Sergio Tardetti

LA QUINTA DIMENSIONE

E’ in uscita presso l’editore Bertoni una pregevole raccolta poetica, autrice Simona Chiesi, dal titolo “Diorami notturni”. Ne ho curato la pubblicazione nella mia collana “Emergenze” e ne ho scritto la prefazione…

LA QUINTA DIMENSIONE – prefazione

Ogni volta che prendiamo in mano un libro, per aprirlo e iniziarne la lettura, avvertiamo in noi prepotente l’aspettativa di volerne essere sorpresi. Sorpresi dalle parole che ci avviamo a leggere, sorpresi dalla sapiente abilità con la quale l’autore/ autrice si impegna a combinare quelle parole per rappresentare situazioni, descrivere sensazioni, suscitare emozioni che non dimenticheremo facilmente, una volta giunti all’ultima pagina, perfino a distanza di tempo. La raccolta poetica di Simona Chiesi, “Diorami notturni”, riesce ad andare ben oltre queste attese, proiettandoci in una dimensione che si aggiunge alle quattro classiche dello spazio-tempo. È quella che definisco la “quinta dimensione”: la dimensione “poetica”. Libera e non dipendente dal qui e ora, al di là e al di fuori di questi parametri, è una dimensione costituita di sensazioni, di voli fantastici tesi ad inseguire i pensieri e ad inoltrarsi nelle profondità dell’infinito. Tutto quello che è dotato di una qualche fisicità scompare lentamente, si dissolve, svapora, fino a sublimarsi, disperdendosi oltre una muraglia fatta di parole che rimandano a suoni, i quali, a loro volta, rimandano a immagini, sogni e visioni. È l’insormontabile muraglia di montaliana memoria, “che in cima ha cocci aguzzi di bottiglia”, quella che noi seguiamo, costeggiando un territorio invisibile del quale proviamo a immaginare geografia e consistenza attraverso fonemi che appartengono ad un linguaggio comune.

Quello che viene percepito e appare ai nostri sensi, nella dimensione dello spazio-tempo, non è che una rappresentazione – una delle tante possibili – della quale ci serviamo per dare corpo e forma alla dimensione ideale che riusciamo a raggiungere attraverso l’Arte, in particolare attraverso la poesia. È in questo modo che avviene la “sublimazione” del significante, operazione questa che ne amplifica il significato e la potenza espressiva. Così avviene l’elevazione della parola, che consente di prendere le distanze dall’immanente, per riuscire ad aprirsi un varco nella siepe oltre la quale si immagina la presenza dell’infinito, con la mente rivolta verso il trascendente che a volte, tramite la potenza evocativa delle parole, riusciamo persino a percepire. Impossibile non sentirsene attratti, coinvolti e quasi ammaliati, con il costante desiderio di andare oltre una forma letteraria costruita con parole sceltissime e giungere al nucleo – o meglio, al cuore – della poesia passando, come Alice di Lewis Carroll, attraverso lo specchio.

È a questo punto che facciamo il nostro ingresso nel gioco della “fruizione” del testo poetico, del come e perché avvicinarsi a un testo che richiede la nostra attenta e continua partecipazione. Possiamo scoprire, leggendo, che una poesia parla di noi, avvertiamo la sua vicinanza nel sentircene rappresentati, talvolta perfino ritratti, ma più spesso ci limitiamo soltanto a vederci riflessi in lei, come se si trattasse di uno specchio per la nostra anima. L’invito che rivolgo al lettore è quello verso una “fruizione attiva”, l’incoraggiamento ad “attraversare lo specchio”, per ritrovarsi in un mondo del quale siamo parte da sempre, entrare nella dimensione poetica, per l’appunto. Tutto questo con l’obiettivo di “comprendere” la poesia, non certo di “capirla”, operazione quest’ultima priva di senso e di scopo, limitata spesse volte ad una mera parafrasi del testo. “Comprendere” la poesia equivale, in un certo qual modo, a stringerla in un abbraccio e a farsi abbracciare da lei, per lasciarsi emozionare dalle sensazioni che è capace di suscitare nell’anima, più che raccogliere gli stimoli che dovrebbero raggiungere la mente. Tutto questo, e molto altro, accade nel corso della lettura di “Diorami notturni”, raccolta poetica di rara fascinazione. Un lettore appassionato ed attento può sperimentarlo pagina dopo pagina, verso dopo verso, come ad esempio quelli che rivelano il senso del titolo della raccolta. Il misterioso e fascinoso titolo trova la sua esplicitazione nei versi di una poesia “Diorami”: Inutili costruzioni/ di una irrealtà latente/ che non avrà il sopravvento/ su quella prepotente e vera./ Vivono notturni,/ Vibratili, evanescenti.

Nei versi di Simona Chiesi predomina la frequente e attenta riflessione sull’essere e sul divenire, il voler mettere alla prova la consistenza e la ricchezza di una lingua che si trova a dover esprimere profondi stati d’animo e originali punti di vista sulla realtà. Testi ricchissimi di un lessico prezioso, elegante e a tratti ricercato, per quanti cercano, attraverso un personale muto dialogo con la poesia, di scavare a fondo nella propria anima, per interrogarla e chiederle conforto sulla propria visione della realtà e del mondo. Il fare, l’agire, l’attualizzare quella affermazione di padre David Turoldo, secondo la quale “poesia è rifare il mondo” sembrano gli stimoli, gli spiriti guida che danno impulso e vitalità alla scrittura della autrice, che sollecita il lettore, affermando: “basta non restare nel limbo/ ad attendere indicazioni/ e indugiare arresi.” Si avverte costante la tensione di una ricerca della perfezione, dell’incastro ben connesso, che possa far ammettere che lì e soltanto lì poteva trovare collocazione quella parola o quella frase; è trasparente la ricerca di un lessico personale che mira a prendere le distanze da un frasario quotidiano, frammisto di ovvietà replicate all’infinito e di rinuncia a qualsiasi forma di dubbio. Istintivo corre, d’altra parte, anche il richiamo al verso montaliano “Non chiederci la parola…”. I limiti della poesia, i confini in cui opera e agisce, sembrano tracciati e definiti, anche se, passo dopo passo e metro dopo metro, il suo territorio, grazie all’azione dei poeti, è in continua espansione. Forse, fra le tante parole delle quali è intessuta la raccolta, ognuno potrà trovare quella che va cercando, magari l’unica e la sola che possa motivarlo a cercare una personale ragione di continuare a resistere ogni giorno agli attacchi dell’esistenza. Una poesia-approdo, una poesia che possa salvarci dagli inevitabili naufragi ai quali possiamo andare incontro nel corso della vita. Una poesia, insomma, alla quale poter fare continuo ricorso nelle proprie letture, per raccogliere preziose forme di alchemiche trasformazioni dei propri sentimenti in parole di velate verità.

Simona Chiesi – Diorami notturni. Bertoni editore, 2024

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ORE CINQUE

Tratto da “VENTIQUATTRO ORE”, raccolta inedita di racconti brevi, a volte brevissimi…

Insonnia, Taccuino Sanitatis (ritaglio)

di Sergio Tardetti

Eccomi ancora qui! È già la terza volta che mi sveglio e sono costretto ad alzarmi, per andare… in bagno, naturalmente! Quando si raggiunge – e a volte, addirittura, si supera – una certa età, ecco che si può finalmente godere di qualche privilegio. Per esempio… Per esempio? A dire il vero, in questo momento non me ne viene in mente nessuno, avrei voluto dire “poter disporre liberamente del proprio tempo”, ma vedo che la strada che conduce alla dimostrazione di questa affermazione è lunga e irta di ostacoli. Chi potrebbe affermare, infatti, di poter disporre liberamente del proprio tempo? E dimostrarlo, per giunta? Forse alle cinque di mattina, quando anche gli altri sono impegnati in qualche sonno profondo, o impigliati nella rete di un sogno assurdo, dalla quale non riescono a districarsi, allora potrebbe essere anche probabile che lascino agli altri la possibilità di poter disporre liberamente del proprio tempo. Ma solo fino al risveglio, perché, da quel momento in poi, il loro tempo sarà a disposizione degli altri. E se c’è qualcuno disposto a smentirmi, che si faccia pure avanti! Ma, per tornare all’elenco dei privilegi concessi dall’avanzare degli anni, direi che uno di questi è non avere orari che vincolano la giornata. Per esempio, puoi essere in piedi già alle cinque di mattina, anche senza una motivazione precisa. Ormai per te non è più quel tempo e quell’età in cui avevi forti e pressanti motivazioni per essere in piedi a ore improprie – come le chiamavi allora – ormai ti svegli, ti alzi, e basta.

Naturalmente, facendo attenzione a non svegliare gli altri, quelli che vivono con te nella casa, o, peggio ancora, i vicini – giovani, beati loro! – che tra poco dovranno alzarsi davvero per andare al lavoro. Cercherai di muoverti con la massima cautela, per evitare che qualche rumore improvviso li svegli; e allora sai benissimo che qualche parola fuori luogo, rivolta al vicino insonne, potrebbe uscire fuori anche da quelle loro bocche, di solito sempre vocate al sorriso. È capitato un po’ a tutti, in quella fase che segue immediatamente il risveglio, di avere pensieri piuttosto violenti nei confronti del prossimo, non tanto per un prossimo specifico, ma così, in generale. Perfino per quel prossimo mai conosciuto, che non ti ha mai fatto niente, eppure in quel momento preciso ti si propone come un nemico da combattere e da abbattere. Le cinque del mattino ridestano in ciascuno di noi gli istinti primordiali, di quando ancora si riteneva che ogni uomo fosse un lupo per un altro uomo. A quest’ora è piuttosto facile essere aggressivi, soprattutto se si è trascorso il resto della nottata in un aggirarsi insonne tra le stanze di casa. I motivi? Anche qui possono essere i più disparati, ma il più comune è certamente un pensiero che si è insediato nella mente al momento di coricarsi e non ne è venuto più fuori. Non necessariamente un pensiero importante, ne basta uno qualunque, ad esempio dover chiamare l’idraulico il giorno dopo per un rubinetto o uno scarico che perde.

Conosciamo tutti per esperienza quanto possa dare da pensare la necessità di chiamare un idraulico, che di solito non ha mai tempo da dedicare a te, sempre così oberato di altri impegni. E, se per caso si rende disponibile, allora sì che cominci a pensare seriamente. E a preoccuparti, come è naturale. Prima di tutto per il conto che ti presenterà, e anche per la lunga lista di difetti che sembra presentare il tuo impianto idraulico, quello che a prima vista sembrava perfettamente funzionante. Non sai che le normative cambiano di anno in anno? E che una corretta manutenzione ti farà risparmiare spese future e, soprattutto, futuri problemi? Alla richiesta di un preventivo, sai già che l’idraulico scuoterà la testa, impossibile farne uno come si deve senza prima aver potuto visionare l’intero impianto. Sotto quel fuoco di fila di future domande e future spese, la tua mente difficilmente sarà capace di abbandonarsi al sonno. E allora non ti resta che continuare ad andare avanti e indietro, fra la camera da letto e il bagno, e ritorno, in attesa che arrivino le sei e con loro la luce di un nuovo giorno. A quel punto, come per un incantesimo al contrario, l’idraulico con i suoi conti, i suoi preventivi e le sue minacce di dover rifare l’impianto ex novo, si dissolveranno insieme alle foschie mattutine, all’apparire del primo raggio di sole. Intanto, però, sono ancora poco più delle cinque e per l’incantesimo che fa sparire gli idraulici c’è ancora molto da aspettare. Così non resta che rimettersi a letto e sperare di non doversi alzare di nuovo per qualche impellente necessità, anche se è vero che è impossibile fare pronostici su questi argomenti.

Non hai saputo da un po’ di tempo che noi siamo fatti essenzialmente di acqua? E, dunque, ne hai ancora a sufficienza per tornare a percorrere l’itinerario letto-bagno e ritorno almeno per tre o quattro volte, prima che sia ora di alzarsi. Ma poi, alla fine, questo idraulico bisognerà chiamarlo davvero, o proverai tu stesso a riparare il guasto? Sei ancora impegnato nel dover decidere sul da farsi, quando, ecco, di nuovo lo stimolo ad andare in bagno. Che nottataccia! Stavolta devi avere fatto più rumore del solito, perché ecco che nella tua stanza si accende una piccola luce, la torcia del cellulare, che sta ormai soppiantando la vecchia lampada sempre presente sul comodino accanto al tuo letto. “Che succede?”, chiede una voce impastata dal sonno. “Niente, niente. Dormi…”, rispondi sottovoce, perché non vorresti svegliare qualcun altro, magari il vicino o la vicina di casa, che potrebbe essere insonne a sua volta. Ti è sembrato, in effetti, di sentire i passi di qualcuno andare e venire da una stanza all’altra – nelle nuove abitazioni antisismiche i suoni si trasmettono facilmente, perfino amplificati da questo silenzio, raggiunto grazie ai nuovi vetri termicamente e acusticamente isolanti. E certamente, anche il tuo viavai non sarà sfuggito al vicino o alla vicina, a cui sfuggirà un sorriso di magra consolazione, al pensiero di qualcuno che condivide la stessa sorte. L’insonnia, madre di tutti i vizi e di tutte le virtù, regna sull’umanità persa nel tentativo di chiudere gli occhi, almeno fino al sopraggiungere delle prime luci dell’alba.

© Sergio Tardetti 2024

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Sovversivi, non ribelli

di Sergio Tardetti

“SOVVERSIVI” – Un libro fotografico di Giovanni Zaffagnini Premessa. Ho iniziato a prendere appunti per fissare impressioni ed emozioni, man mano che andavo sfogliando questo libro fotografico, convinto di potermela cavare con poche righe, e invece adesso mi ritrovo ad avere quasi due pagine di parole che si sforzano di dare forma alle emozioni che le foto sono capaci di suscitare, quando sono attentamente osservare con gli occhi dell’anima più che con quelli del corpo. E sono appena a metà dell’opera. “Sovversivi” è il titolo del libro fotografico di Giovanni Zaffagnini, una raccolta di immagini scaturite e legate da temi letterari, enunciati attraverso brani di diversi autori, per l’esattezza otto. Sovversivi, non ribelli, si badi bene, intenzionati a cambiare lo stato delle cose con le parole e, a volte, anche con i fatti, ma avendo bene in mente un progetto alternativo, il che è ben diverso da un semplice andare contro, distruggere senza sapere come e cosa ricostruire. Per chi ha affrontato e affronta da lettore quei brani, non è immediato pensare a immagini in grado di rappresentare le parole che li compongono; solo l’occhio esercitato di un fotografo e la mente capace di immaginare analogie e corrispondenze saranno in grado di percepire l’aderenza della foto alle parole dei testi posti a premessa. Letteratura e fotografia, un rapporto all’apparenza complicato e difficile, se non impossibile, che Zaffagnini sa rendere e realizza con un’operazione che potremmo chiamare “trasduzione” dal testo all’immagine, da un mezzo espressivo a un altro mezzo espressivo, senza soluzione di continuità, come se scrittura e immagine fossero due mezzi appartenenti alla stessa espressione artistica. Ci occuperemo dei testi dei primi quattro scrittori, Joyce, Dante, Calvino e Pasolini e della interpretazioni che di quei testi Zaffagnini ci offre. Il volume si apre con una citazione di Joyce sulla musica e la musicalità del fluire di un fiume che l’autore trasforma in immagini capaci di trasmettere l’idea e l’insieme delle sensazioni che si possono provare. Nelle immagini, il fiume che scorre si percepisce mediante il confronto tra la superficie dell’acqua che fluisce e le sponde immobili. La musica della corrente è accompagnata e a volte anche sovrastata da quella delle sponde, arbusti, canne, alberi, con il fruscio del vento in mezzo a loro. Pur nella fissità dello scatto, la percezione del fluire è immediata, lo raccontano le luci che si riflettono sulla superficie dell’acqua e che sembrano mutare istante per istante. Guardando l’immagine, riviviamo un’esperienza del passato, quella del giorno in cui per la prima volta abbiamo visto un fiume, ne abbiamo ammirato la maestosità e la potenza, quasi trattenuta a stento dalle sponde, a rassicurare lo spettatore dell’intenzione di rimanere contenuto lì dentro. Le immagini riflesse che si scompongono e si ricompongono sulla superficie calma, frammentate dal minimo soffio di vento, sono una musica “visiva” che la mente percepisce e interpreta alla luce dei ricordi. Due inquadrature consecutive, due scatti a poca distanza di tempo, trasmettono a chi le guarda la sensazione del mutamento provocato dalla corrente che fluisce, trasportando con sé schiuma, foglie e arbusti; le piccole onde che scuotono come dita leggerissime gli arbusti affioranti, producono una musica “silenziosa” che solo l’anima riesce a percepire. Sorprende la poeticità delle inquadrature, realizzate attraverso la ricerca della luce più adatta, per mostrare quella serenità che l’artista percepisce in quell’istante e trasmette anche a chi non è e non sarà mai lì in quel momento. È l’attesa paziente dell’occhio del “cacciatore” che viene premiata.Il passaggio da Joyce a Dante, l’autore successivo, appare logicamente consequenziale e, direi, quasi scontato. Dante e la sua palude Stigia, introdotta con la citazione dei versi che la rappresentano nell’Inferno. La palude Stigia, descritta dalle parole del poeta e immaginata dal lettore immersa in un’atmosfera cupa e desolata, lancia una sfida alla resa fotografica di antichi ricordi risalenti ai tempi della scuola. La palude non presentata come un luogo immobile, e invariabile nel tempo, piuttosto un luogo che genera angoscia in chi lo guarda. Non suoni, non guizzi di onde, nessuna vita che venga ad animarla. Il fotografo, con la pazienza del cacciatore di immagini, resta in attesa dell’istante in cui l’inquadratura che coglie riesce a sovrapporsi quasi perfettamente a quella che la sua mente si è creata attraverso la lettura del testo. Il suo scopo rimane sempre quello di comunicare le sensazioni che la lettura del testo ha generato, aderendo il più possibile a quello che la mente del lettore immagina e ricostruisce, ma anche innovando rispetto a consuetudini ormai fissate nel tempo. La palude Stigia che viene mostrata negli scatti di Zaffagnini è presentata come un luogo malsano, insalubre, non tanto perché inquinato da inevitabili scarichi industriali, quanto piuttosto perché assediato e soffocato dalla selva che gli cresce intorno e che impedisce alla luce di penetrare e accarezzare la superficie immota delle acque. E qui, chi ha un minimo di dimestichezza con la fotografia non può non pensare a quanto l’occhio del fotografo abbia cercato quella luce e abbia atteso il momento ideale a scattare la foto. L’attesa si è rivelata necessaria perché il sole cambiasse posizione in cielo fino ad arrivare al punto in cui la resa della fotografia corrisponde – pur senza sovrapporsi e tanto meno coincidere – all’idea che la mente del lettore si è fatta del luogo infernale. La banalizzazione dell’immagine virtuale creata nella nostra fantasia avrebbe preteso un luogo simile a una enorme macchia di pece scura, soffocante, priva dei minimi guizzi di luce. Ma l’artista sa andare oltre il banale, oltre il luogo comune e riesce a darci un’immagine della palude Stigia moderna e innovativa, una pozza appena illuminata dai barbagli dei raggi che filtrano attraverso un groviglio di rami e tronchi, in parte caduti e semisommersi, che, a volte, sembrano quasi spuntare ed elevarsi dalla superficie immobile dell’acqua.È quindi la volta di Italo Calvino, del quale, più che un testo, si propone un episodio particolare, una circostanza legata ad un errore di impaginazione di una sua opera. Immaginiamo, e forse abbiamo provato in molti, il senso di spaesamento avvertito durante la lettura di un testo, quando, senza una ragione apparente, se non quella che si potrebbe attribuire a un errore di impaginazione e di rilegatura, il racconto che stavamo seguendo ha un improvviso quanto assurdo cambiamento di tono e di stile e di argomento, diventando a tutti gli effetti un altro testo. Così il fotografo è chiamato a rendere in maniera concreta, e soprattutto visibile, questo senso di spaesamento e di frastornamento, affidandosi ad un non senso apparente delle immagini, ad una loro incongruenza e non consequenzialità. Il percorso inizia, dunque, partendo da un “testo” coerente, rappresentazione, attraverso immagini in bianco e nero, di un luogo desolante e desolato, un luogo che all’apparenza non ha niente di particolarmente affascinante e ricercato, al punto da sollecitare la selezione e la conservazione di quegli scatti. L’artista, però, riesce a vedere nelle immagini che gli si offrono davanti qualcosa che ritiene degno di essere fissato nel tempo e nel ricordo. La ex fabbrica con i capannoni in rovina, le macerie abbandonate, in indefinibile attesa di una ristrutturazione o di una più probabile demolizione, sospese e fissate per sempre nel tempo. Si continuano a sfogliare le foto in bianco e nero, sperando che prima o poi qualcosa accada, ma tutto rimane immobile e uguale. Giunge, infine, improvviso lo scarto, il salto di pagina e di logica, l’elemento frastornante e distogliente, l’interruzione della consequenzialità: foto a colori, che riproducono un ambiente d’altri tempi, ma sempre vivo e vitale, come la scheggia di ricordo che si insinua di soppiatto nella tristezza e nella noia di un presente tutto uguale. A voler marcare la differenza, oltre le indicazioni della data e della denominazione del luogo, interviene anche il colore, quasi uno stacco deciso rispetto al bianco e nero del prima e del dopo, un pensiero senza senso che si insinua di soppiatto in una sequenza logica e coerente di riflessioni oscure e meditabonde. Questione appena di quattro immagini e poi la sequenza ritorna sui corretti binari, continuando a proporre le foto in bianco e nero di un luogo anonimo e vuoto di ogni presenza. Con Pasolini si entra nella poesia più intima, i versi citati in anteprima alle foto sono dominati da due elementi, il sole e l’urlo del morente. Giovanni Zaffagnini, per dare forma e corpo alle intuizioni scaturite dai versi pasoliniani, propone immagini che rappresentano il crudele spettacolo del sole che splende violento e accecante, con inquadrature che fanno entrare la luce direttamente nell’obiettivo. Appaiono sulle foto macchie colorate, che potrebbero sembrare banali errori di principiante, ma che al contrario sono voluti e forzati. Come rappresentare l’urlo di un morente? Con quella luce implacabile che si infila nell’obiettivo, come fa l’ultimo raggio di sole negli occhi di un uomo, quasi un estremo abbraccio con il mondo che il sole e l’uomo stanno abbandonando. Il morente giorno e il morente uomo, analogie rappresentate con la forza di un dolore indicibile a costruire una metafora di rara bellezza. La durezza dell’esistenza è l’unica verità rivelata al momento del nascere, le altre ce le dovremo cercare da soli, se mai poi le troveremo. Il trasformarsi – o il tradursi, non saprei dire cosa sia meglio a significare l’operazione, forse il “trasdursi” – delle parole in immagini costringe a un balzo interpretativo da un linguaggio a un altro, da un mezzo espressivo a un altro mezzo espressivo. Il sole pasoliniano viene “addolcito” dall’aria di mare, evocata da una lunga teoria di palazzoni condominiali deserti, che abbondano lungo la costa adriatica e si riempiono soltanto durante le vacanze estive. Costruzioni anonime, realizzate in serie, come avviene nelle periferie delle grandi città Costruzioni senza vita, morenti anche loro per gran parte dell’anno, edifici chiassosi e affollati in brevi periodi, ma sempre e comunque privi di esistenza, quella quotidianità alla quale soltanto possiamo dare il nome di vita. Intanto, scorrendo le immagini, la luce insiste a penetrare nell’obiettivo, per ravvivare quel gran deserto sofferente dove è completamente annullata la presenza umana, che si manifesta al più indirettamente con rari segni, rappresentati da auto polverose e cassonetti vuoti. Immagini di finestre sbarrate di appartamenti deserti, dietro le quali si consuma il cupo dramma del silenzio e della polvere, la dolorosa violenza dell’infinita solitudine degli spazi. La trasformazione – o traduzione – del testo scritto viene operata stavolta con l’estenuante ripetersi di immagini che non svelano la vita, come se l’uomo fosse definitivamente scomparso dalla terra e i suoi manufatti fossero gli unici superstiti, abbandonati a memoria di una umanità estinta.
(fine parte prima)

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I Viaggi di Maira (recensione)

di Sergio Tardetti

Maira Francavilla rappresenta il prototipo del viaggiatore, da non confondere con il turista, che è, piuttosto, un individuo in cerca di emozioni plastificate e senza rischi, di visioni preconfezionate e predigerite, e che viaggia soprattutto per poter raccontare a quelli rimasti a casa quanto fossero belle le stanze degli alberghi o le cabine delle navi da crociera, di quanto il cibo non fosse poi niente di speciale, di quanto si è divertito nei dopocena organizzati fino al minimo dettaglio e altre simili amenità. Non racconterà, invece, mai le emozioni che ha provato, non ne sarebbe capace, come non era stato capace di ascoltarle quando si presentavano alla sua mente; viaggia infatti con il corpo, non con l’anima, con la macchina fotografica o il telefonino sempre in mano, pronto a catturare immagini da mostrare al ritorno a parenti, amici e conoscenti, soprattutto per suscitarne invidia e rimpianto per non essersi aggregati alla bella comitiva. Le emozioni sono, al contrario, impalpabili, impossibili da fotografare e difficili da catturare, se non con tutti i sensi e con la memoria. Il viaggiatore, diversamente dal turista, si immedesima sempre nei luoghi in cui si muove, al punto da avere la sensazione di esserci già stato, anzi, di averci addirittura vissuto e forse di esserci anche nato, quasi certamente in un’altra epoca. Il viaggiatore è empatico, capace di avvertire la presenza, anzi, le presenze che lo circondano, capace di sfiorare con la mano una pietra, una porta o una colonna di qualche antica chiesa o edificio e avvertire la mano di qualcuno che si è già posata lì in qualche altra epoca. Maira non scatta istantanee a raffica, tentando di congelare l’attimo che sfugge, preferisce tenere gli occhi bene aperti, anziché incollarne uno dietro l’obiettivo, attraverso il quale si può focalizzare una limitata porzione dello spazio che ci circonda, dimenticando e infine perdendo di vista tutto il resto. Maira cattura, piuttosto, impressioni che continueranno a persistere molto a lungo, anche dopo il ritorno, sa che la vera ricchezza del viaggio è proprio quella di moltiplicare le emozioni, aggiungendole alle tante già presenti nella propria anima. Sarà poi, una volta a casa, che quelle emozioni si condenseranno in parole che potranno dare vita a brevi narrazioni oppure, come in questo caso, a poesie di una nitidezza e di una raffinatezza che non deludono le attese. Nella loro essenzialità contengono tutto quello che ha attirato l’attenzione di Maira nel corso del suo viaggio, trasmettendo a chi legge le stesse emozioni che ha provato in quegli istanti e condividendole con la stessa spontaneità con la quale si presenterebbe un comune fatto quotidiano. Sono, a mio parere, opere di alta oreficeria poetica, lavori di finissimo cesello, capaci di mettere in risalto elementi di particolare pregio per la memoria di chi ha visto e vissuto quei luoghi e quelle atmosfere. I componimenti della raccolta possono essere considerati “Poesie DI viaggio”, ma anche “Poesie DA viaggio”; scritte, cioè, con l’occasione del viaggio ma anche da portare con sé in un viaggio, se si dovessero visitare quei luoghi dei quali le poesie raccontano e ripercorrere quell’itinerario. Un resoconto necessariamente infedele – conosciamo tutti bene i tradimenti della memoria – ma veritiero al tempo stesso, quasi un raccontarsi a se stessi, mentre dentro l’anima si sentono scaturire le emozioni. Il percorso, descritto attraverso immagini di intensa bellezza, si snoda attraverso luoghi facilmente identificabili sopra una carta geografica, ma nei quali, quando avessimo l’opportunità di raggiungerli, non troveremmo mai quello che è balzato con tutta evidenza agli occhi di Maira. Ognuno viaggia con il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze ed è proprio attraverso quelle che riesce a filtrare le immagini, i suoni, i profumi e i colori dei luoghi che si offrono ai suoi occhi. Tutto può diventare pretesto per una poesia, perfino la partenza, non così avventurosa come la si immaginerebbe ma perfino comune e ordinaria. Eppure, quanta poesia si respira fin dalle prime battute! Le parole sembrato accuratamente decantate dal depositarsi e dal sedimentarsi delle emozioni, il lembo di carta del quale si parla nel titolo appare a un tratto, quasi a volerne ricordare la presenza reale e a giustificare il senso del titolo. Il resto, tutto quello che a questo punto ometto intenzionalmente, potrete scoprirlo leggendo “Fino a Capo Nord con un lembo di carta”.

Maira Francavilla – Fino a Capo Nord con un lembo di carta. Bertoni Editore, 2021

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Viaggiatori o turisti?

di Sergio Tardetti

Dicono gli albergatori, i ristoratori e i commercianti della nostra città: “Mancano i turisti”. Replico io: “Non sono i turisti che mancano, sono i viaggiatori”. E non si tratta solamente di una sottile distinzione terminologica, quanto piuttosto di una sostanziale differenza di mentalità e di comportamenti. Ho conosciuto turisti di varie nazionalità che vagavano in diverse parti del mondo. Ricordo, ad esempio, un gruppo giapponese incontrato durante un mio viaggio in Turchia. Visitavamo la stessa località archeologica, forse Troia o Mileto, non saprei dire. Il caldo estivo era soffocante, così decidemmo una sosta all’ombra di un folto gruppo di eucalipti, sotto i quali si erano rifugiati anche i figli del Sol Levante, che male sopportavano quell’afa. Da una improvvisata conversazione, scaturita dalla reciproca curiosità di conoscere e di conoscersi, venimmo a sapere che erano “cristiani come noi”; la guida del gruppo, una signora di mezza età, sembrava tenerci molto a farlo sapere. Il loro frenetico e vagante itinerario li avrebbe condotti prima a Istanbul, poi a Gerusalemme, quindi ad Atene e infine in Italia, da dove, dopo avere visitato le mete canoniche di Roma, Firenze e Venezia, si sarebbero diretti a Monaco di Baviera, per fare infine ritorno in patria. Un tour de force che indubbiamente avrebbe lasciato qualche segno nelle loro memorie, oltre a qualche migliaio di foto da mostrare ad amici, parenti e conoscenti, una volta arrivati a casa. Ma avrebbero mai capito veramente l’occidente così come veniva riassunto dalle loro brochure di agenzia?
Personalmente, anche solo frequentando per qualche tempo una singola località, provo alla fine della visita una sensazione di inadeguatezza, convinto di non essere riuscito a capire il luogo dove ho soggiornato. Ogni città è infinita e lo sguardo che le dedichiamo è sempre troppo breve. I nostri amici giapponesi, inoltre, viaggiavano con casa al seguito, essendosi portati dietro bevande e cibi, nel timore di essere contaminati da quelli locali. A questo andava aggiunto il fatto che l’autobus su cui viaggiavano era dotato di cuccette, dalla curiosa forma a loculo, nei quali i nostri turisti riposavano durante le ore notturne. Che bisogno c’era di alberghi, bed and breakfast, pensioni, ristoranti, osterie, aree di sosta e di tutto quello che serve per intercettare la gente di passaggio e rappresenta la fonte di guadagno di chi vive di turismo? Il viaggiatore, invece, ha l’abitudine di muoversi individualmente o in piccolissimi gruppi e di andare proprio in cerca di un luogo, ristorante, pensione, camera d’albergo, preferibilmente al centro della città, in cui sostare per immergersi totalmente nell’atmosfera del posto. I turisti vanno e vengono, i viaggiatori restano e, a volte, ritornano. Essere turista è molto spesso una necessità, legata al poco tempo o al poco denaro o al frenetico desiderio di vedere, o a tutte queste cose insieme. Essere viaggiatore è una delle categorie dell’esistenza. Si può conoscere il mondo frequentandolo da turisti o da viaggiatori, si può conoscere la vita allo stesso modo. E’ l’eterna disfida tra chi vuole godere il viaggio e chi invece punta diretto alla meta, trascurando il paesaggio che attraversa e le persone che incontra. La vita, però, come sempre prodiga di occasioni e possibilità, consente a chiunque di diventare viaggiatore, da turista che era: sta a ciascuno di noi saper riconoscere e riuscire a cogliere quello che ci viene offerto.

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