Diritti

CODIFICAZIONE DELL’INCERTEZZA

di Gianni Giovannelli

(Intervento di Giovannelli al seminario “Dei corpi perduti e dei corpi ritrovati” – Milano, 10 ottobre 2020)

La norma, che è il nocciolo della legge, caratterizza, nella sua sostanza, il sistema complessivo che regge il potere; definire la norma consente di cogliere i punti di forza e i punti di debolezza nell’apparato di comando.
Dobbiamo a un serbo della Voivodina, Vujadin Boskov (1931-1914) l’aforisma che inquadra perfettamente l’idea di norma che si è affermata, con sempre maggiore evidenza, nel capitalismo finanziarizzato delle piattaforme. Boskov, pur se laureato in storia e filosofo del diritto formatosi nel socialismo reale, era anche un abile allenatore di calcio, capace di portare la Sampdoria fino alla vittoria nel campionato. Richiesto di un parere sulla legittimità o meno della decisione arbitrale di sanzionare la sua squadra con il rigore rispose chiarendo il procedimento corretto di interpretazione delle regole sul campo: quando arbitro fischia quello è rigore. Il direttore di gara incorpora sia la previsione astratta sia la sanzione eventuale, il suo verdetto diventa per mera discrezionalità o anche per mero arbitrio la legge.
In fondo si tratta di una riscoperta del vecchio ordinamento imperiale romano, di una massima risalente a Domizio Ulpiano, libanese di Tiro: quod principis placuit legis habet vigorem (Digesto, I, 4, 1 pr.). Ovvero: quando il principe ha deciso quella è la legge. La discrezionalità un tempo riservata all’imperatore oggi viene esercitata da una legione di funzionari, pubblici o privati; si sono ben radicati nella vita sociale e nell’esistenza quotidiana al punto che nessuno mette più in discussione la loro funzione. Quando fischiano quella è una multa.
Non possiamo tuttavia ricondurre ad un generico fascismo questa ampia e generale cancellazione di un codice comprensibile dei diritti e dei divieti; si tratta di un fenomeno assai più complesso e variegato che caratterizza quasi tutte le moderne organizzazioni statuali, non solo in Italia. Il regime militare sudamericano o il nazismo tedesco si limitavano a decodificare i soli delitti politici, a criminalizzare gli oppositori o a punire lo sciopero; ma non hanno mai esteso l’incertezza sulla liceità o meno di un comportamento all’insieme dei rapporti sociali. Il codice civile ancora oggi in vigore risale al 1942 e reca la firma di Benito Mussolini. Nella legislazione sovietica venne elevata al rango di legge l’incertezza su ciò che si potesse o non si potesse fare, ma con una certa attenzione a circoscrivere la portata di questa scelta nell’ambito della repressione dei nemici della rivoluzione (articolo 58 del codice penale, 1927) o dei teppisti, gli huligani che violavano la morale socialista. Rielaborando l’esperienza zarista i giuristi sovietici portarono contributi originali; Iverskij affermò che dentro le leggi vi sono articoli che parlano e articoli che non parlano, il commissario alla giustizia Petr Ivanovic Stucka aggiunse che non tutto il diritto è espresso in legge. Il nodo fu individuato da Pasukanis: la sfera del dominio, che assume la forma del diritto soggettivo, è un fenomeno sociale che inerisce all’individuo allo stesso modo che il valore, anch’esso fenomeno sociale, viene ascritto alla cosa, prodotto del lavoro. Il feticismo della merce si completa con il feticismo giuridico. Dunque i rapporti sociali, secondo Pasukanis, tendono sempre ad assumere una formula duplice, enigmatica. A lato della proprietà mistica del valore compare qualche cosa di non meno enigmatico, il diritto. Il più cattivo di tutti, Vysinskij, il pubblico accusatore nei processi staliniani, dopo aver definito sia Stuka sia Pasukanis spie e sabotatori, giunse a conclusioni più drastiche: il diritto è un mezzo di controllo, si estinguerà quando gli uomini si saranno assuefatti al rispetto delle regole così da attuarle senza coazione. Probabilmente pensava: cioè mai!
Le vecchie regole erano quelle di una società fordista o di una società postcoloniale; si fondavano sul tempo e sul luogo, sulla religione e sulla gerarchia, sulla esatta indicazione dei diritti e dei doveri costruiti per una operosa esistenza delle masse operaie o contadine. Oggi la produzione di merci smaterializzate è alla base delle ricchezze più ingenti. Ci troviamo di fronte a un nuovo flusso, caratterizzato dall’inatteso, dalla continua innovazione. L’innovazione è organizzabile, ma non prevedibile. Non è neppure misurabile utilizzando le forme convenzionali di misurazione di cui dispongono le attuali strutture sindacali dei lavoratori, anche quelle più radicali. Questo torrente di innovazione è un torrente di lavoro vivo, che non perde la sua caratteristica solo perché non è misurabile con l’orologio del tempo convenzionale o per assenza di materialità. Il capitale incamera valore e al tempo stesso sottrae alla nostra vista il tesoro. Il vecchio padrone si cela nella piattaforma, non esiste neppure la possibilità di un incontro fisico fra Jeff Bezos e i corpi che utilizza in giro per il mondo. Eppure anche Jeff Bezos ha un corpo, una famiglia; in qualche luogo mangia e dorme.
Il corpo. Il corpo deve essere sempre disponibile, in casa, in bicicletta, sul furgone, in ufficio, per strada, collegato e raggiungibile. Il contratto fra piattaforma ed esistenza, fra merce immateriale e corpo non ha alcuna necessità di fissare i confini nei luoghi o nei tempi. Quale che sia l’assetto istituzionale in cui si articola, territorio per territorio, il dominio della nuova organizzazione capitalistica (sia essa teocratica, socialista, populista, liberale, democratica, autoritaria) esige, comunque, oggi, una generale delegificazione, una ampia decodificazione; l’attuale modo di produzione presuppone infatti la condizione precaria e si fonda sull’appropriazione dei frutti della cooperazione sociale. L’uso del precariato abbatte il tempo di lavoro tradizionale e stravolge ogni misurazione. Dunque l’unica regola possibile diventa l’assenza di regole; l’esproprio del sociale a sua volta si traduce inevitabilmente nella cancellazione di ogni tutela dei soggetti riuniti in comunità o singolarmente considerati. Prima era merce l’ora lavorativa, ora è merce l’intera esistenza e le merci non hanno diritti.
Ci troviamo davanti al rovesciamento dei presupposti stessi che caratterizzano il contratto di lavoro. Nell’epoca fordista l’operaio cedeva un segmento temporale (tempo di lavoro), ore astratte, merce/tempo immateriale che il capitalista acquisiva per usarla a proprio rischio in un luogo, contrattando prezzo e condizioni vincolanti, ovvero codificando conseguenti diritti di cui il venditore era titolare. Nell’epoca del capitalismo finanziarizzato le merci immateriali non hanno più necessità di un luogo preciso o tempo prefissato, ma richiedono invece l’esproprio della cooperazione sociale complessiva e la disponibilità delle esistenze precarie per intero; dunque l’esistenza diviene merce essa stessa, con implicita rinunzia del soggetto ad essere titolare di diritti, quasi una moderna forma giuridica di schiavitù nell’era informatica.
Giunge a conclusione un lungo tragitto giuridico, iniziato con Enghelbert d’Admont, il primo ad intuire che il Sacro Romano Impero si era avviato al tramonto; Baldo degli Ubaldi (1250-1331, conosciuto anche come Baldo da Perugia), allievo del celebre Bartolo da Sassoferrato, seppe elaborare strumenti tecnici in grado di arginare il potere assoluto, codificando diritti comunali e territoriali. A lui si deve, fra l’altro, il primo studio sulla cambiale. La codificazione dei diritti, e ovviamente delle pene, accompagnò sempre le rivendicazioni; erano le carte e non a caso i primi movimenti dei lavoratori si chiamarono cartisti in ragione delle petizioni sottoscritte che trainarono riforme elettorali prima, sociali poi.  La difesa pura e semplice del passato normativo fordista non ha un avvenire e si presenta quasi come un lamento luddista; lo scontro si è spostato ormai sul muro tecnico giuridico che il capitale va con diverse forme costruendo per impedire ai corpi del precariato di realizzare un diverso modo di vivere, per ambiente, produzione, distribuzione, uso del comune. La pandemia ha solo accelerato un processo già in atto. Non è il gallo che canta a determinare l’arrivo del mattino; non è il corona virus a produrre un ipotetico stato di eccezione. A ben vedere neppure si tratta di un vero e proprio stato di eccezione, almeno non in senso schmittiano. Al contrario: si tratta di una nuova normativa che prende il posto di quella precedente ormai desueta. Esistono invece molte varianti di un neo-autoritarismo che si consolida mediante la sistematica cancellazione istituzionale di ogni carta dei diritti. Si va delineando un moderno assolutismo in cui la piattaforma assume il ruolo del sovrano e i suoi caporali fungono da arbitri legibus soluti in un quadro giuridico contrassegnato da incertezza costante. Il capitale si è mosso rapidamente per trasformare la crisi in opportunità, e Jeff Bezos ha ulteriormente incrementato i profitti alla faccia della crisi, anzi dentro e grazie alla crisi. I dati sull’incremento della ricchezza e del fatturato di Amazon in costanza di pandemia sono impressionanti, ma prevedibili e previsti. Il precariato ha invece subito gli eventi. Questa è la differenza. Il resto non cale. Forse vale la pena di esaminare le ragioni di questa carenza di opposizione sociale; e la cancellazione del diritto non mi pare priva di rilevanza.
Thomas Hobbes, già nel 1640, ebbe ad osservare che tre sono gli elementi necessari per disporre gli animi alla sedizione contro l’ordine costituito: lo scontento, il pretesto di un diritto violato, la speranza di ottenere un risultato. La paura della povertà e il timore della pandemia può naturalmente determinare una sensazione di sofferenza che induce alla rivolta; ma in assenza di quel particolare convincimento che consiste nel ritenersi dalla parte del giusto prevale il timore delle sanzioni inflitte da chi detiene il potere, il rischio di essere incarcerati o espropriati della proprietà di un bene o anche soltanto multati. In ogni caso solo intravedendo una concreta possibilità di successo gli scontenti possono affrontare le altrettante possibili conseguenze di una sommossa. Senza questi tre elementi non vi può essere ribellione; quando invece compaiono tutti insieme non resta che dar fiato alla tromba (Elements of Law Natural and Politic, parte II, capitolo VIII; traduzione italiana di Arrigo Pacchi, Firenze, 1968, La Nuova Italia, pag. 238).
Il potere, in questo primo scorcio del XXI secolo, tende a cancellare le norme, o, meglio, a renderle così vaghe e generiche da risultare sostanzialmente incomprensibili; tocca al funzionario di polizia interpretarle e applicarle, la magistratura si limita ormai a confermare l’operato dei gendarmi. Un nostro giovane amico mi raccontò di essere stato multato da un vigile per aver passeggiato nel parco; lui aveva dato spiegazioni invocando una lettura della norma, ma il vigile non aveva sentito ragioni. Ricordate Boskov? Quando arbitro fischia quello è rigore. Il tema del cosiddetto negazionismo nulla ha a che vedere con questo passaggio dal diritto codificato al diritto delegificato, affidato all’interpretazione discrezionale dei funzionari.
Non esistono diritti certi, dunque non è possibile rivendicare giustizia o lamentare ingiustizia. Esistono solo formalità inutili, richieste dal moderno dispotismo con il solo scopo di affermare quotidianamente l’esercizio di un dominio cui è non solo vietato, ma anche impossibile sottrarsi. Astolphe de Custine aveva colto questa caratteristica della legislazione autoritaria nel momento stesso in cui era entrato in territorio russo: Je répète donc avec le seigneurs russes, que la Russie est le pays des formalités inutiles (Lettre huitième, 11 juillet 1839, au soir).
La libertà residua sopravvive solo nei pochissimi segmenti dell’esistenza individuale che il potere sovrano non è interessato ad acquisire o mettere comunque a valore; ma sono ritagli poco significativi. Pensate alla cassa integrazione. La richiede il datore di lavoro, non il lavoratore. E solo dopo un certo tempo il direttore provinciale di INPS dirà se e per quanto tempo è andata bene. Meglio di nulla, ovvio. Ma nessuna certezza. O pensate all’operaio che risulta positivo al sierologico (dunque deve uscire dall’azienda) ma rimane in attesa del tampone. Chi paga l’attesa? Non si sa, non lo si può sapere. Prevale in questo tempo un sentimento che viene efficacemente definito Trigger Warning, viviamo in una condizione di voluta e procurata incertezza; quale che sia la tua scelta in una determinata circostanza non è detto che sia la scelta giusta perché il verdetto spetta all’arbitro. Si crea dunque uno stato di ansia permanente, e questo produce profonde depressioni insieme a un senso di resa, di assenza di prospettive.
Con un decreto hanno delegificato il c.d. smart working, che poi neppure è esattamente tale. In realtà si tratta di innovazione, di lavoro telematico, di lavoro vivo sottratto a qualsiasi codificazione normativa e con molte zone d’ombra anche nella parte economica (indennità di mensa, straordinario ecc. ecc.). Il corpo del precariato messo a valore per l’intera esistenza si avvia a vivere in un tempo di totale incertezza codificata e si contrappone all’immaterialità del prodotto che il corpo è chiamato a realizzare; solo se il corpo rifiuta di essere merce può aprirsi la via di una nuova diversa codificazione dei diritti, finalmente rivendicati da un lavoro vivo capace di ricomporsi in classe. Ma per questo bisogna avere il coraggio di lasciarsi alle spalle i vecchi diritti fordisti e procedere invece alla elaborazione di quelli oggi necessari.
Rimane naturalmente la libertà di ribellarsi, e questa per sua stessa natura sfugge a qualsiasi codificazione: si trasforma in ordine nuovo quando la rivolta è accompagnata dal successo, produce la sanzione punitiva quando prevale la struttura di comando. La rimozione di ogni fondamento giuridico che possa legittimare i desideri originati dal malcontento rende difficile la sedizione e oggi prevale piuttosto la paura. Ma basta un niente perché una protesta venga affissa sul portone di Wittenberg e tutto cambi di nuovo.

L’immagine è di di Anemone123 da Pixabay

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Stazionario sarà lei

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BREVETTI SANITARI E RIVOLUZIONE

di Gianni Giovannelli
(Intervento al Seminario a cura di Effimera, tenutosi il 26 marzo 2022 presso la Casa della cultura di Milano)

Esiste a mio avviso un nesso causale che lega, ai giorni nostri, il brevetto di un medicamento – qualunque specie di medicamento – e la rivoluzione, intesa come mutamento dell’assetto sociale in un territorio. Esiste per la semplice ragione che, senza rivoluzione, nessun governo dell’Unione Europea accetterebbe di togliere alle imprese farmaceutiche multinazionali l’esclusiva nell’utilizzo di un prodotto sanitario. Non è stato sempre così, le regole attuali sono state anzi introdotte da non molto tempo, e la memoria di un passato relativamente recente è stata cancellata dalla macchina orwelliana dell’apparato di comando.
Quando ancora la lotta per l’indipendenza nazionale andava prendendo via via più forza ma ancora si trovava bel lontana dal traguardo nel Regno di Sardegna – ovvero nel primo embrione unitario – fu approvata dal parlamento di Torino la legge 18 marzo 1855 n. 782, compreso l’art. 6 che con concisa ma importante risoluzione affermava: non possono costituire argomento di privativa i medicamenti di qualunque specie. Estensore fu un giurista ed economista di fama, Antonio Scialoia, già ministro nel primo governo costituzionale italiano nel 1848, quello siciliano e per questo condannato all’esilio in Piemonte. Pur se esponente della destra storica e sostenitore del libero scambio, Scialoia era tuttavia molto attento ai temi di economia sociale. Riuscì, in quegli anni piuttosto turbolenti, a modificare il sistema delle Regie Patenti che lasciavano al sovrano assoluto pieni poteri, consentendo il brevetto (allora definito privativa) ma sottraendo ogni possibilità di proprietà esclusiva di ciò che per sua natura doveva essere invece un bene comune. Le scoperte e le invenzioni in materia sanitaria erano a disposizione di tutti, liberamente utilizzabili senza che nessuno potesse frapporre ostacoli. Basti mettere a confronto questo chiarissimo conciso non possono con i prolissi e incomprensibili decreti sanitari varati durante la pandemia per cogliere l’abisso tecnico, politico, morale, sociale e giuridico che separa un conservatore integerrimo come Antonio Scialoia dall’odierna squadra di governo, incapace di approvare un testo chiaro e sempre pronta al raggiro dei sudditi.
La legge piemontese fu estesa, senza modifiche, ai nuovi territori con il Regio Decreto 30 ottobre 1859 n. 3731, questa volta per iniziativa di un medico chirurgo romagnolo, Carlo Farini, esperto nella cura delle epidemie di colera o di contrasto delle malattie sociali quali la pellagra. In quel momento era dittatore nelle regioni annesse con il plebiscito.  Il Farini sarà poi a capo del nuovo regno, come presidente del consiglio e la legge sui brevetti rimase acquisita all’ordinamento italiano.
Numerosi furono i tentativi, tutti rintuzzati e falliti, di rimuovere il divieto di brevetto per i medicamenti di qualunque specie: l’ottimo Scialoia aveva costruito una barricata giuridica difficile da abbattere con semplici sotterfugi, le pressioni delle case farmaceutiche non riuscivano a raggiungere lo scopo anche se certo non desistevano. Con l’avvento del regime fascista le speranze delle Big Pharma si riaccesero, grazie ad una legge delega, la 2032 del 25 novembre 1926.; ma le resistenze alla modifica perduravano, per via di un certo qual carattere sociale che al fascismo serviva per mantenere consenso nel paese. Finalmente, senza passare neppure per quel poco di parlamento che rimaneva (la Camera dei fasci e delle corporazioni), fu emanato il Regio Decreto 13 settembre 1934 n. 1602, in esecuzione della vecchia legge delega. Lo strumento è simile a quello usato e abusato ai giorni nostri: legge delega e successivo decreto legislativo del governo, il meccanismo con cui vennero introdotti i famigerati Jobs Act da Matteo Renzi. L’articolo 16 consentiva la possibilità di brevettare prodotti sanitari, rimuovendo il divieto di Scialoia; ma l’estensore era molto meno abile, condizionando incautamente l’ingresso delle nuove norme all’approvazione di un regolamento (art. 134 del decreto). A questo punto si moltiplicarono le discussioni, ma il regolamento non fu mai scritto e la liberalizzazione non entrò mai in vigore; il genio giuridico di Scialoia aveva avuto ancora una volta la meglio.
Intanto il mondo correva verso il precipizio della seconda guerra mondiale, e il fascismo aveva quanto mai necessità di conservare il consenso in vista del conflitto; colpire la salute popolare proprio quando ci si apprestava a mettere a rischio le vite umane con le armi non poteva essere una strategia utile di comunicazione. Di nuovo con una legge delega fu varato il Regio Decreto 1127/1939; l’art. 14 non solo confermava il vecchio divieto, ma lo volle rafforzare adeguandolo al tempo della fabbrica fordista: non possono costituire oggetto di brevetto i medicamenti di qualsiasi genere e i processi per la loro produzione. Già. Le Case Farmaceutiche avevano cercato di tutelarsi brevettando formule e macchinari, così da potersi assicurare il monopolio sul campo, e ora questa correzione colpiva il potenziale stratagemma.
Dopo il conflitto il divieto di brevetto fu acquisito nel nuovo stato repubblicano, rimase in vigore; e naturalmente proseguirono anche gli attacchi da parte dell’intero sistema internazionale Big Pharma. Ma la collaborazione ostile dei due principali partiti popolari, DC e PCI, rimase ostacolo insuperabile che impedì alle due camere di approvare l’invocata liberalizzazione dei brevetti; DC e PCI non avevano vere ragioni di opposizione, ma i loro dirigenti avevano piena consapevolezza di quanto il loro elettorato fosse contrario a questo mutamento, a un nuovo assetto che avrebbe colpito la salute consentendo enormi profitti ai ricchi sulla pelle dei poveri. E non volevano assumersi una responsabilità politica di tale portata.
Solo nel 1956 cominciò a funzionare la Corte Costituzionale, dopo anni di dibattito; prima non esisteva la possibilità di cancellare una norma dell’ordinamento. La strada fu percorsa subito da alcune Big Pharma non italiane che si vedevano rigettate le domande di brevetto, per esempio Geigy, Ciba, American Cjanamid (la nonna della odierna Pfizer), Welcome Trust (oggi Glaxo per acquisizione del ramo sanitario). Il dato singolare è che importanti imprese italiane, come Carlo Erba e De Angeli, parteciparono al procedimento davanti alla Consulta ma per chiedere il mantenimento del divieto di brevetto e non per rimuoverlo come chiedevano le multinazionali del settore. Le ragioni di una simile scelta furono molteplici; di certo traspariva uno scontro interno al capitalismo sanitario, destinato a proseguire nel tempo. Con la sentenza n. 37 del 24 gennaio 1957 la Corte, presieduta da Enrico De Nicola (che era stato anche il primo presidente della Repubblica) ebbe a statuire la piena compatibilità del divieto di brevetto con la nostra carta costituzionale; di conseguenza il libero utilizzo industriale dei medicamenti continuò a dispiegare i suoi effetti negli anni del boom economico, anche con riferimento ai processi di produzione.
Fu il centrosinistra, per iniziativa del socialdemocratico Edgardo Lami Starnuti, a presentare il disegno di legge n. 1278 nel luglio del 1965, negli anni in cui si moltiplicavano progetti autoritari finanziati dagli Stati Uniti con l’appoggio di settori importanti delle forze armate; la scelta del tempo era un evidente tentativo di compromesso per disinnescare la fortissima pressione nordamericana volta a rimuovere la svolta politica italiana. Ancora una volta guerra di brevetti sanitari e conflitto sociale si incrociavano sul campo di battaglia. Si consideri che in quegli anni, a differenza di oggi, la comunità europea non aveva ancora assunto il carattere marcatamente neoliberista dei giorni nostri; il divieto di brevetto costituiva opzione nazionale legittima, compatibile con l’impegno nel mercato comune. Il disegno 1278 si presentava tuttavia come apripista. Leggiamo nella relazione al Senato: il ritmo molto veloce con il quale si succedono le scoperte e il necessario adeguamento di ciascun paese al progresso scientifico mondiale impongono la necessità di tutelare l’industria farmaceutica, l’unica capace di mettere a punto l’intero ciclo del procedimento industriale, dal prelievo dei campioni allo studio dei microorganismi, dalla separazione e dalla concentrazione del principio attivo fino alla realizzazione del prodotto, che siano in grado di consentirle i costi di produzione più bassi …..l’incentivo brevettuale è condizione indispensabile per ulteriore sviluppo non bastando più l’imitazione servile dei prodotti brevettati all’estero. Con questa sconsiderata decisione politica del centro sinistra si afferma il nucleo centrale del pensiero neocapitalista mercantile, fondato sulla privatizzazione e sull’esproprio di ciò che fino a quel momento era comune; è la base teorico-economica che conduce alla svendita del patrimonio statale, della cessione ai privati di ogni risorsa naturale (come l’acqua) o energetica. Il disegno di legge n. 1278 è un manifesto del liberismo, non a caso il relatore sarà più tardi nominato al vertice dell’azienda elettrica municipalizzata (AEM).
Tuttavia le resistenze delle correnti democristiane più legate ai ceti popolari e dello stesso partito comunista, per tacita alleanza operativa, impedirono la trasformazione del disegno in legge dello stato; il grande ciclo di lotte iniziato nel 1966-67, e proseguito per un decennio di intenso scontro sociale, costituì un impedimento decisivo. Le camere che avevano approvato lo statuto dei lavoratori e introdotto la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo non erano in grado di votare la liberalizzazione dei brevetti sanitari senza provocare una sollevazione popolare di dimensioni assolutamente imprevedibili. Ancora una volta Scialoia, l’autore dei Principi di economia sociale l’aveva spuntata; il parlamento non era in grado di rimuovere il divieto, non aveva l’autorità e la forza di farlo.
Ci riuscirono le case farmaceutiche, italiane e multinazionali, questa volta alleate, con decisione della Corte Costituzionale n. 20 del 9 marzo 1978. Farmitalia e Carlo Erba, insieme a Ciba, Astra, Hoechst e all’intero settore (con intervento dell’associazione industriale, arruolarono gli avvocati più prestigiosi, decisi a spuntarla una volta per tutte. Una settimana dopo la trattazione della causa Aldo Moro fu sequestrato dalle Brigate Rosse per quasi due mesi e l’attenzione mediatica si concentrò su quel fatto, passando sotto silenzio che dopo 123 anni i medicamenti venivano sottratti alla disponibilità pubblica e consegnati in esclusiva protetta al profitto dei privati. Le Big Pharma erano rappresentate da un giurista assai vicino al partito radicale, il professor Arturo Carlo Jemolo, per dare una connotazione democratica a questo colpo di scure, inferto aggirando il parlamento. Con la coerenza tipica degli intellettuali liberaldemocratici l’illustre giurista sostenne il contrario di quanto aveva detto vent’anni prima, dimostrandosi capace di qualunque interpretazione della legge, purché su commissione retribuita della società Carlo Erba s.p.a. La sentenza n. 20 del 9 marzo 1978 è una delle pagine più vergognose scritte dalla nostra Corte Costituzionale. Da allora, e in modo incessante, la rapina sanitaria in danno dei meno abbienti prosegue consentendo alle imprese del settore profitti da capogiro.
Da allora la rete di protezione costruita intorno ai brevetti sanitari si è rafforzata, sempre evitando i passaggi parlamentari. Il Decreto presidenziale 338/1979 ha recepito l’istituzione del brevetto europeo e la convenzione di Monaco; a seguire sono stati approvati i regolamenti CE n. 469 del 6 maggio 2009 e n. 933 del 20 maggio 2019, entrambi vincolanti per l’Italia, con la conferma della brevettabilità in materia medico-sanitaria e con introduzione aggiuntiva della possibilità di ottenere il rilascio di certificazioni protettive complementari. Anche in Europa si è così affermato il principio liberista del vietato vietare, inteso tuttavia in senso diverso da quello dei manifestanti durante il maggio francese; qui si tratta vietare qualunque provvedimento legislativo capace di colpire, o anche solo ledere, e a maggior ragione di vietare, l’accumulazione di profitto utilizzando l’esclusiva. Si tratta ormai di un protezionismo liberistico, ossimoro forse, ma certamente redditizio. La durata dei brevetti si va estendendo temporalmente. L’Italia è passata dal divieto alla durata massima assoluta. Mentre in Europa si cumulano 15 anni di brevetto sanitario più 5 anni di certificazione complementare, in Italia si era arrivati a 38 anni complessivi di esclusiva (20 anni secondo l’art. 27 del TRIPS e 18 di integrazione). Essendoci contrasto con il regolamento europeo fu approvato un decreto, il 63 del 2002, che prevedeva adeguamento graduale al limite ventennale con abbattimento della differenza pari a 2 anni per anno; ma in sede di conversione la solita manina lobbistica ridusse il biennio a sei mesi, silenziosamente e nonostante la protesta del Garante per il danno alla salute connesso.
La vera e propria guerra dei vaccini esplosa durante la pandemia ha messo in luce la differenza fra la legislazione 1855-1978 e quella oggi in vigore.
Negli anni sessanta fu introdotta la vaccinazione obbligatoria di massa contro la poliomielite; l’alternativa era fra il rimedio elaborato da Albert Bruce Sabin (1906-1993) e quello di Jonas Edward Salk (1914-1995). Negli anni della guerra fredda gli americani preferirono Salk a Sabin, perché il secondo era nato in Polonia e il primo in America. I due non si amavano molto, polemizzavano in modo vivace. Salk usava virus morto, Sabin virus vivo attenuato. Visto che gli USA utilizzavano Salk l’URSS scelse subito Sabin. Per fortuna (e nonostante il grave incidente di Cutter nella fase sperimentale del Salk) funzionarono entrambi; in Italia la vecchia DC preferì lo zuccherino di Sabin alla puntura di Salk, nel 1963, con una scelta diversa da quella americana (oggi non sarebbe consentito, il dissenso è sempre meno tollerato, l’America ha sempre ragione!).
Quel che mi preme tuttavia sottolineare è che entrambi i virologi, Salk e Sabin, rinunziarono espressamente al brevetto. Certo esisteva il problema tecnico del Patent Act (1952) e della sentenza emessa dalla Corte Suprema (vincolante) che non consentiva di brevettare i prodotti della natura. C’era una grande differenza fra scoperta e invenzione; e in materia sanitaria individuare i criteri di separazione fra le due ipotesi di catalogazione non è semplice. E tuttavia i due medici rinunziarono entrambi. La ricerca di Salk, diretta dall’Università di Pittsburgh, coinvolse 20.000 medici e ufficiali sanitari, 64.000 impiegati scolastici, 220.000 volontari. Salk, alla domanda del giornalista che chiedeva chiarimenti sul brevetto, consapevole dello sforzo collettivo, rispose candidamente: non c’è brevetto, non si può brevettare il sole! E Sabin, a sua volta, ricordando Amy e Debora, le nipotine morte nei campi tedeschi di sterminio, disse che regalava il suo lavoro ai bambini di tutto il mondo, gli bastava lo stipendio di professore universitario. La poliomelite, proprio per la mancanza di brevetti e in ragione della libera produzione di vaccini, fu sconfitta al di qua e al di là della cortina di ferro, senza guerra pur se in piena guerra fredda.
Durante la pandemia le cose sono andate diversamente. A differenza di quanto fecero Salk e Sabin le Big Pharma del XXI secolo si sono guardate bene dal rinunciare ai diritti, mettendo subito le zampe sui soldi pubblici. Come noto Pfizer e Moderna hanno incamerato oltre otto miliardi di finanziamento pubblico, senza cedere un solo centimetro quanto all’esclusiva e ai diritti connessi all’uso del prodotto. Poi si sono adoperate in ogni modo per escludere la possibile concorrenza dei cubani (che non richiedono alcun brevetto), dei cinesi e dei russi. Gli stati nazionali legati all’alleanza occidentale si sono anzi adoperati in ogni maniera per proteggere l’esclusiva di Moderna, Astrazeneca e Pfizer, magari intervenendo con la comunicazione in favore dell’una o dell’altra, secondo regole o di convenienza politica o, peggio, di tradizionale corruzione. La gratuità della somministrazione non deve trarre in inganno; ogni dose inoculata non un costo direttamente addebitato al singolo cittadino obbligato a riceverla, ma rimane pur sempre a carico della parte pubblica, incide sul bilancio e sottrae risorse al welfare complessivo sottoposto ad attacco erosivo per assegnarle alla quota di profitto. L’accordo fra Unione Europea e Big Pharma contiene una clausola di segretezza (chiamata per pudore riservatezza) quanto ai costi; ma una fuga di notizie ha consentito di acquisire il dato relativo a Pfizer con una certa attendibilità. Dovrebbe essere pari a 15,50 $ per singola somministrazione. L’elaborazione del costo di produzione conduce ad una forbice assai divaricata, compresa comunque fra 1,79 e 4,21 $ per dose, ma presumibilmente non supera mai i 2,85 $, secondo i tempi e secondo le zone.
La pandemia si è rivelata dunque, a posteriori, un affare davvero colossale, grazie ai diritti di esclusiva, al controllo governativo, alle clausole di riservatezza; il costo dei cosiddetti richiami, secretato, è comunque ancora più alto, ovunque. Ovviamente la vaccinazione nei paesi più poveri rende meno e infatti procede a rilento; altri paesi, come Cina, Russia e Cuba, dopo aver elaborato un prodotto proprio, sono stati oggetto di attacco mediatico e additati quali nemici della democrazia. L’Uganda è il paese cui è stato applicato il prezzo minore per il vaccino approvato in occidente, ma si tratta pur sempre di 6,75 $ a dose, e ogni dose costa più di quanto lo stato spenda pro capite in un anno per la salute dei propri cittadini. Anche in Uganda il brevetto consente profitti straordinari, pur se la percentuale di inoculati rimane bassa. In Unione Europea si è calcolato che solo al luglio 2021 il profitto sia stato superiore a 31 miliardi.
Sara Albani di Oxfarm Italia e Rossella Miccio di Emergency hanno il merito di aver fornito i dati relativi alle operazioni economiche legate ai vaccini, individuando anche alcuni criteri che consento la tracciabilità delle imposte pagate da Pfizer e da Moderna. Importante è stato, sotto questo profilo, il contributo della ONG olandese SOMO.
Pfizer ha sede a New York, ma ha trovato la maniera (tollerata) di pagare le tasse nel paradiso fiscale americano del Delaware, quando non in Olanda; in passato venne bloccata una fusione societaria perché ritenuta strumento elusivo. BionTech è partner di Pfizer; il portale olandese Follow the Money ha segnalato il sistema di Holding che conduce i profitti europei di Pfizer verso Irlanda, Lussemburgo, Delaware.
Quanto a Moderna, società del Massachusset, ha aperto nel giugno 2020 una sussidiaria svizzera, Moderna Switerland GMBH, che riceve i pagamenti del vaccino destinato all’Unione Europea; paga le imposte o in territorio elvetico oppure nel solito Delaware. Il risultato è che Moderna ha pagato 322 milioni di imposta a fronte di un utile di circa 4,3 miliardi, ovvero il 7% del totale. Quando riceve lo stipendio un operaio italiano si vede trattenere alla fonte un minimo del 23%, paga in percentuale oltre il triplo di Moderna!
Lo stato italiano organizza il meccanismo di vaccinazione gratuito, ne sostiene i costi, versa alle tre Big Pharma un corrispettivo secretato dalla riservatezza che si colloca fra cinque e dieci volte l’onere di produzione, consente che i ricavi collocati nel territorio italiano non conducano ad alcun prelievo d’imposta, si traducano in una evasione, qui totale, all’estero evitata grazie ad una imposizione ridottissima. Ancora una volta il brevetto e l’esclusiva si rivelano strumento di rapina.
Il sistema instaurato dopo il 1978, attualmente in vigore, non limita i suoi effetti al solo vaccino in tempo di pandemia; è alla base della privatizzazione selvaggia del settore sanitario, incide sulla prevenzione e sulla cura. La terapia legata al settore oncologico, la diagnostica, la somministrazione di farmaci, i macchinari ospedalieri, sono ormai conquistati completamente dal vincolo di esclusiva. Lo stato non brevetta nulla, lascia la ricerca nelle mani di chi la usa come imprenditore privato. Il comune della conoscenza legata alla ricerca universitaria viene sistematicamente espropriato gratis dall’industria sanitaria. Qui in Italia esiste un gigantesco agglomerato medico-sanitario in territorio modenese, nella zona di Mirandola; è in continua espansione, in mani private e in costante relazione con il pubblico. Qui si annida la creazione di valore, la costruzione di profitto.
Oggi abbiamo un terreno scoperto nell’assistenza sanitaria. Tramontato il vecchio medico condotto, che doveva risiedere sul posto in cui abitavano gli assistiti ed era di necessità tuttologo, esiste ora il medico di famiglia, un soggetto travolto da operazioni burocratiche senza fine, non più residente ma con orario d’ufficio. Poi abbiamo le città-ospedale, moderne e gigantesche. In mezzo, fra il medico di famiglia e le città ospedaliere, non c’è nulla. E qui sta il problema. Non si tratta di abbattere le megastrutture, sarebbe una forma moderna e sanitaria di luddismo, sono ormai necessarie, sono utili. Ma vanno riconquistate, ricondotte all’assistenza effettiva. E per poterlo fare bisogna riempire il vuoto terribile fra i due estremi del segmento, de-privatizzare la sanità, riacciuffare il controllo del costo.
Dopo tanta devastazione non credo sia possibile farlo, senza che un simile obiettivo diventi programma politico ribelle. Proprio perché il profitto nel settore è enorme le imprese resisteranno con violenza inaudita, disposte a tutto. A corrompere, a comunicare contro, a colpire in ogni modo. Quando Sudafrica e India hanno chiesto una deroga all’esclusiva per poter vaccinare la popolazione la risposta delle Big Pharma è stata negativa e netta, hanno scatenato i loro lobbisti, arruolato ministri e parlamentari. Il governo Draghi, sempre in prima fila quando si tratta di tutelare il profitto, non ha avuto dubbi nel rispondere di no. Meglio un indiano o un sudafricano morto che un dollaro in meno a Pfizer. Questa è l’attuale situazione dei rapporti di forza. Per questo solo una rivoluzione di massa (non una reazione emotiva, sconsideratamente violenta) potrà consentire la necessaria introduzione del divieto di brevettare i medicamenti di qualsiasi genere e i processi per la loro produzione. La norma fu introdotta durante il processo rivoluzionario dell’indipendenza italiana; potrà essere ripristinata solo a furor di popolo.

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La guerra dei vaccini: brevetti, sanità, cura

Seminario a cura di Effimera
Tenutosi il 26 marzo 2022
Presso la Casa della cultura di Milano

Parte I – Vaccini, cure farmacologiche e bene comune

Interventi di: V. Agnoletto, L. Demontis, N. Dentico, M. Florio, G. Giovannelli

Durata 3:00:20

 

Parte II – La guerra dei vaccini: brevetti, sanità, cura

Interventi di: R. D’Ambrosio, R. Faure, A. Fiorencis, A. Trombetta

Durata 2:41:07

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La guerra dei vaccini: brevetti, sanità, cura 

Seminario a cura di Effimera

Sabato 26 marzo 2022, ore 10-18

Casa della Cultura, Via Borgogna 3, Milano (Metro M1-San Babila)

È notizia di pochi giorni fa che l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, collocato presso il ministero dello Sviluppo Economico guidato da Giancarlo Giorgetti, ha concesso una proroga di cinque anni a un brevetto collegato ai vaccini Pfizer e a Moderna e un’altra di oltre tre anni a uno collegato al vaccino AstraZeneca contro il Sars-Covid 19. Si tratta di proroghe che si aggiungono ai quindici anni di monopolio già previsti dagli accordi internazionali sulla proprietà intellettuale (gli accordi TRIPs).
Nel frattempo, l’Unione Europea si prepara a buttare 55 milioni di dosi di vaccino prossime alla scadenza. In Africa a partire dal primo gennaio, secondo i dati Oxfam, circa 250.000 persone sono morte a causa del Covid (una media di circa 7000 al giorno), mentre per la scarsità di vaccini disponibili solo l’11% della popolazione dell’intero continente ha ricevuto due dosi. L’Unione Europea ha donato all’Africa 30 milioni di dosi: di fatto solo l’8% dei vaccini prodotti in Europa nel 2022.
Esiste dunque una palese diseguaglianza nell’accesso alle cure: questo problema non ha riguardato e non riguarda solo la recente pandemia (basti pensare all’Hiv), tuttavia essa è stata molto istruttiva riguardo l’approfondimento di asimmetrie, già esistenti, tra continenti e popolazioni. Da tali squilibri dipende la possibilità di vivere o morire delle persone. In tutto questo è importante sottolineare anche che le donne, più degli uomini, non solo hanno dovuto sopportare maggiori carichi di cura nell’assistere bambini, anziani e disabili ma, in questa fase, hanno incontrato maggiori difficoltà nei servizi di medicina preventiva, riproduttiva e sessuale.
Il tema della proprietà intellettuale è dunque dirimente per imprimere un profilo alternativo alle politiche pubbliche. La privatizzazione della conoscenza va di pari passo con la privatizzazione dei servizi sociali di base, a partire dalla sanità e dall’istruzione. La logica della mercificazione della vita è oggi la prima fonte di profitto: il Welfare rischia di trasformarsi palesemente in una merce da acquistare “semplicemente” sul mercato.
Sebbene l’emergenza sanitaria abbia messo in luce le contraddizioni di tale processo, a partire dai problemi generati dai tagli alla sanità pubblica soprattutto nelle regioni del Nord, proprio la Lombardia è di nuovo capofila nel riproporre il modello della sanità privata, con la recente Riforma Moratti, approvato dal consiglio regionale lo scorso novembre.
Insomma, proprietà intellettuale sui farmaci, privatizzazione del servizio sanitario, aggravamento delle disparità di classe, di genere e di collocazione geografica sono processi sinergici che si alimentano a vicenda, rischiando di dominare in modo grave la vita dell’umanità, attuale e futura. Tutto questo, mentre, tra l’altro, si allarga l’ombra di una nuova guerra armata – tra altre guerre – e mentre i problemi climatici si configurano come altra faccia di un conflitto aperto con il vivente, anche in questi casi dall’assenza di limite all’accumulazione dei profitti.
Pensiamo, perciò, necessario un pensiero che ci aiuti a ritrovare il senso autentico della convivenza sociale e della politica.
Pensiamo necessario partire da una seria informazione su tali temi nevralgici per contribuire a favorire una maggior consapevolezza di tutte e di tutti.
Con queste ispirazioni, Effimera organizza un incontro pubblico di discussione e di riflessione critica, sabato 26 marzo presso la Casa della Cultura, in Via Borgogna, suddiviso in due sessioni.
La prima, dalle 10 alle 13, avrà come oggetto il tema della proprietà intellettuale sui vaccini. La seconda, dalle 15 alle 18, tratterà invece il caso della sanità pubblica italiana.

Scarica il Programma

 

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 18 marzo 2022

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