racconti

ORE DIECI

di Sergio Tardetti

Chi sarà che chiama a quest’ora? Perché, almeno questo è sicuro, qualcuno sta chiamando, e perfino con una certa insistenza. Ho ignorato, finora, gli squilli del telefono, dieci per l’esattezza, ma costui – o costei? – insiste nel non desistere e, dunque, allora dovrò decidermi, se sia il caso di rispondere o no. Da come insiste, si direbbe qualcosa di importante, ma oggi tutti sono convinti che quello che hanno da dirti sia qualcosa di importante. Qualcuno arriva a usare addirittura “importantissimo”, e, si sa, non c’è niente di più falso di un superlativo, forse solo un avverbio può superarlo in falsità. Allora, mi decido? O, magari, rispondendo, mi trovo in mezzo a un’altra grana? E sì che di questi tempi me ne capitano e me ne sono capitate, e un’altra in più non mi servirebbe, decisamente no. L’ultima, per esempio, me la sono proprio cercata e, guarda caso, rispondendo al telefono. Com’è andata? È presto detto: ho accettato di entrare in un certo affare, che adesso preferisco non nominare, per correttezza verso chi me lo ha proposto. Intanto, però, il telefono ha smesso di squillare, forse sono salvo. Almeno per ora, forse. Vediamo un po’ se riesco a rilassarmi – cinque minuti, non chiedo di più, vi prego! – sì, cinque minuti, ne ho proprio bisogno. Sto per mettere la parola fine a un nuovo racconto, mancano, forse, al più, una decina di righe e poi l’opera sarà compiuta. Intendiamoci, niente di così prezioso e di così fondamentale importanza per la storia della letteratura e per la mia personale. Però, devo ammettere che ci tengo. Ci tengo perché, infine, questo sarebbe il primo racconto che porto a termine e che, una volta concluso, potrò infilare nel solito cassetto, in attesa di tempi migliori. Intanto, il telefono ha ripreso a squillare, ma, a voler essere sincero, non ho proprio alcuna voglia di rispondere.
Provo a concentrarmi sull’ultima frase del testo, per riprendere il filo del discorso interrotto. Se almeno questo maledetto telefono la smettesse! Ecco che, come se mi avesse letto nel pensiero, ad un tratto, tutto tace. Finalmente, che liberazione! Adesso posso tornare alla frase che avevo lasciato a metà. Una bella frase, non c’è che dire, parole curate, contate, pesate e misurate, tutto dentro la mia testa, lucidate perfino, perché risaltino maggiormente, una volta adagiate sulla pagina. Parole fresche, non certo nuovissime, ma, insomma, nemmeno troppo abusate o consumate. Qualcuna, forse, arrugginita dal modestissimo uso che se ne fa al giorno d’oggi, ma pur sempre valida per esprimere quello che sento attraversare la mente, quel pensiero che continua a non darmi tregua. Eccolo di nuovo! Credevo di essermi liberato dall’incubo e dal fastidio di questo telefono che squilla, ma… Niente! Rispondere, forse, sarà il caso? Più il telefono squilla, più il fastidio cresce, più mi intestardisco nell’idea di non rispondere. Che aspetti, chiunque sia, che si arrangi, che faccia e decida come meglio crede! Chi sarà, poi? Certo, la curiosità di conoscere l’identità del seccatore – ma potrebbe trattarsi anche di una seccatrice, non lo escluderei a priori – aumenta di squillo in squillo, ma la volontà di non risponde va ancora ben oltre il fastidio. Ancora, dico, perché magari, tra poco, oppure anche subito, prenderò la comunicazione, se non altro per fare smettere questo insistente e fastidioso squillare. Difatti, quasi a voler materializzare il pensiero, accetto la conversazione con il più banale e asettico dei “pronto”, e mi preparo a respingere qualunque tentativo di dialogo. Ho già in mente le parole da pronunciare, nel caso in cui  si tratti di un call center o di un venditore petulante: “Il signore che lei cerca è morto, io sono un parente. Sono qui per la veglia funebre”.
Sono curioso di ascoltare la reazione del mio interlocutore – o della mia interlocutrice, visto che non ne conosco l’identità. Devo solo stare attento a condurre il gioco con la dovuta attenzione, per non farmi smascherare subito. “Giacomo!”, urla la voce nel telefono, una voce di donna entusiasta, per la quale non posso certo essere morto, perché mi ha riconosciuto. “Angelica!”, rispondo a mia volta urlando, dimostrando così di averla riconosciuta, senza che si sia dovuta annunciare ulteriormente. Per Angelica potrei mandare al diavolo un’intera frase ben fatta, anzi un’intera pagina e perfino un intero capitolo. Insomma, è chiaro, Angelica merita queste e altre attenzioni. Stupisco soltanto per il fatto che mi abbia chiamato; da come ci eravamo lasciati l’ultima volta sembrava che ormai non avessimo più niente altro da dirci. Con tutto quello che ne può conseguire, dopotutto in tre anni di incontri i nostri rapporti non si sono certo limitati a semplici conversazioni. Adesso dovrei subito stupirla con una parola, una frase, insomma, qualcosa di particolarmente intelligente, come si aspetta da me; invece, me ne resto in silenzio, in attesa di capire, o anche soltanto intuire, le sue intenzioni. Perché, se mi ha chiamato, un motivo, vero e anche serio, deve pur esserci. “Angelica…”, mi limito a mormorare nel telefono. “Giacomo, che succede? Ti sento strano”. Angelica fa spesso così, le capita di “sentire strani” molti dei suoi amici o conoscenti, che, a loro volta, sono fermamente convinti che la “strana” sia piuttosto lei. Angelica è una persona apprensiva, sempre in ansia più per gli altri che per se stessa, perché, a voler essere un po’ psicologi, Angelica senza gli altri si sente perduta. Sarà forse per questo che mi ha chiamato? Allora questo sarebbe il modo peggiore di continuare una giornata iniziata sotto una stella rassicurante. Di stelle simili, a dire il vero, non ne sono apparse ormai da tempo nel mio cielo, così vanno a volte le cose in certi periodi della vita.
Spesso ci si deve accontentare di stelle semplicemente tranquille, e perfino ringraziare di averle ottenute. Angelica non è quella che si potrebbe definire una “stella” tranquilla, con tutti i suoi dubbi e il suo pesante carico di perché, con cui è capace di assillarti per ore e ore e perfino svegliarti alle tre di notte, perché un dubbio o un perché non la fa dormire. Stavolta sembra che si sia convinta ad allineare i suoi orari con quelli del resto dell’umanità – o, per lo meno, di una gran parte, me compreso – dopotutto, un dubbio o un perché alle dieci di mattina possono essere anche ammessi e concessi. Difatti, come sospettavo, l’esordio è da dubbio o da perché. “Secondo te…”, si premura di precisare Angelica, e già in questa premessa c’è l’anticipo del senso della domanda, che non tarda ad arrivare. “Secondo te… è giusto quello che mi hanno detto?”. Ecco, è lei, è proprio lei, la riconosco, nel preciso istante in cui formula una domanda che potrebbe riferirsi a qualunque argomento, dalle tecniche di dissalazione dell’acqua di mare ai tempi di cottura di legumi di vario tipo. Perché è proprio questo che Angelica pensa di me, che io sappia tutto, anche se ho tentato più volte di spiegarle che quello che so lo so, e quello che non so non lo so. Ma, magari, mi informo, se vuoi, se hai tempo e soprattutto pazienza di attendere. Dovrei procedere a formulare qualche domanda di approfondimento, tipo “a cosa ti riferisci?” oppure “cosa ti hanno detto?”, ma so che, a questo punto, mi troverei costretto ad inoltrarmi in un ginepraio di domande e risposte dal quale potrei venirne fuori dopo svariate ore. Angelica è fatta così, di angelico spesso ha soltanto il nome, il resto è decisamente diabolico. Con lei ho coltivato l’arte di aspettare, perché so che alla prima domanda segue sempre una seconda, e spesso anche una terza. Così aspetto, prendo tempo, in attesa di poterne sapere di più, sperando anche che tutto si sgonfi come una bolla di sapone. A volte, se si incappa nella giornata fortunata, con Angelica può capitare.
Al mio silenzio, però, stavolta segue altro silenzio da parte di lei, evidentemente è convinta che la sua domanda possa essere più che sufficiente ad inquadrare l’argomento. Per evitare la fine prematura di questa improbabile conversazione, conviene a questo punto che mi armi di santa pazienza e mi riscuota dall’improvviso fastidio che mi ha assalito. “Domanda… insisti… approfondisci”, mi dico, preparandomi a mettere in campo l’inevitabile domanda. “Cosa ti hanno detto?”. Mai domanda potrebbe sembrare più banale o più ovvia, ma neppure più necessaria, dopotutto un chiarimento qualunque, uno scendere in ulteriori dettagli necessita. Provo a fare il giro largo, prima di arrivare al punto. “Non saprei… Forse è la stessa cosa che hanno detto a me?”. “Impossibile che te l’abbiano detta, ti riguarda!”. “Cioè? Spiegati meglio!”. “Ma sì, insomma… Sai, quella faccenda che…”. “Potresti essere un po’ più precisa?”. “Dai, che hai capito benissimo!”. Qui, però, si rischia di andare avanti alla cieca, e chissà per quanto tempo, occorre un diversivo. “Scusami, scusami Angelica, mi stanno chiamando sul fisso!”. “Va bene, ci sentiamo più tardi”. “D’accordo”, chiudo rapidamente la conversazione. Salvo anche questa volta. Però, bisogna che stia un po’ più attento quando rispondo. Intanto mi segno che questo è il numero di Angelica. Il resto… si vedrà! 

© Sergio Tardetti


La foto è di Alejandro Escamilla da Wikimedia

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Una Jane Austen 2.0

di 

L’ultimo libro di Bia Cusumano, docente di italiano e latino in un liceo di Castelvetrano, in provincia di Trapani, è una raccolta di racconti, Trame Tradite, edita da Navarra a Palermo nel 2023. Perché parlarne qui? Perché offre preziosi spunti per una eventuale riflessione di gruppo (un tempo si chiamavano gruppi di autocoscienza, ma stavolta dovrebbe essere misto) sull’empowerment femminile, sulla violenza di genere, sulla disabilità e la malattia come cifre esistenziali, ma anche sulle strutture di coppia, sull’ipocrisia delle istituzioni familiari e sugli affetti, e ancora sulle inquietudini dell’adolescenza, o infine sulla pandemia, le guerre e le migrazioni.

La protagonista delle storie è quasi sempre la stessa, sotto diverse sfaccettature. Esile, bella, con ricorrenti capelli rossi, ben vestita e professionalmente realizzata (anche in ambiti tradizionalmente maschili come la chirurgia, l’ingegneria, la magistratura), forte e sicura di sé di fronte agli altri, cela però un dolore segreto, un rovello che è anche la pietra angolare della sua costruzione di sé. Può essere l’abbandono della madre, la malattia “invisibile, ladra di vita”, un lontano amore imploso o esploso e non elaborato, la maternità negata o conflittuale. Ella incarna, insomma, per usare una parola oggi di moda, una resilienza decisa.

È in certo modo proiezione dell’autrice che, per sua stessa ammissione, fa della scrittura una misura catartica insostituibile: “scrivere all’inizio fu come pregare. Poi divenne come respirare. Poi fu vivere. Poi sentirmi amata.” E più in là: “Scrivere mi aveva sempre restituito a me stessa. Mi aveva sempre sanato dalle ferite del mondo e salvato dai suoi orrori”, perché “siamo fatti di parole”.

Gli eventi con i quali le donne di Cusumano devono fare i conti sono talvolta estremi: il tentato infanticidio in culla ad opera di una madre sofferente di depressione post-partum; un suicidio, perché una Itaca in cui trovare rifugio o fare ritorno a casa non esiste; uno stupro di gruppo. Più spesso sono esiti di una perdita con i quali convivere per sviluppare consapevolezza: compare insistente il tema del divorzio o del ritrovamento di un perduto amore, come pure il desiderio impossibile di mettere al mondo una figlia (non un figlio, si badi!).

Troviamo pure bambini e giovanissimi in queste pagine e non solo perché l’autrice ama “con passione” il suo mestiere e la scuola, ma per la sua attenzione alle fragilità cui è necessario dedicarsi: un piccolo Down, un adulto rimasto “piccolo” per un qualche male non detto, un orfano di guerra ucraino con il quale comunicare in silenzio mano nella mano, ed anche una vecchina con il morbo di Alzheimer.

Il racconto più bello è forse il primo, dedicato all’albero di limoni della villa paterna, generoso come quello descritto da Danilo Dolci nella sua poesia I limoni lunari: un albero che “ad ogni luna butta le sue zagare”, aveva scritto il Gandhi della Sicilia, figura dei contadini che sanno di fatica e solidarietà; un albero di cui prendersi cura, scrive Cusumano, perché “in una casa sempre servono i limoni freschi”, doni profumati come quelli dipinti da Renato Guttuso, infatti “il bene fa ciàvuru pure se non si vede”. E l’albero è l’incarnazione dell’amata nonna, scrittrice e veggente, di cui la narratrice porta il nome e il destino. Come non pensare al romanzo di Gioconda Belli La donna abitata, in cui una giovane, bevuta una spremuta di arance colte dall’albero del suo giardino, diviene una valorosa rivoluzionaria, poiché quel succo era sangue della sua antenata guerrigliera?

Ma le donne di Cusumano niente sanno di rivoluzione e poco si interessano al mondo fuori: tutte ripiegate nell’introspezione e dedite agli affetti privati, cercano ostinatamente l’amore perfetto, la pura “appartenenza” e, in qualche caso, lo trovano anche o credono di trovarlo. Ricordano le eroine di Jane Austen, combattute tra il desiderio di autonomia e di indipendenza economica, il vincolo sociale che le vuole esclusivamente spose e l’aspirazione ad un incontro unico e totalizzante. Donne in bilico, tra un femminismo mai esplicitato (anche la sorellanza si limita a relazioni tra amiche intime e non si apre alla circolarità sociale) e il persistente perseguimento di un modello di coppia chiusa.

Ecco perché all’inizio ho suggerito la lettura di questo libro come sprone ad una riflessione politica: le vicende narrate da Cusumano possono forse offrirsi ad esiti diversi, come storie con un finale aperto che, inserite in un contesto politico, entro uno sfondo storico che tenga conto delle contraddizioni attuali, costituiscano uno sprone per noi, per un’analisi collettiva che faccia del partire da sé un metodo per interpretare il mondo e trasformarlo.

L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 10 aprile 2024

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ORE CINQUE

Tratto da “VENTIQUATTRO ORE”, raccolta inedita di racconti brevi, a volte brevissimi…

Insonnia, Taccuino Sanitatis (ritaglio)

di Sergio Tardetti

Eccomi ancora qui! È già la terza volta che mi sveglio e sono costretto ad alzarmi, per andare… in bagno, naturalmente! Quando si raggiunge – e a volte, addirittura, si supera – una certa età, ecco che si può finalmente godere di qualche privilegio. Per esempio… Per esempio? A dire il vero, in questo momento non me ne viene in mente nessuno, avrei voluto dire “poter disporre liberamente del proprio tempo”, ma vedo che la strada che conduce alla dimostrazione di questa affermazione è lunga e irta di ostacoli. Chi potrebbe affermare, infatti, di poter disporre liberamente del proprio tempo? E dimostrarlo, per giunta? Forse alle cinque di mattina, quando anche gli altri sono impegnati in qualche sonno profondo, o impigliati nella rete di un sogno assurdo, dalla quale non riescono a districarsi, allora potrebbe essere anche probabile che lascino agli altri la possibilità di poter disporre liberamente del proprio tempo. Ma solo fino al risveglio, perché, da quel momento in poi, il loro tempo sarà a disposizione degli altri. E se c’è qualcuno disposto a smentirmi, che si faccia pure avanti! Ma, per tornare all’elenco dei privilegi concessi dall’avanzare degli anni, direi che uno di questi è non avere orari che vincolano la giornata. Per esempio, puoi essere in piedi già alle cinque di mattina, anche senza una motivazione precisa. Ormai per te non è più quel tempo e quell’età in cui avevi forti e pressanti motivazioni per essere in piedi a ore improprie – come le chiamavi allora – ormai ti svegli, ti alzi, e basta.

Naturalmente, facendo attenzione a non svegliare gli altri, quelli che vivono con te nella casa, o, peggio ancora, i vicini – giovani, beati loro! – che tra poco dovranno alzarsi davvero per andare al lavoro. Cercherai di muoverti con la massima cautela, per evitare che qualche rumore improvviso li svegli; e allora sai benissimo che qualche parola fuori luogo, rivolta al vicino insonne, potrebbe uscire fuori anche da quelle loro bocche, di solito sempre vocate al sorriso. È capitato un po’ a tutti, in quella fase che segue immediatamente il risveglio, di avere pensieri piuttosto violenti nei confronti del prossimo, non tanto per un prossimo specifico, ma così, in generale. Perfino per quel prossimo mai conosciuto, che non ti ha mai fatto niente, eppure in quel momento preciso ti si propone come un nemico da combattere e da abbattere. Le cinque del mattino ridestano in ciascuno di noi gli istinti primordiali, di quando ancora si riteneva che ogni uomo fosse un lupo per un altro uomo. A quest’ora è piuttosto facile essere aggressivi, soprattutto se si è trascorso il resto della nottata in un aggirarsi insonne tra le stanze di casa. I motivi? Anche qui possono essere i più disparati, ma il più comune è certamente un pensiero che si è insediato nella mente al momento di coricarsi e non ne è venuto più fuori. Non necessariamente un pensiero importante, ne basta uno qualunque, ad esempio dover chiamare l’idraulico il giorno dopo per un rubinetto o uno scarico che perde.

Conosciamo tutti per esperienza quanto possa dare da pensare la necessità di chiamare un idraulico, che di solito non ha mai tempo da dedicare a te, sempre così oberato di altri impegni. E, se per caso si rende disponibile, allora sì che cominci a pensare seriamente. E a preoccuparti, come è naturale. Prima di tutto per il conto che ti presenterà, e anche per la lunga lista di difetti che sembra presentare il tuo impianto idraulico, quello che a prima vista sembrava perfettamente funzionante. Non sai che le normative cambiano di anno in anno? E che una corretta manutenzione ti farà risparmiare spese future e, soprattutto, futuri problemi? Alla richiesta di un preventivo, sai già che l’idraulico scuoterà la testa, impossibile farne uno come si deve senza prima aver potuto visionare l’intero impianto. Sotto quel fuoco di fila di future domande e future spese, la tua mente difficilmente sarà capace di abbandonarsi al sonno. E allora non ti resta che continuare ad andare avanti e indietro, fra la camera da letto e il bagno, e ritorno, in attesa che arrivino le sei e con loro la luce di un nuovo giorno. A quel punto, come per un incantesimo al contrario, l’idraulico con i suoi conti, i suoi preventivi e le sue minacce di dover rifare l’impianto ex novo, si dissolveranno insieme alle foschie mattutine, all’apparire del primo raggio di sole. Intanto, però, sono ancora poco più delle cinque e per l’incantesimo che fa sparire gli idraulici c’è ancora molto da aspettare. Così non resta che rimettersi a letto e sperare di non doversi alzare di nuovo per qualche impellente necessità, anche se è vero che è impossibile fare pronostici su questi argomenti.

Non hai saputo da un po’ di tempo che noi siamo fatti essenzialmente di acqua? E, dunque, ne hai ancora a sufficienza per tornare a percorrere l’itinerario letto-bagno e ritorno almeno per tre o quattro volte, prima che sia ora di alzarsi. Ma poi, alla fine, questo idraulico bisognerà chiamarlo davvero, o proverai tu stesso a riparare il guasto? Sei ancora impegnato nel dover decidere sul da farsi, quando, ecco, di nuovo lo stimolo ad andare in bagno. Che nottataccia! Stavolta devi avere fatto più rumore del solito, perché ecco che nella tua stanza si accende una piccola luce, la torcia del cellulare, che sta ormai soppiantando la vecchia lampada sempre presente sul comodino accanto al tuo letto. “Che succede?”, chiede una voce impastata dal sonno. “Niente, niente. Dormi…”, rispondi sottovoce, perché non vorresti svegliare qualcun altro, magari il vicino o la vicina di casa, che potrebbe essere insonne a sua volta. Ti è sembrato, in effetti, di sentire i passi di qualcuno andare e venire da una stanza all’altra – nelle nuove abitazioni antisismiche i suoni si trasmettono facilmente, perfino amplificati da questo silenzio, raggiunto grazie ai nuovi vetri termicamente e acusticamente isolanti. E certamente, anche il tuo viavai non sarà sfuggito al vicino o alla vicina, a cui sfuggirà un sorriso di magra consolazione, al pensiero di qualcuno che condivide la stessa sorte. L’insonnia, madre di tutti i vizi e di tutte le virtù, regna sull’umanità persa nel tentativo di chiudere gli occhi, almeno fino al sopraggiungere delle prime luci dell’alba.

© Sergio Tardetti 2024

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GIOVEDÌ

di Sergio Tardetti

Per la serie di mini racconti sul tema “I giorni della settimana”, oggi tocca al… GIOVEDÌ
Per non sentirmi espropriato del personale diritto al libero pensiero, ogni giovedì pomeriggio mi esercito a formularne qualcuno particolarmente originale. Ho scelto di farlo il giovedì perché, di solito, ho il pomeriggio libero e Caterina ha il suo allenamento settimanale, in preparazione dei tornei di burraco. Condizione ideale, quindi, per tentare di formulare pensieri originali, avendo la casa a mia completa disposizione e, soprattutto, immersa nel più assoluto silenzio. L’atmosfera giusta, insomma, per esplorare i contorti itinerari della mente, alla ricerca di qualche intuizione significativa. Negli altri giorni, di solito, appena inizio ad estraniarmi – perché è questo che occorre per formulare pensieri, originali o meno non ha importanza – ecco che vengo distolto dalla mia concentrazione dalla solita inevitabile domanda: “Che facciamo per pranzo?”. Alla quale può seguire l’eventuale classica alternativa, che si presenta nella forma: “Che facciamo per cena?”. Questa viene avanzata, generalmente, nella seconda parte della giornata, anche se non è del tutto impossibile che entrambe vengano formulate in un’unica soluzione, per assicurare così la completezza del menu del giorno in una sola tornata. “Non saprei”, è senza dubbio la risposta più frequente, seguita anche da altre più articolate, nelle quali, oltre alla denominazione del piatto del giorno, se ne enunciano anche gli ingredienti e la preparazione. Risposta fornita, questioni risolte?
Nemmeno per sogno, perché a risposte certe vengono opposte obiezioni altrettanto certe, come a cercare di voler scendere nei particolari e, in questo modo, perfezionare l’esito dell’estenuante interrogatorio. Una volta, per trovare una soluzione definitiva alla vexata quaestio, ho suggerito di stilare alcuni menu settimanali, da proporre a scelta e a rotazione nell’arco del mese. Apriti cielo! Ma vogliamo scherzare? Un tentativo, anche piuttosto maldestro, di imbrigliare la fantasia! E il libero arbitrio? Dove lo mettiamo il libero arbitrio? È così che l’alta speculazione filosofica finisce sempre per contaminare ordinari problemi di quotidianità, compresi quelli di nutrizione; che poi, alla fine, tanto ordinari non si dimostrano. Manca poco che venga convocata una apposita commissione, che giudichi nel merito della correttezza e della realizzabilità delle proposte dei menu settimanali. Il giovedì, specialmente il pomeriggio, è, dunque, atteso dal sottoscritto più che le sentinelle l’aurora. Diventa l’isola alla quale il naufrago desidera approdare, benché deserta e probabilmente priva di risorse per la sopravvivenza. Ma già approdare è di per sé stesso sopravvivere. E vi si approda con sguardo sereno proprio perché deserta. Così, liberi da scomode domande e altrettanto scomode presenze, si inizia l’ennesimo tentativo di formulare pensieri originali. Oddio, al principio l’originale è ampiamente sopraffatto dal banale, perché il tentativo di estraniarsi richiede tempo, impegno e fatica, e l’immanente prevale sempre di gran lunga sul trascendente.
Per formulare qualche lucido pensiero originale occorrono tempo e fatica, si sa, e non tutti sono propensi a impegnare l’uno e/o l’altra in una attività che non ha certo l’apparenza di trasformarsi in remunerativa. A pensare a lungo, tentando di pescare un pensiero fresco e originale nel grande mare dei pensieri inutili, si perde tempo e, direbbe qualcuno, anche denaro. Quello che si sarebbe potuto guadagnare dedicandosi ad altre attività più lucrative, compresa la pesca a mosca. Compresa perfino la scelta e l’organizzazione del menu del giorno, meglio ancora di menu settimanali, così da non dover essere distolti dal pensare dalla classica domanda: “Che facciamo per pranzo?”, che fa regolarmente il paio con l’altra, “Che facciamo per cena?”. E dedicare, infine, il proprio tempo e la propria intelligenza ad approfondimenti sul vero senso della vita. Oltre che, naturalmente, sulla preparazione di pietanze semplici e appetitose. Un modo, questo, di passare il tempo che raramente si disdegna, anzi, sembra quasi diventato una ragione di vita per un numero sempre crescente di esseri umani. Intanto, immerso in queste considerazioni, mi accorgo, ad un tratto, che il pomeriggio è ormai quasi al termine. Tra poco Caterina tornerà a casa e con lei tornerà anche l’ineludibile domanda: “Che facciamo per cena?”. E, a questo punto, mi accorgo di aver trascorso alcune ore baloccandomi in assurde fantasie, quando sarebbe stato più utile tentare di trovare una qualunque risposta alla domanda che attendo con ansia che venga formulata.
Provo a rifugiarmi nell’infondata speranza che Caterina stessa rientri in casa con la risposta, ma so già che dovrò scavare a fondo nella memoria, per cercare di recuperare qualcosa di abbastanza valido da poter chiudere il dibattito fin dal suo nascere, e passare subito dopo alla realizzazione della proposta. Anche per oggi, nessuna traccia di pensieri originali, solo un continuo rimestare dentro ricordi che non sembrano lasciare molto spazio alla novità. Intanto, uno scampanellare alla porta annuncia il ritorno di Caterina, come al solito senza chiavi. Deve averle lasciate per l’ennesima volta sopra il comò o in un’altra borsa, chissà poi quale tra le tante. Ormai sono abituato a certe sue distrazioni, così come so che non devo innervosirmi o preoccuparmi se il pensiero libero e originale non ha fatto la sua comparsa, questo pomeriggio. Pazienza, sarà per il prossimo giovedì!
© Sergio Tardetti 2023

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L’ARTICOLO

di Sergio Tardetti

Entri, entri, si accomodi. Se l’ho mandata a chiamare? Certo che l’ho mandata a chiamare, caro Sismondi, altrimenti perché lei sarebbe qui? Non glielo hanno detto? In effetti, non lo ho detto neanche io a chi ho mandato a chiamarla, caro Sismondi. Comodo, comodo, stia pure lì in piedi, è una faccenda di pochi minuti, giusto il tempo di dirle… Chi è che mi chiama, adesso? Eccola qui, sempre lei… Caterina! Che piacere sentirti, stavo giusto parlando di te con Sismondi. Te lo ricordi Sismondi, vero? Come chi sarebbe? Il mio redattore capo, quel gran genio del Sismondi, quello che reinventa la grammatica e la sintassi. Te lo avevo presentato alla festa del giornale, sai quel giovanotto un po’ anziano, che ha l’età di mio figlio, ma sembra mio padre … Ah, hai capito di chi parlo, vero? Pensa che l’ho fatto assumere proprio io all’Eco di Montretto, sì, insomma, al giornale, e sempre io l’ho nominato redattore capo. Se è stata una buona idea, dici? Ancora non mi sono dato una risposta, anzi, la sto ancora cercando, ma prima o poi la troverò, stai sicura. Mi stavi dicendo? Scusa se divago, ma ho un piccolo problema da risolvere… Di che problema si tratta? Niente di serio, ma è un problema da non sottovalutare, per questo ho chiamato Sismondi, che mi darà senz’altro una mano… Oppure la darò io a lui, ma per salutarlo, arrivederci, anzi, forse addio. Abbia pazienza, Sismondi, finisco questa telefonata e sono da lei. Allora, ci vediamo stasera? No, non dico a lei Sismondi, parlavo con Caterina… Stasera, sì, otto in punto, ristorante? Tre Cervi? È nuovo?
Non lo conosco… Lei, Sismondi, lo conosce? Mi fa cenno di sì, si vede che lui esce molto più spesso di me, Caterina. E, scusi Sismondi, ci va spesso? Ah, anche di recente? E, mi dica, mi dica: come si mangia? Molto bene, mi sta dicendo, mi segui Caterina? E, mi dica, mi dica: come si beve? Ah, molto bene anche per quello? Non è che c’è stato ieri sera, per caso? Perché, scusi sa, se c’è stato ieri sera e si beve molto bene, magari stamattina non sarà stato poi così lucido da poter scrivere l’articolo di fondo. Ah, l’aveva già scritto ieri sera, prima di uscire a cena? E, se non sono indiscreto, mi scusi Sismondi, con chi era? Preferisce non dirmelo, capisco… Capisci, Caterina? Ah, anche tu capisci benissimo, non è che per caso vi siete messi d’accordo? Comunque, si è trovato bene, vero? E qui al giornale, mi scusi, come si trova? Bene, anche qui. E, se insistessi per sapere con chi era ieri sera? Non me lo vuole dire… Me lo dici tu, Caterina? Perché, tu che ne sai? Ah! Eri tu con lui… Scusa, Caterina, se sono stato indiscreto, perdonami, ma c’è che stamattina mi sento un po’ fuori fase, specialmente dopo avere letto l’articolo di Sismondi. Non che sia scritto male, con quel tanto di ironia che il nostro buon Sismondi sa mettere nelle sue parole, con quella dose di buona retorica che tutti gli riconosciamo, ma, abbia pazienza, Sismondi, anche con quella sciattezza per la quale l’ho dovuto riprendere più volte. Capisci, Caterina? No, Sismondi, per favore, non mi dica che le dispiace, che un errore può capitare a tutti e che la prossima volta ci starà più attento, perché me lo ha già detto tre giorni fa, una settimana fa, due settimane fa e anche un mese fa.
Come posso fidarmi di lei, se continua a commettere errori così banali? Siamo giornalisti, che diamine, mica graffitari? Come dici, Caterina? Ah, capisco… Questo però non me lo avevi mai detto prima, perché? Giusto, giustissimo, affari tuoi… Scusami se sono stato inopportuno, d’accordo, fai conto che non te lo abbia mai chiesto. Dunque, Sismondi, a quanto sembra c’è qualcuno che si sta prendendo molta cura di lei, qualcuno disposto a scendere in campo a sua difesa… Però, anche lei! Scusi, sa, ma mi commette certi errori che neanche uno scolaretto… E lei è laureato, vero? Ah, non è laureato? Avrà almeno frequentato l’università, spero! Scusi, sa, Sismondi… Come dici, Caterina? Siete stati compagni di corso? Ed è proprio lì che vi siete conosciuti… E con voi c’era anche… Ma no! Davvero? E voi tre eravate inseparabili, e siete tuttora, molto amici… Capisco, capisco benissimo, però Sismondi non si è laureato. Non è colpa sua, dici? Sì, certo, anche Sismondi mi fa cenno di no, magari tutto questo avrà una spiegazione, ma ciò non toglie che… Insomma, certi errori finiranno per compromettere la buona immagine del giornale, non è d’accordo anche lei, Sismondi? E, quindi, che dovrei fare, secondo te, Caterina? Certo, capisco, ma non ti sembra un po’ troppo chiudere un occhio di fronte a certi errori? Come sarebbe a dire: quali errori? Andiamo, Caterina, errori che neanche alle elementari si sarebbero commessi, figurarsi poi da un quasi laureato… Perché lei non è laureato, me lo conferma, Sismondi? Me lo conferma.
E allora, perché al momento dell’assunzione mi ha detto che era laureato? Ah, glielo ha consigliato lui, anzi glielo hanno consigliato loro… Ma loro, chi? Tu, Caterina? E, immagino che l’altro sia lui… E va bene, si vede proprio che oggi non è giornata. No, non ce l’ho con te, Caterina, ce l’ho con me stesso, che qualche volta dovrei stare un po’ più attento a scegliermi i collaboratori. O, per lo meno, dovrei evitare di farmeli imporre. Adesso devo lasciarti, Caterina, ho qui da fare con il nostro Sismondi, un ripassino di grammatica, che forse potrebbe tornargli utile. Ciao, Caterina, a presto! Anzi, a stasera, vero? Come sarebbe a dire: dipende? Ma dipende da cosa? Ah, da quello che ti farà poi sapere Sismondi. Dai, Caterina, non scherziamo, che c’entra Sismondi, adesso? C’entra, dici? Perché, dalla sua risposta a una certa tua domanda, dipenderà se stasera usciremo insieme o no… Capisco, anzi, non capisco: a quale domanda ti riferisci? Ah, ecco: chiederai a Sismondi come l’ho trattato, e, a seconda della risposta, deciderai. Ma perché dovrà decidere lui di quello che farò stasera? Perché lui è stato un tuo compagno di corso all’università, insieme a… Ci siamo capiti! Tranquilla, Caterina, te lo rimanderò tutto intero! Ma è uno scherzo, una battuta, Caterina! Via, adesso non possiamo più nemmeno scherzare? Non su certi argomenti, dici… E va bene, allora non scherziamoci, diciamo che facciamo sul serio. Adesso parlo un attimo con Sismondi e poi ti faccio richiamare, così ti dirà lui come è stato trattato, con i guanti bianchi, come sempre, del resto. Sì, ciao Caterina, a stasera, allora… forse.
Allora, Sismondi, veniamo a noi. Dunque, lei ha detto di avere scritto l’articolo che è uscito oggi fin da ieri sera. Sì, ho capito, prima di uscire con Caterina. Immagino, però, che avesse molta fretta, sa, io la conosco Caterina, e lei non sopporta che si arrivi in ritardo a un appuntamento con lei. Perciò, forse, data l’ora, sarà stato costretto ad affrettarsi, immagino. Giusto? E immagino anche che, una volta terminato di scrivere l’articolo, lo avrà riletto e poi spedito… Ah, lo ha soltanto spedito. Senza rileggerlo, quindi, perché se lo avesse riletto, allora se ne sarebbe accorto… Come, accorto di cosa? Allora, guardi, proviamo ad arrivarci un poco alla volta, dopotutto Caterina mi ha chiesto di essere paziente con lei, e poi c’è sempre quell’altro amico vostro, sì, lui, insomma… Dovremo tenerlo presente, anzi, io dovrò tenerlo presente, non vorrei creare qualche caso, che poi potrebbe… Sì, insomma, lo so ben io cosa potrebbe. Perché sorride, Sismondi? Dice che ha capito cosa intendo dire? E, sentiamo, che cosa avrebbe capito? Su, me lo spieghi! No, non mi altero, non mi sto alterando, anzi, glielo chiedo con tutta la calma possibile: potrebbe cortesemente spiegarmi quello che ha capito? Dice che altrimenti lui… Va bene, basta, vedo che anche per lei è tutto chiaro, torniamo a noi, per favore. Dunque, l’ho fatta chiamare… Oh, insomma, non è il caso di finire un discorso che subito ti interrompono! Ma chi è che…? Ah, buongiorno, è lei, mi fa piacere sentirla… Tutto bene? E a casa tutto bene? Con chi ha appena parlato? Dice che dovrei indovinarlo? Mah, difficile poterlo dire, lei ha a che fare con così tanta gente che… Ah, la conosco anch’io questa persona, dice…
Scusi, sa, ma non sarà stata per caso Caterina? Ah, ecco, volevo ben dire… Dire cosa, mi chiede? Niente, niente, un pensiero mio, capitato in testa quasi per caso. Dunque, lei ha parlato con Caterina. E, mi scusi se sono curioso, ma a proposito di cosa? Non di cosa, dice? Allora di chi? Ecco, lo immaginavo, ma ho preferito che me lo confermasse lei… Sismondi, sempre Sismondi, fortissimamente Sismondi! Scusi, sa, la citazione mi è venuta spontanea, naturale. No, non era affatto mia intenzione fare dello spirito, non mi permetterei mai, specialmente poi con lei… Come dice? Se Sismondi è ancora qui da me? Sì, in effetti è ancora qui, stavamo discutendo sa, ma bonariamente, s’intende, perché con lui non potrei farlo che in questo modo, bonariamente. Come dice? Vorrebbe, anzi vuole, che glielo passi? Sì, subito, eccolo… Caro Sismondi, è per lei, naturalmente immaginerà chi possa essere… Come dice? Bravo, sì, proprio lui! Eccolo, glielo passo! (Ma tu guarda un po’ che mi doveva capitare oggi… Del resto, me lo sentivo che non sarebbe stata una giornata tranquilla. E poi, accidenti a me e alla mia pignoleria! Ma, del resto, che posso farci? Sono fatto così, punto e basta). Tutto a posto, Sismondi? Vi siete consultati abbastanza? Via, non faccia quella faccia, per favore, si parla, si dice, si fa tanto per scherzare! Mi vuole parlare ancora, dice? E sentiamo… No, sì, no, sono ancora qui… Va bene, adesso parlo con Sismondi. Grazie, grazie… A presto!
Allora, caro Sismondi, tutto chiarito! E, mi scusi se l’ho fatta chiamare, ma purtroppo io sono fatto così… Fatto male, come dice a volte anche Caterina, malissimo, ma, d’altronde… Insomma, tornando a noi, ecco, venga qui, si avvicini… Vede qui? Non lì, qui! Cosa nota? Non nota anche lei qualcosa che stona con il resto dell’articolo? Qui, qui, dove sta guardando, scusi? Ah, lo vede anche lei! E, mi scusi, non nota niente di strano? Niente… Tutto normale, dice. Eppure, guardi bene, anzi, guardi meglio… Qui, qui! Non sto alzando la voce, mi scusi, sa, a volte mi infervoro, mi faccio prendere la mano dal mio carattere… Come sarebbe a dire: un brutto carattere? Lo dice lei! Ah, non lo dice lei, si limita al più a riferire, lo dice Caterina… E anche lui, quello, insomma? Ho capito, ho capito… Allora, guardi Sismondi, guardi qui, lo vede? Cosa c’è scritto? Un uomo… Bravo, è così che si leggerebbe, ma guardi meglio. Lo vede quel cosino pressoché invisibile tra “un” e “uomo”? Saprebbe dire anche come si chiama? Bravo, quel cosino si chiama apostrofo… Come sarebbe a dire: cosa c’entra? Come sarebbe a dire: è per questo che mi ha fatto chiamare? Per un apostrofo? Sì, per un apostrofo, proprio! Senta, Sismondi, io magari perderò il posto, ma lei mi faccia un favore: ripassi la grammatica!

© Sergio Tardetti 2023

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