“Sono diventato morte, distruttore di mondi”. Oppheneimer, Moravia e il disarmo nucleare
di Pasquale Pugliese
“Sono diventato morte, distruttore di mondi” è un verso della Bhagavadgītā – il libro sacro dell’induismo – che, nel film di Cristopher Nolan, Robert Oppheneimer legge direttamente dal sanscrito e poi, quando a capo del progetto Manhattan assiste all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo con il quale il presidente Truman darà il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, gli ritorna in mente insieme alla consapevolezza. La visione del film a me ha riportato in mente un testo “inedito” di Alberto Moravia, autore peraltro già evocato recentemente, in riferimento alla guerra in Ucraina, da Dacia Maraini sul Corriere della sera dell’11 agosto e da Adriano Sofri sul Foglio del 23 agosto, seppur per considerare utopistico il suo impegno per rendere la guerra un “tabù”. Si tratta del testo di un intervento mai svolto al parlamento europeo, dove Moravia era stato eletto nel 1984, oggi inserito in appendice a L’inverno nucleare (a cura di Alessandra Grandelis, 2022), nel quale lo scrittore spiega come in una tragica eterogenesi dei fini, Hitler – che pure ha perso la seconda guerra mondiale – attraverso le armi nucleari realizzate e usate dai suoi nemici, a nazismo ormai sconfitto, in realtà ha vinto, lasciando l’umanità nell’incubo permanente di “morte e distruzione di mondi”. E’ questa la vera “reazione a catena” proiettata nel futuro, come dicono nel dialogo che chiude il film Oppheneimer ed Albert Einstein, che non a caso al progetto Manhattan non ha voluto contribuire in alcun modo.
<<Nei primi anni del dopoguerra>>, scriveva Moravia probabilmente nel 1987, <<la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba (…). Oggi vediamo che genocidio è sinonimo di guerra e violenza. Infatti la bomba, proprio per il suo carattere specifico di arma di strage di massa, si tira dietro la teoria nazista della soluzione finale, anche se chi ce l’ha si proclama in buona fede nemico del nazismo. Al processo di Norimberga>>, continuava lucidamente Moravia, <<la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della seconda guerra mondiale>>.
E’, in fondo, quella di Alberto Moravia, la stessa critica al principio del “fine che giustifica i mezzi” portata avanti dal pensiero nonviolento, da Mohandas Gandhi ad Aldo Capitini, perché i mezzi usati nei conflitti non sono mai neutri ma determinano e modificano i fini. Fino a trasformarli nel loro contrario, se ad essi incoerenti. La lettura di questo e degli altri scritti contro le armi nucleari di Alberto Moravia, può essere uno strumento molto utile per comprendere davvero la reale posta in gioco raccontata nel film di Nolan, al di là della pur complessa vicenda biografica di Oppenheimer: un gioco a somma negativa, ancora pienamente in corso, nel quale non possono esserci vincitori. In cui il mezzo della proliferazione delle armi nucleari impedisce e contraddice il fine della convivenza pacifica tra gli Stati e i popoli.
Il regista ha fatto la scelta stilistica di evocare senza mai mostrare le vittime delle due bombe atomiche sganciate sulle città giapponesi. Invece è necessario vedere, o almeno farsi raccontare, che cosa è successo ad Hiroshima e Nagasaki, per capire pienamente la vicenda narrata nel film. Non a caso gli scritti e l’impegno di Moravia contro la guerra sono anche l’esito di tre viaggi in Giappone, nel 1957, nel 1967 e nel 1982. Così come fu fondamentale il viaggio ad Hiroshima e Nagasaki nel 1958 per il filosofo Günther Anders, che ne scrisse il celebre “Diario” intitolato Essere o non essere, di cui è fondamentale leggere, per comprendere il nostro presente, anche le Tesi sull’età atomica del 1960 e il carteggio con uno dei piloti di Hiroshima, Claude Eatherly “l’ultima vittima” della bomba. Il maggiore finito nel manicomio militare sotto il peso – disconosciuto e nascosto dal sistema politico e militare USA – della responsabilità del male: come per Oppenheimer, anche sulla sua drammatica storia bisognerebbe, prima o poi, girare un film.
Visto il film di Nolan e lette almeno queste opere fondamentali di Moravia ed Anders, non rimane che trasformare l’indignazione e il senso di impotenza in azione, sostenendo attivamente la Campagna internazionale per il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) – la loro messa fuori legge invocata da Moravia – entrato in vigore nel 2021 e sottoscritto da 68 Stati. Ma non ancora dal nostro Paese e dalle potenze nucleari, le maggiori delle quali si fanno follemente la guerra sul territorio ucraino. Accusandosi reciprocamente, e non a torto, di nazismo.
L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 27 agosto 2023
La responsabilità del male. Le vittime di Hiroshima e Nagasaki, più una
di Pasquale Pugliese
Questo settantottesimo anniversario delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki si svolge a poco più di un mese dal quarantacinquesimo anniversario dalla morte di quella che fu definita dal filosofo Günther Anders “l’ultima vittima di Hiroshima”, ossia il maggiore Claude Eatherly comandante dell’aereo che al mattino del 6 agosto 1945, dopo aver sorvolato Hiroshima, diede il via all’operazione di sganciamento della bomba atomica. E’ una storia sostanzialmente oggi rimossa, che va raccontata ancora perché riguarda anche il nostro presente e il nostro rapporto con la guerra.
Ricordiamo brevemente i fatti. Sempre di più gli storici che hanno potuto esaminare i documenti desecretati riconoscono che il governo giapponese era pronto ad arrendersi circa un mese prima che piovesse le prima bomba atomica, e sicuramente prima che arrivasse anche la seconda, ma il presidente USA Harry Truman – che era da poco succeduto a Roosevelt – non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Mahanattan, guidato dal fisico Julius S. Oppenheimer – sul quale è in uscita in Italia l’atteso film di Critopher Nolan – e diede ugualmente il via allo sganciamento delle due bombe nucleari. “La vera posta in gioco” – scrisse Zygmunt Baumann su quella decisione – “può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: <<Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della Storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!>>” (vedi Le sorgenti del male, 2021). Tre giorni dopo la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki: 220.000 vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa altre 150.000 vittime successive per le conseguenze delle radiazioni nucleari. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.
Alla fine della guerra tutti i piloti degli equipaggi nucleari vennero celebrati in patria come… “portatori di pace”, ma Claude Eathery si sottrasse alle oscene cerimonie e cadde in una depressione dovuta al sovrastante senso di colpa per l’immensa distruttività dell’operazione militare alla quale aveva contribuito personalmente, seppur come ingranaggio di un meccanismo che lo sovrastava. La sua vicenda umana successiva alla guerra vide Eatherly compiere tentativi di suicidio e azioni di criminalità comune per essere riconosciuto socialmente colpevole, anziché eroe, finendo invece per essere considerato malato di mente e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico militare. Sempre più recluso e isolato, man mano che prendeva consapevolezza della necessità di gridare a tutti la propria colpa – e la necessità di espiarla – e con essa quella della macchina politico-militare che l’aveva resa possibile, accettabile e celebrata.
Questo processo di crescente chiarificazione etica individuale, che smascherava la violenza dei “buoni”, fu favorito e supportato anche dal carteggio con il filosofo tedesco Günther Anders che, venuto a conoscenza del “caso Eatherly”, avviò uno straordinario scambio epistolare con il pilota rinchiuso in manicomio che disvelò la dinamica della rimozione morale della responsabilità. “Il metodo usuale per venire a capo di cose tropo grandi” – scrisse Anders nella prima lettera ad Eatherly del 3 giugno 1959 – “è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa”. Non solo come meccanismo di difesa individuale ma, nel caso della guerra in generale e della guerra atomica in particolare, come meccanismo di difesa della comunità rispetto al senso di colpevolezza collettivo. Se malato di mente è colui che ne prova vergogna e dolore la politica e la società che lo hanno voluto e consentito ne risultano sane. Ecco perché i medici, scrive ancora Anders a Eatherly, “si limitano a criticare, invece dell’azione stessa, la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una <<malattia>> ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione un <<self-imagined wrong>>, un delitto inventato da lei” (vedi L’ultima vittima di Hiroshima, 2016).
Eatherly finirà i suoi giorni nel manicomio militare per essersi voluto assumere le proprie responsabilità in un contesto di generalizzata deresponsabilizzazione morale dei vincitori, “buoni” per definizione e per sempre. Non a caso, il carteggio tra il filosofo Anders e il pilota di Hiroshima era una delle letture che si svolgevano a Barbiana, dove don Milani insegnava che nell’epoca della distruzione atomica “l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Non a caso, mentre si ricorda la “banalità del male” di Adolf Heichmann, ossia il suo disimpegno morale, descritta da Hannah Arendt, è stata rimossa l’opprimente responsabilità del male di Eatherly, che ci mette di fronte alle nostre responsabilità. Soprattutto oggi che le potenze nucleari – invece di sottoscrivere il Trattato ONU per la proibizione delle armi nucleari (a 90 secondi dalla mezzanotte nucleare) e cooperare alla pace in un mondo in crisi sistemica globale – conducono una nuova incredibile guerra, fino all’impossibile “vittoria”, nel cuore dell’Europa.
L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 6 agosto 2023
6 agosto 1945
ore 8:15
Uscire dal letargo con mediazioni creative. L’«educazione sentimentale al patrimonio culturale» di Tomaso Montanari
di Maria Concetta Sala – Redazione Italia
Con una certa amarezza non si può che constatare il disastro causato da un atteggiamento sempre più dilagante di adattamento agli stravolgimenti che da diversi anni piovono dall’alto della gestione pubblica e intaccano i residui legami tra gli esseri umani e i fragilissimi tessuti comunitari. In un disordine che sembra non lasciare vie di uscita dai continui squilibri apportati dalla sete di potere e di profitto e dallo smantellamento delle garanzie a tutte le cittadine e a tutti i cittadini di accedere ai servizi fondamentali, queste forme di assuefazione alle condizioni attuali sfociano spesso sotto i nostri occhi nell’indifferenza, erigono muri che separano, ostruiscono menti e cuori finendo così con l’attivare ossessive mediazioni meccaniche che hanno lo svantaggio di farci cadere e ricadere in acque stagnanti, dove si pescano le solite trite soluzioni spacciandole per nuove e aggravando di fatto lo stato delle cose.
Qui e ora occorrerebbe invece respingere questa logica alienante e disumanizzante che ci rende tutte/i subalterni servili ideando proposte originali e attingendo risorse vitali che permettano di porre un freno alle ingiustizie e di tenere vive le relazioni con le altre e gli altri. In altre parole, al contrario di quanto accade tutt’intorno, necessitiamo meno di tecnicismi e più di mediazioni creative, di vere e proprie opere d’arte da plasmare nel laboratorio vivente dell’essere al mondo individualmente e dello stare nel mondo con altre/i. Si tratta di una questione che investe le e i singoli in tutti gli ambiti e spazi della convivenza sociale; si tratta di spegnere le passioni tristi e di svegliarsi alla realtà delle cose e a una realtà autentica che non è di questo mondo; si tratta di cogliere e assaporare con gioia il vivente, di trarre energia dalle bellezze che ci circondano – materiali e immateriali – e di riversarla nella cura dei beni comuni naturali e culturali, una cura che può restituirci «l’amore necessario a coltivare ciò che in noi è ancora umano», come scrive lo storico dell’arte, nonché rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari nel suo libro Se amore guarda, in cui propone Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale (Einaudi, 2023).
Donne e uomini che abitano i territori del mondo, non clienti o spettatori
Da decenni assistiamo a una destinazione d’uso dei beni culturali comuni che in luogo di tutelarli ne fa beni-merce a fine di lucro, senza capire che in questo modo procuriamo un danno alla funzione che essi hanno in seno alle comunità piccole o grandi in quanto patrimonio avente valore di civiltà, nel rispetto dell’art. 9 della Costituzione ( «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione») e come del resto si legge perfino nel «Codice dei beni culturali e del paesaggio» del 2004. Le scelte politiche in materia sono andate e continuano ad andare in direzione opposta, basta pensare alla riforma del Ministero dei Beni Culturali del 29 agosto 2014, « ispirata a un principio “consumista”, che cioè i nostri musei non incassino abbastanza, e non nata da una disamina legittima degli eventuali errori di conduzione di soprintendenti e direttori», come sottolineato dal critico bolognese Umberto Barilli; una riforma secondo Salvatore Settis all’insegna del Non più cittadini, ma clienti o spettatori, diretta più alla valorizzazione delle imprese e dei «negoziati in penombra fra poteri politici ed economici» che alla tutela dei beni culturali e paesaggistici. Vale la pena di continuare a porre queste domande: ha avuto un senso «riorganizzare le Soprintendenze» mentre veniva smontata «la loro competenza più importante, la tutela del paesaggio»? ha avuto un senso farlo per di più «al ribasso, cioè con le forche caudine di una spending review»? E con quale risultato? Questo: «un balletto di poltrone, una danza di etichette, un calo di funzionalità e di efficienza».
Prima di entrare nel merito della proposta di Tomaso Montanari, mi preme evidenziare anche gli effetti di un’altra disgraziatissima riforma, quella della ministra Gelmini, allora berlusconiana, che ha demolito l’università italiana secondo un procedimento analogo (abolizione delle Facoltà rinominandole Dipartimenti, introduzione di macchinose procedure di reclutamento, decimazione delle cattedre, ulteriore precarizzazione degli insegnanti, taglio dei fondi per la ricerca con la conseguente fuga delle giovani e dei giovani all’estero, dove hanno trovato condizioni di vita e di lavoro degne e dignitose). E non tralascio di richiamare alla memoria la scellerata «valorizzazione in salsa franceschiniana» delle nostre Biblioteche pubbliche tesa a disperdere il tesoro lì custodito. Ebbene, se abbiamo davvero a cuore la tutela e la conservazione del nostro patrimonio culturale e ambientale, non potrà che essere benefico rivoltarsi e scrollarsi di dosso il peso dell’assuefazione, uscire dalla condizione di letargo, impegnarsi in un mutamento di visione, battersi concretamente contrastando la deregulation selvaggia della sua tutela, rilanciando le Soprintendenze come enti di ricerca territoriale, richiedendo investimenti adeguati e non balletti di poltrone, assunzioni di giovani di qualità e non un personale raccattato come capita capita, per poterlo sottopagare o non pagare affatto…
Amore, sguardo, corpo/corpi
Ha ragione Montanari nel commentare la recente vicenda della Madonna di Santa Fiora di Luca della Robbia rientrata in Italia dopo l’acquisto da parte dei nuovi proprietari, i coniugi Esteves, e conservata nella loro tenuta di Argiano nei pressi di Montalcino, non lontano da Santa Fiora: «Il patrimonio culturale è una geografia di cicatrici, di perdite, di sottrazioni ma è anche dunque un corpo da curare e ogni piccolo intervento di cura, come questo, ci permette di capire il grande amore che tutti abbiamo per quello che chiamiamo, in un modo un po’ astratto, patrimonio culturale ma che è, in realtà, il corpo più grande a cui tutti i nostri corpi appartengono. Questo risarcimento, questo atto di cura e di amore è quindi un modo diverso per vedere e per guardare quello che costantemente abbiamo sotto gli occhi. Per questo è davvero importante», conclude, la mostra in corso nel borgo amiatino, occasione per una fruizione pubblica, anche se temporanea.
La triade amore, sguardo, corpo/corpi costituisce la cuspide di congiunzione delle diverse riflessioni che in modo fluente si dispiegano nelle pagine dell’ultima fatica di Tomaso Montanari, Se amore guarda. Un titolo azzeccato per «una preghiera a voce bassa in una chiesa amica» (p. VIII), la cui fonte è nell’asserzione di Carlo Levi – «se gli occhi guardano (se amore guarda), essi vedono» – presente in un saggio destinato ad accompagnare gli scatti in bianco e nero degli anni Cinquanta del fotografo ungherese János Reismann e pubblicato nel 1960 da Einaudi con il titolo Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia. Questa asserzione dà la chiave con la quale leggere il volume, direi anzi l’intero filo che da anni Montanari avvolge intorno a un’altra Italia che può essere resa visibile soltanto da uno sguardo amorevole.
Lo dimostra il riferimento dello storico dell’arte già nel lontano 2016 al libro di Levi a proposito della Val di Susa in un suo breve scritto che si flette poi sulle tante «violenze inflitte a questa terra dal grumo di interessi che si chiama Tav» e in particolare sull’«immagine falsa di una guerra permanente», dando notizia di un piccolo progetto partito dall’abbazia di Novalesa intorno agli spazi del sacro e al patrimonio culturale religioso e orientato a mostrare ai «nuovi valsusini venuti dal Maghreb o dalla Romania» un volto dell’Italia come esito del lento lavorìo di «acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione italiana» nelle quali nuotare, un volto dunque non fissato in radici identitarie a cui vincolarsi. Un’Italia in definitiva non fondata sul sangue ma sulla varietà dei paesaggi, ovvero sulla pluralità dei territori trasformati dalla storia.
E dalla «felicissima agnizione» dell’autore di Cristo si è fermato a Eboli Montanari trae ispirazione per svelare che il significato da attribuire al patrimonio culturale non consiste solo nell’«insieme di ciò che si è fatto lungo i secoli», giacché vi si racchiude anche «ciò che lungo quegli stessi secoli si è visto» (p. 45). E ciò che si è visto dipende dal modo in cui si è guardato e si guarda. Oggi probabilmente più che in passato – ma non ne sarei proprio sicura – uno sguardo educato a recepire l’invisibile e l’inudibile potrebbe più facilmente accogliere nella propria visione i tanti fragili e feriti, i tanti senza storia marginali, i cui nomi sono rintracciabili nei documenti degli archivi, seppure alla condizione dettata da Aby Warburg: se lo storico «non sdegna la fatica di ricostruire la naturale unità fra parola e immagine», unità che Montanari definisce come «l’essenza stessa del patrimonio culturale» (p. 51).
Emotivamente coinvolgente per me che scrivo da una Sicilia devastata dai fuochi del luglio 2023 ho trovato il riferimento a Aidone, il piccolo comune in provincia di Enna, dove insieme ai tantissimi reperti provenienti dall’area archeologica di Morgantina è conservata e venerata «una dea scolpita nella pietra di quei luoghi, ma nello stile di Fidia, avvertendo che il mito, e la Grecia, sono proprio lì»(p. 87). E ancora più toccanti sono le pagine tratte dal racconto dello scrittore ucraino-russo Vasilij Grossman dedicate alla Madonna Sistina di Raffaello tratte da Il bene sia con voi! (Adelphi, 2011): «… chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela, profonda e indistruttibile, ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie. […] La Madonna con il bambino è l’umano nell’umano: sta in questo la sua immortalità. […] Ogni epoca fissa lo sguardo su questa donna con il bambino in braccio, e fra esseri umani di generazioni, popoli, razze e secoli diversi si instaura un senso di fratellanza, dolce, commovente e doloroso insieme. […] La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni, sono invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta…» (pp. 91-92).
Sulla scia di Grossman e di altri critici d’arte come pure di filosofe/i, scrittrici e scrittori, poeti/e, Montanari attribuisce in definitiva al patrimonio culturale, all’ «educazione sentimentale» alla sua fruizione la possibilità di sospendere il tempo dell’immediatezza, di sostare nella contemplazione, di entrare in contatto con la potenza della vita, «con la forza dell’umano», in una comunione tra vivi e morti; attribuisce la possibilità di dare un nuovo significato alle cose, di riappropriarsi del senso della misura e del limite, di «liberarci delle scorie mortifere della volontà di potenza, tendendo all’essenziale, a ciò che è rimasto» (p.99), e di avvertire attraverso «le pietre, l’aria, le figure, la storia e le storie che ci avvolgono […] che c’è qualcosa che ci trascende, qualcosa che supera l’ansia e la fatica delle nostre giornate» (p.100), la possibilità che le cose belle penetrino in noi per osmosi, come accadeva a Simone Weil durante il suo primo viaggio in Italia nella primavera del 1937 (p. 18).
A questo proposito bisognerebbe altresì a mio parere tenere a mente e custodire nel cuore l’insegnamento della filosofa francese là dove coniuga la bellezza con il desiderio e con l’attenzione e fa di essa la sorella e l’alleata della verità e della giustizia: «La bellezza è il mistero supremo di quaggiù. È uno splendore che attira l’attenzione, ma non le fornisce alcun movente per durare. La bellezza promette sempre e non dona mai alcunché; suscita una fame, ma in essa non vi è alcun nutrimento per la parte dell’anima che cerca di saziarsi quaggiù; ne ha solo per la parte dell’anima che guarda. Suscita il desiderio, e fa sentire chiaramente che non ha in se stessa alcunché da desiderare, perché importa anzitutto che in essa nulla cambi. Se non si cercano espedienti al tormento delizioso che essa infligge, il desiderio si trasforma a poco a poco in amore, e un germe della facoltà di attenzione gratuita e pura prende forma. […] la bellezza è percepibile all’interno della cella ove ogni pensiero umano si trova all’inizio prigioniero. La verità e la giustizia dalla lingua mozzata non possono sperare in altro soccorso se non nel suo. Giustizia, verità, bellezza sono sorelle e alleate».
1) Colgo l’occasione con questo articolo di esprimere la mia stima nei confronti di Montanari che non si è adeguato a forme di incensamento non dovute, rifiutandosi di abbassare la bandiera dell’università di cui è rettore, in occasione del funerale e lutto di Stato disposto dal Governo per la morte di un personaggio politico che era stato non solo iscritto alla P2 ma anche condannato definitivamente per evasione fiscale e il cui comportamento sessuale fu a suo tempo denunciato nelle piazze di tutt’Italia da tantissime donne e in due lettere pubbliche anche dalla seconda moglie, Veronica Lario (rimando a questo proposito a https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/piu-dei-processi-pote-la-moglie).
2)https://parma.repubblica.it/cronaca/2014/10/17/news/se_la_riforma_delle_soprintendenze_crea_burocrazia_e_disfunzioni-98317816
3) https://left.it/2018/07/22/ce-un-tesoro-da-salvare-dentro-le-biblioteche/
4) https://www.stamptoscana.it/torna-a-casa-la-madonna-di-santa-fiora-di-luca-della-robbia/
L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 2 agosto 2023