Il mio amico S. è un guidatore come tanti altri, prudente quanto basta e generalmente rispettoso delle regole. Al mio amico S., per la verità, non piace molto guidare: lo fa solo quando è strettamente necessario, raramente per motivi banali, quasi mai senza motivo, così, tanto per fare un giro in auto. Difficilmente, quindi, lo potrete incontrare lungo una strada, se non è strettamente obbligato a percorrerla. Insomma, non è certo uno di quei fanatici della guida, che si mettono in macchina con ogni stagione e percorrono chilometri e chilometri su strade di qualsiasi tipo, semplicemente per passare il pomeriggio, senza una meta precisa.
Visto così, potrebbe sembrare un tipo piuttosto strano, soprattutto se riferito ai canoni attuali, che ci impongono sempre un continuo movimento, dinamici quasi per obbligo contrattuale, protesi ad avvalorare con i fatti l’antico detto italiota: ”Chi si ferma è perduto”. E lo si è realmente, se si pensa ai molti pericoli ai quali si può andare incontro per il semplice atto di fermarsi, fosse anche per soccorrere una persona in difficoltà o, più semplicemente, per guardarsi un po’ intorno.
Eppure, fermarsi, ogni tanto, è necessario. Il piacere del viaggio, si sa, non consiste nel raggiungere la meta, quanto piuttosto nel viaggiare. E, certamente, la sosta è una delle componenti essenziali del viaggio. Anche la vita, durante il suo percorso, non importa se lungo o breve, esige ogni tanto una sosta. Riflettere su quanto si è visto lungo il cammino, su cosa è accaduto a noi e agli altri, fare il punto per stabilire dove ci si trova, sono componenti imprescindibili del viaggio.
I segni dei tempi si leggono sulla strada, traspaiono dai comportamenti dell’homo conductor, l’essere umano quando è al volante del suo autoveicolo. S., generalmente, guida con prudenza, ma ha scoperto che, se non si conforma alle anti-regole del traffico attuale, è meglio che se ne resti a casa. Lui appartiene ancora alla categoria di quelli – sempre meno, per la verità – che pensano che sia bene mettersi in viaggio con un certo anticipo, perché la strada è lunga e non si sa mai cosa può accadere durante il percorso. Prendere la vita con lentezza è un modo di allungarla, di rallentarne, se possibile, il corso, soprattutto quando rischia di diventare troppo impetuoso e di travolgerci.
Il traffico è impazzito, si sente dire spesso, come se il traffico fosse un’entità astratta, una divinità capricciosa inviata dal cielo a mettere scompiglio sulla terra, e non, piuttosto, un coacervo di auto che si muovono tutte insieme, quasi mai sincronizzate, guidate da persone che una mera ipotesi di lavoro, purtroppo mai verificata fino in fondo, suppone dotate di una scintilla di intelligenza. Così ognuno si getta nel balletto del traffico; un passo falso, una mossa sbagliata bastano per mandarlo in crisi per ore. Ogni volta che S. sale in auto, si augura che quell’ipotetico cervello esista veramente e che non sia, piuttosto, il frutto di una pubblicità progresso, magari occultamente sponsorizzata da qualche casa automobilistica.
Negli ultimi tempi, anche se con colpevole ritardo, la Pubblicità si è resa conto di quanto sia riuscita, a lungo andare, prima a disorientare e poi a surgelare senza scadenza i cervelli dei teledipendenti. Passi per un messaggio che ti spinge all’acquisto compulsivo di oggetti tutt’altro che necessari, ma quando si istiga lo spettatore, ormai non più raziocinante, a comportamenti che potrebbero esporre lui e gli altri a gravi rischi, vuol dire che si è superato ogni limite. Adesso, confidando che almeno un piccolo neurone sia sopravvissuto all’ecatombe scatenata dall’aggressione dei pubblicitari, alcuni spot cercano di inviare messaggi – per la verità piuttosto subliminali – che invitano a non emulare le gesta dei supereroi dello schermo. Se pensano che sia sufficiente un messaggio così ridicolo, per mettere in atto un’improvvisa inversione di comportamenti consolidati nel tempo, si sbagliano di grosso.
Il mio amico S. potrebbe elencare, una per una, tutte le multe – poche, in verità rispetto alla media nazionale – che ha preso in quasi quaranta anni di guida. Tra queste, nessuna per eccesso di velocità, la maggior parte per divieto di sosta o per qualche distrazione di poco conto, subito sanzionata da tutori dell’ordine, puntualmente apparsi nella circostanza in cui S. stava commettendo l’infrazione. Insomma, si sarà già capito che il mio amico S. non è una persona molto fortunata e che non ama correre e, quando una di quelle auto supertecnologiche di ultima generazione gli sfreccia accanto in autostrada, ad una velocità quasi doppia della sua, invoca sull’incauto e pericoloso pilota i fulmini della Stradale. “Ma il cielo è sempre più blu…”.
Nella cittadina, in cui S. vive attualmente, è in vigore una regola, tacitamente introdotta nel Codice della Strada locale: la sosta, improvvisa e prolungata, per conversazione. All’inizio la cosa lo faceva infuriare e, da bravo automobilista di città, iniziava a suonare il clacson all’indirizzo dell’indegno che stava bloccando il traffico, magari per scambiare quattro chiacchiere con un amico pedone di passaggio. Poi anche lui ci ha fatto l’abitudine, anzi, ci ha preso gusto e adesso si è conformato in tutto e per tutto a questa che ormai considera una simpatica norma non scritta del Codice della Strada.
In effetti, così almeno pensa S., si riconducono i rapporti tra pedone e automobilista nella corretta dimensione dialettica e questo è certamente un segno di grande civiltà: al codice della strada, comunque scarsamente rispettato, si sostituisce quello della cortesia. Ci sono ben altre cose che lo fanno infuriare: auto gigantesche con a bordo persone microscopiche, soste selvagge su marciapiedi e rampe d’accesso ai box auto, magari solo per comperare le sigarette o il giornale, risse per un parcheggio, automobilisti che, giunti in prossimità dei passaggi pedonali, accelerano improvvisamente all’apparire del pedone.
L’epidemia di SUV esplosa negli ultimi tempi indurrebbe il forestiero di passaggio a pensare che il paese del Bengodi esista veramente e che sia proprio il nostro. D’altronde, come dargli torto? Si fa fatica a pensare che gente, che lavora anche dodici ore al giorno, solo per tirare avanti fino alla fine della settimana, sia colta dall’insano raptus dell’imitazione, al punto da indebitarsi fino al collo per apparire ricca. Forse, nelle scuole che hanno frequentato non gli è stata mai letta la favola di Fedro sulla rana e il bue. O, forse, non hanno mai frequentato una scuola (e se ne fanno pure un vanto).
“Life is now”, proclamava ammiccante una certa pubblicità. La stessa cosa, in forma più poetica e meno succube all’anglofilia dilagante, diceva un certo Lorenzo dei Medici, poco più di cinque secoli fa. Il Magnifico, come tutti noi, avrà sicuramente avuto i suoi bei problemi, ma almeno, quando si alzava la mattina, non doveva darsi troppo pensiero per procurare il pane quotidiano alla famiglia.