ogni giorno, per le vie, nelle aule scolastiche, nei luoghi di lavoro, al cinema, ai concerti: siamo una società irreversibilmente meticcia. Il potere vuole dividere i segmenti etnici per dominarli tutti. Meticciato e solidarietà sono valori, non razzismo e guerra. Tutti e tutte noi siamo coinvolte e coinvolti. Oggi il lavoro è sempre più vita. Sempre più il lavoro è senza fine. Superare il quorum significa modificare i rapporti di forza, se non quelli reali certamente quelli percepiti. Anche la speranza aiuta la ripresa della lotta di classe e di emancipazione. La vittoria referendaria è perciò propedeutica ad altre battaglie dirimenti, in grado di creare i presupposti per una riforma della contrattazione collettiva che sia adeguata alle esigenze del lavoro e dell’esistenza contemporanee; funzionale all’imposizione di un salario minimo orario e all’introduzione di una nuova politica di welfare che abbia come perno il reddito di base incondizionato e il libero accesso ai beni comuni.
L’articolo è stato pubblicato su Effimerail 17 maggio 2025 L’immagine è diEnnio Calabria, 1973
La nobiltà, dicono i nobili è l’intermediaria fra il re e il popolo. Sì! Come il cane da caccia è l’intermediario fra il cacciatore e le lepri.
Chamfort
(Prodotti della civiltà perfezionata, Boringhieri, 1961, pag.121)
di Gianni Giovannelli
Mancano dati precisi e censimenti puntuali, ma si calcola che in Italia gli immobili occupati siano circa 50.000, da suddividere in 30.000 pubblici e 20.000 privati. Questo almeno è il risultato di un sommario censimento di Federcasa e Nomisma, con una elaborazione dei rilievi disponibili nel 2021 e in qualche modo aggiornati per proiezione al 2024. Ovviamente non si possono appiattire in unico segmento realtà sociali molto diverse fra loro, ma, considerando i nuclei abitativi che di fatto si insediano in questi stabili riteniamo che oggi gli occupanti (italiani o stranieri, maggiorenni o minorenni, maschi o femmine) siano intorno a duecentomila unità. Bisogna aggiungere poi la vasta platea che, per vari motivi, ha ricevuto disdetta contrattuale, notifica di sfratto esecutivo, avviso di sloggio. Questa moltitudine di soggetti fragili, spesso privi di reddito e di risorse per sopravvivere dignitosamente, è destinataria di un provvedimento varato dal Governo Meloni ai sensi dell’art. 77 della Costituzione e dell’art. 15 L. 3.8.1988 n. 400: il requisito che consente il decreto consiste nella oggettiva necessità di intervenire senza approvazione delle due Camere per oggettiva e accertata urgenza, di carattere straordinario e improrogabile. Stiamo parlando del c.d. decreto sicurezza (11 aprile 2025 n. 48), firmato dal Presidente Mattarella, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e già esecutivo (in attesa di ratifica successiva blindata dalla fiducia, entro il 10 giugno, ad opera di deputati e senatori che certo non porranno ostacoli alla conferma del provvedimento, disponendo l’esecutivo di una solida maggioranza). Come noto la medesima materia era in discussione nei due rami del Parlamento sotto forma di un – governativo – disegno di legge ordinaria (S 1236 – C 1660); dopo l’approvazione della Camera già il 18 settembre 2024 il testo era al vaglio del Senato, ma in stato di fermo sostanziale per via di un evidente rischio di anticostituzionalità che caratterizzava numerosi passaggi del testo in esame. Si veda il commento al disegno di legge pubblicato da Effimera nel gennaio 2025, cui rimandiamo per brevità, posto che il contenuto del disegno assai poco si discosta dal decreto. Ci preme ora sottolineare tre questioni che a nostro avviso rivestono particolare importanza, senza tuttavia nasconderci la gravità complessiva del provvedimento, articolato in più passaggi dispotico-repressivi che richiederebbero trattazione ampia per ogni capo introdotto. La prima questione è di metodo (la forma di decreto urgente), ma di un metodo che si concreta in sostanza apertamente eversiva dell’ordinamento vigente. Le altre due questioni toccano la vita quotidiana e sociale, criminalizzando minoranze che pur essendo indubbiamente tali sono pur sempre numericamente piuttosto consistenti e soprattutto politicamente deboli, prive di rappresentanza, fragili. Le due questioni sono l’occupazione di case (cui abbiamo accennato in apertura) e la c.d. cannabis light.
Prima questione: l’uso consapevolmente abnorme del decreto legge in materia penale In via eccezionale l’art. 77 della Costituzione consente al governo di emanare provvedimenti immediatamente esecutivi, senza approvazione del Parlamento, quando ci si trovi di fronte a casi davvero straordinari di necessità e di urgenza; l’art. 15 della legge 400/1988 regola (meglio: dovrebbe regolare e invece nessuno la prende in considerazione) l’istituto eccezionale del decreto. Il primo comma dell’art. 15 impone di indicare subito, già nel preambolo, e con chiarezza, quali siano esattamente le circostanze straordinarie di accertata necessità e urgenza che possano giustificare l’adozione del decreto. E, a seguire, la norma vuole che vi sia un contenuto specifico omogeneo corrispondente al titolo. L’arroganza del potere ha questa volta superato ogni limite di decenza: il preambolo, dopo un generico richiamo alla prevenzione del terrorismo (primo capo del decreto, senza che si comprenda dove stia l’urgenza contingente) propone (sinteticamente e senza spiegazioni) nuove disposizioni in materia di sicurezza urbana (articoli da 10 a 18, l’intero capo II che porta questo titolo). In questo capo secondo sono state inserite modifiche al codice penale, in particolare riferite alle sanzioni a carico di chi sia coinvolto nelle occupazioni di immobili (non solo case) e di chi faccia commercio o uso di prodotti c.d. cannabis light. Le pene, come vedremo più sotto, sono pesantemente aggravate (per gli occupanti) e perfino introdotte con previsione di un reato fino a poco prima inesistente: si prevedono anni di carcere! La Corte Costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988 (estensore Renato Dell’Andro, un cattolico moderato allievo di Aldo Moro e in passato anche sindaco di Bari) ha dichiarato non conforme alla Carta l’art. 5 del codice penale, ovvero la norma (fascista, codice Rocco) che escludeva quale esimente la mancata conoscenza di un divieto penalmente sanzionato; quando, per circostanze di tempo o per modalità di comunicazione, sia impossibile avere consapevolezza di commettere un reato o quali possano essere le sanzioni, l’articolo 5 non deve trovare ingresso o quanto meno non può essere di ostacolo a forme attenuate. Ogni legge ordinaria contiene un periodo (chiamato vacatio legis) di 15 giorni, successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, per rendere nota la disposizione; per questo l’uso del decreto (di immediata applicazione) in materia penale solo di rado è reperibile nel nostro ordinamento. Nel nostro caso poi, e questo davvero costituisce uno scandalo istituzionale, l’intero capo secondo era già contenuto, quasi identico, nel disegno di legge precedente. I deputati lo avevano approvato sei mesi or sono, il 18 settembre 2024; giaceva in Senato senza che nessuno (nessuno!) avesse sollevato questioni di urgenza improrogabile. In questi mesi non è accaduto nulla di nuovo: dunque la stessa maggioranza confessa con il proprio comportamento in aula che non c’erano i presupposti per la decretazione. Ma il governo, diviso in fazioni sul da farsi e timoroso di interventi imbarazzanti da parte della Consulta, ha rotto ogni indugio; con questo decreto sottrae a quel poco che resta del Parlamento l’esame e impone con azioni concludenti vie di fatto estranee al nostro normale funzionamento ordinamentale. Non solo mancano in concreto i necessari presupposti di urgenza improrogabile ma neppure si provvede a difendere la forma: il preambolo (in particolare quello del titolo secondo sulla sicurezza urbana) neppure sente il bisogno di inserire una qualunque giustificazione tecnica dello strumento, asfalta la norma costituzionale, avvisa i sudditi che il potere non intende accettare limiti e vara la transizione giuridica verso il dispotismo democratico, anche in Italia come già in Europa sul tema degli armamenti. La firma apposta dal Presidente Mattarella è di enorme gravità, è una coltellata inflitta alla schiena dello stato di diritto liberaldemocratico, non ancora mortale e tuttavia così profonda da lasciare certamente il segno. Colpisce, nella scelta di uno strumento apertamente in contrasto con l’art. 77 della Carta e con la legge attuativa, la evidente consapevolezza di porre in essere una violazione, insieme alla certezza di non incontrare ostacoli: sanno di colpire segmenti minoritari, di poter contare sulla complicità di buona parte dell’opposizione, di avere l’appoggio del rancore sociale e/o della rassegnazione. Hanno ben chiaro il nemico i funzionari del nuovo dispotismo occidentale: la solidarietà. E attaccano, per allargare la divisione fra gli oppressi, singoli segmenti da reprimere a titolo di esempio. Non dobbiamo nascondercelo: è un progetto in pieno percorso di attuazione. Solo riconquistando la solidarietà e l’unità, a qualsiasi costo, sarà possibile costruire forme di contrasto al regime.
Seconda questione: l’occupazione di case Duecentomila persone circa vivono in immobili occupati; non sono gli unici a vivere una vita abitativa nella precarietà. I dati forniti dal Ministero e quelli elaborati da ASPESI (l’associazione delle immobiliari) attestano nel 2023 ben 39.373 sfratti (ogni giorno 107), di cui 21.345 eseguiti dalla forza pubblica (59 ogni giorno), cioè gettando letteralmente gli inquilini in strada e portando le loro cose nei depositi comunali (il costo di recupero è tale che le masserizie sono quasi sempre perse in via definitiva). Nello stesso anno le richieste di sloggio cui viene riconosciuta esecuzione coatta sono state 73. 809; inoltre, riferisce ASPESI, il 62% degli inquilini paga la pigione in ritardo (dunque si espone al rischio di disdetta per morosità). In sintesi il problema della casa riguarda circa centomila abitazioni e non meno di 3 o 4centomila esseri umani. Nella sola Milano ci sono circa 80.000 case vuote, i proprietari pubblici o privati non le usano per i più svariati motivi, di speculazione o di cattiva manutenzione. Sempre a Milano, dopo l’assegnazione a MM della gestione case popolari, le occupazioni abusive sono scese da 1760 (anno 2014) a 511 (nel 2024). Eppure MM lascia sfitti e vuoti 6.059 appartamenti, per ora non occupati e comunque già difesi militarmente. Non basta. La Regione Lombardia con ALER (Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale) ha acquisito, con la legge nazionale 142/1990 e regionale 13.1.1996 il patrimonio edilizio popolare; le 19.534 abitazioni sfitte e inutilizzate di ALER nel 2022 sono divenute 22.496 nel 2023, con aumento di 2962 unità in 12 mesi. Non è certo un segreto: hanno intenzione di svenderle, non certo di assegnarle ai bisognosi. Sfratti e abbandoni convivono, creando una emergenza abitativa che richiede risoluzione. Urgente sarebbe rimuovere ogni ostacolo burocratico e assegnare le case di edilizia popolare ai bisognosi, magari con impegno ad abitarle e a ristrutturarle, previa naturalmente la detrazione dei costi di riparazione dal canone agevolato. Le casse pubbliche non avrebbero oneri aggiuntivi e anzi ci guadagnerebbero. Invece no. Come viene risolta dal decreto questa emergenza? Mandando in malora gli immobili vuoti, sfitti, abbandonati per poi predisporre svendite. Invece di aiutare i poveracci (occupanti o sfrattati per morosità) il progetto è di metterli in strada e/o incarcerarli: questo prevede l’impianto urgente di sicurezza urbana entrato in vigore il 12 aprile 2025. La pena introdotta dall’art. 10 varia da 2 a 7 anni di galera. Destinatari delle sanzioni carcerarie sono tutti coloro che occupano un immobile altrui (pubblico o privato) o le pertinenze (prati, cortili, casolari, tettoie: tutto!) e impediscono il rientro del proprietario o di chi ne abbia ricevuto legittimo possesso (dunque anche un terzo con un qualsiasi titolo contrattuale ricevuto dalla proprietà). La legge chiede solo che vi sia un domicilio del proprietario (o da lui designato), ipotesi assai più ampia del concreto uso abitativo; molto spesso si prende domicilio in luogo diverso da quello in cui si vive realmente. Non basta. Si vuole abbattere ogni possibile rete di sostegno politico, sindacale, associativo, mutualistico; la stessa pena (da 2 a 7 anni) si applica pure a chi in qualunque modo si intromette o coopera per favorire o agevolare l’occupazione. I comitati di quartiere a sostegno degli occupanti sono diventati dal 12 aprile 2025 strutture criminali, e per i singoli soggetti partecipanti si aprono processi penali e concrete prospettive di non breve reclusione. Per chi collabora e ottempera al rilascio (si arrende, si dissocia, si pente, desiste, si consegna) è prevista tuttavia l’impunità. Il procedimento prevede la querela di parte: questo fornisce alla proprietà un formidabile strumento di pressione per piegare le resistenze (ma si procede invece d’ufficio per gli immobili pubblici). La norma punisce non solo l’occupante ma più in generale chiunque detenga l’immobile senza titolo; una simile previsione consente di estendere l’applicazione in forme imprevedibilmente ampie (si può avere un titolo e poi perderlo per svariate ragioni, rimanendo senza, esposto al rischio del carcere). Inoltre, per rimuovere gli ostacoli dovuti ai tempi lunghi della burocrazia, si introduce la possibilità di intervento rapidissimo con liberazione dell’immobile e cacciata dell’abusivo; la norma vale per piccoli proprietari e grandi immobiliari, la si applica indipendentemente dalle condizioni sociali del colpevole. Per il governo, e con urgenza improrogabile, la sicurezza urbana non la si ottiene usando le case pubbliche vuote per dare un tetto a chi si trova in stato di bisogno ma incarcerando il segmento minoritario dei bisognosi, senza predisporre alcuna misura di sostegno, in attesa di lucrare sulla successiva svendita delle case pubbliche abbandonate all’incuria.
Terza questione: cannabis light L’art. 18 del titolo secondo (sempre relativo alla sicurezza urbana) modifica la legge 242/2016, pure quella firmata dall’ineffabile giurista-presidente Mattarella, che non solo consentiva, ma intendeva pure fornire sostegno e promozione alla coltivazione in Italia di cannabis sativa utile fra l’altro per contribuire alla riduzione di consumo dei suoli e della desertificazione. La legge del 2016 si conformava, tardivamente, alla normativa comunitaria (in particolare all’elenco di cui all’art. 17 direttiva 2002/53/CE: percentuale da 0,2 a 0.6%) e prevedeva perfino il finanziamento di imprese di coltivazione della canapa (la c.d. cannabis light) da utilizzare per la produzione di alimenti, cosmetici e altri derivati da inserire nelle filiere commerciali. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 30.475 del 10 luglio 2019), pur con una certa prudenza e con molta circospezione, avevano confermato la legittimità di una lavorazione dei prodotti accertati come effettivamente light. Senza preavviso e senza concedere termini di adeguamento (incompatibili con la decretazione urgente) il 12 aprile 2025 è scattata la tagliola. In quel momento i magazzini erano pieni. Il settore comprende 800 aziende agricole di coltivazione, 1500 imprese di trasformazione, 10.000 addetti. Certamente non è Stellantis o Amazon, ma sono pur sempre circa 12.000 famiglie che hanno perso il reddito di sussistenza, da un giorno all’altro. La promozione e il sostegno che caratterizzavano la prima firma di Mattarella sono venuti meno per motivi di sicurezza urbana che nessuno ha voluto chiarire; dopo il 12 aprile i prodotti derivati dalla cannabis sativa in percentuale light sono illegali, corpo di reato. Venditori, possessori, magazzinieri, commercianti, e acquirenti che cedano magari in regalo questi prodotti rischiano fino a sei anni di carcere, fino a 77.000 euro di multa, sanzioni amministrative (per esempio la patente), conseguenze nell’impiego lavorativo. Difficile censire esattamente quanti fossero i consumatori-clienti della filiera al momento dell’entrata in vigore del decreto; certamente in Italia le persone che magari occasionalmente consumano canapa non sono pochissime. Anche in questo caso una minoranza, senza dubbio; ma una minoranza numericamente di rilievo. Le imprese colpite contesteranno certamente la costituzionalità della abrogazione a mezzo di un simile decreto, per via della palese carenza della necessaria urgenza e per via della violazione di una direttiva europea vincolante. Non sono poche le probabilità di successo in un giudizio davanti alla Corte Costituzionale; ma i tempi non possono essere brevi e dunque il governo ha preferito attaccare subito, incurante del dopo. I despoti agiscono sempre con atti di breve respiro; per rimediare, con nuovi espedienti, c’è sempre tempo. L’importante è vendere l’immagine di un esecutivo capace di aggredire i drogati e di sbatterli dentro senza rispetto e senza pietà. Il dispotismo non coltiva cannabis sativa ma ansia collettiva, disagio sociale, divisione, sottomissione rassegnazione; la stessa semplice felicità viene vista con sospetto.
Concludendo Nei giorni 8 e 9 giugno 2025 ci sarà la votazione per i cinque referendum. La maggioranza tace e punta al mancato raggiungimento del quorum, in effetti elevato. Sono 5 referendum che toccano la materia del licenziamento (due), del contratto a termine (uno), del risarcimento danni da infortuni o morti sul lavoro esteso ai committenti (uno), il termine per conseguire la cittadinanza (da 10 anni attuali a 5). Non sono la rivoluzione che emancipa gli schiavi, sono quesiti piuttosto prudenti nella formulazione e nelle conseguenze che deriverebbero dalla vittoria del “si”. Riguardano tutti e cinque minoranze; nessun quesito riguarda direttamente la maggioranza numerica di chi abita il territorio della Repubblica Italiana. Eppure la scadenza è importante, specie in questo nostro tempo di transizione, politica e istituzionale. Non è per nulla scontato il mancato raggiungimento del quorum. La manifestazione contro il decreto sicurezza è stata assai partecipata; e anche il decreto sicurezza riguardava solo minoranze. Per sua natura ogni maggioranza (intesa come blocco sociale) si compone inevitabilmente di una pluralità di minoranze unite da un patto di alleanza, di mutuo soccorso, di unità contro il medesimo avversario che vuole invece la divisione per imporre il proprio dominio. Contro i cinque referendum si schiera un fronte trasversale, per difendere l’interesse delle imprese e del dispotismo diffonde l’idea che sia inutile partecipare, schierarsi, mettere una scheda nell’urna. Semina in un terreno reso fertile dagli errori commessi dentro il movimento antagonista e soprattutto dai complotti di palazzo. Ma esiste la sorpresa. Avvenne con il referendum sull’acqua pubblica, vinto contro ogni previsione. Non è vero che quella vittoria non abbia prodotto nulla: ha rallentato i progetti di privatizzazione, ha sabotato il programma nemico, rimane ancora oggi un ostacolo, proprio come i due referendum sull’energia atomica che ancora quelli al comando non riescono a digerire. Bisogna provarci, mettendo da parte polemiche e divisioni. Anche una percentuale insufficiente e tuttavia massiccia può essere un segnale, contribuire alla riapertura dei giochi. Non è fiducia messianica nello strumento elettorale. Si tratta solo di prendere atto che nella società dello spettacolo ogni simbolo comunicativo possiede anche una sua materialità. Una vasta affluenza, una partecipazione capace di mettere per una volta da parte le divisioni in segmenti pronti per la sconfitta: sappiamo che non è facile ma che è possibile. Provarci sicuramente non può creare danno; forse potrebbe contribuire ad una ripresa dell’antagonismo, unificando i segmenti, archiviando la paura ancestrale del meticciato e dello straniero. E l’antagonismo, più delle urne, è una potenza economica. Per questo spaventa il palazzo.
L’articolo è stato pubblicato su Effimerail 5 maggio 2025