Europa

Se Israele blocca la Sumud, noi blocchiamo l’Europa


di Effimera

I portuali di Genova hanno capito tutto. E noi dovremmo seguirli, senza pensarci due volte, cogliendo lo spirito del tempo.
I centri sociali del Nord Est hanno boicottato la Mostra del Cinema di Venezia, chiedendo l’esclusione dal programma di due star sioniste conclamate: il Lido è stato preso d’assalto da più di diecimila attivisti.
In questi giorni oltre dieci navi della Global SUMUD Flotilla sono partite da Genova e da Barcellona. Nei prossimi, circa cinquanta imbarcazioni salperanno da diversi porti europei e non solo – dalla Grecia, dalla Sicilia, dalla Tunisia  – per cercare di rompere il blocco imposto da Israele agli aiuti umanitari diretti a Gaza.

A Milano sono giorni di confronti e di chat bollenti per organizzare il corteo nazionale del 6 settembre contro lo sgombero del Leoncavallo. Ieri sera, nella sala Di Vittorio della Camera del Lavoro di Milano si è tenuta un’assemblea davvero stracolma, dove c’erano proprio tutte e tutti, tutte le età, tutte le provenienze, tutte le culture, tutte le realtà sociali, tutti i colori e i generi della città, a dire della necessità di avere massima coesione contro i poteri nazionali e locali: sono loro che vanno sfrattati dagli spazi milanesi.
L’8 settembre a Roma ci sarà un’assemblea nazionale del mondo della cultura per reagire ai tagli draconiani che il governo ha imposto all’arte indipendente, nell’illusione di poter ottenere la tanto sognata egemonia culturale attraverso la censura e la riduzione dei fondi.

I portuali di Genova, che hanno aiutato le imbarcazioni della Flotilla a salpare verso Gaza e che da mesi boicottano il commercio di armi nel porto, hanno capito tutto. Le hanno salutate con la bandiera palestinese, sfidando l’esercito israeliano e dichiarando che, se gli attivisti non saranno lasciati passare, allora il porto si bloccherà e insieme al porto si bloccherà l’Europa intera.
In queste ore, i centri sociali nordestini hanno dichiarato che faranno la medesima cosa al porto di Venezia, chiamando i lavoratori e le lavoratrici del porto a tenere alta l’attenzione e la mobilitazione, per raccogliere l’appello di Genova e per rispondere alle minacce del ministro israeliano di estrema destra Ben-Gvir: «Tratteremo come terroristi» i membri dell’equipaggio della Flotilla.

Greta Thunberg, Ada Colau, le lotte per i beni comuni e per l’ecologia, il municipalismo, le battaglie nella logistica, le lotte per un reddito di base incondizionato e un salario minimo (in un paese in cui il lavoro povero la fa da padrone),  le lotte contro la censura e per la cultura, le lotte dei centri sociali e di chi costruisce le città dal basso, insieme alle mobilitazioni contro la Fortezza Europa e contro il razzismo interno rivolto a chi migra: questo è il blocco che si sta sollevando.
Questo è l’inizio della convergenza: cultura, diritto alla città e logistica, nuovo welfare, insieme per la madre di tutte le lotte di liberazione dal colonialismo: la Palestina.

La Palestina non è una questione umanitaria né una guerra di religioni. È una questione politica che coinvolge tutti e tutte noi. È il progetto coloniale di Israele che vuole sterminare un popolo per sostituirlo con palazzi di lusso e con il tecnosoluzionismo securitario. La Palestina è il laboratorio del nostro futuro. Ed è per questo che dobbiamo trasformare la difesa della Palestina nella difesa delle nostre città, della nostra possibilità di esprimerci e di fare cultura.
Blocchiamo tutto per fermare il delirio coloniale di Israele, che va avanti fin dalla sua fondazione, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Europa fascista che ci governa. Abbiamo sempre diffidato di chi leggeva l’invasione di Gaza da parte di Netanyahu come un conflitto mediorientale fra il Golfo e il blocco iraniano; abbiamo sempre diffidato di chi riduceva il nostro ruolo al solo intervento umanitario (per di più ipocrita e social washing); abbiamo sempre diffidato di chi sperava che ci fosse una differenza sostanziale fra Trump e Biden sul destino della Palestina. L’unica differenza è che Trump, come Bibi, è un macellaio, mentre i democratici hanno cercato di arrivare allo stesso obiettivo di Israele senza far schizzare così tanto sangue. Ma l’obiettivo strategico dei coloni israeliani, dei colonialisti europei e statunitensi è sempre stato uno: occupare Gaza e la West Bank, ed espellere o sterminare i palestinesi. Tutto il resto sono state distrazioni, in cui siamo più o meno tutti caduti.

Ora, come europe* che vogliono liberarsi dal privilegio del colono, ora come europe* precari*, lavorator*, student*, per lo più senza casa o con un costo della vita insostenibile, noi europe*, che continuiamo a subire micro-processi di espulsione, dobbiamo bloccare l’Europa che ci governa e unirci alla lotta del popolo palestinese non per compassione o buoni sentimenti, ma perché ne condividiamo le ragioni politiche. Boicottaggio, astensione dei consumi delle merci israeliane, nessun finanziamenti alle tecnologie di guerra, nessun finanziamento all’apparato militare-industriale dell’esercito israeliano, nessun acquisto di titoli bellici per finanziare il genocidio in atto. Perché stiamo lottando insieme per lo stesso mondo e contro gli stessi oppressori. Se non li fermiamo ora si prospetta un futuro terribile per tutte e tutti.Perché la progressiva demolizione di ogni limite alle politiche di guerra che consente oggi a Israele di compiere il genocidio dei palestinesi con la complicità e il silenzio dei governanti di buona parte del pianeta, riguarda l’umanità intera e rischia di divenire, ovunque serva, la normalità futura.
Perché la progressiva demolizione di ogni limite alle politiche autoritarie ci riguarda e la minaccia israeliana di abbordaggio in acque internazionali, l’arresto e il carcere duro nei confronti della SUMUD Flotilla, così come la deportazione manu militari dei migranti negli USA e l’uso dell’esercito nelle grandi città disposto da Trump, rischiano di divenire uno scenario normalizzato, condiviso dai popoli su scala planetaria.


L’aricolo è stato pubblicato su Effimera il 3 settembre 2025

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La NATO in guerra

di Gianni Giovannelli

Aut si inaniter timemus certe vel timor ipse malum est quo incassum stimulatur et excruciatur cor et tanto gravius malum quanto non est quod timeamus et timemus

(anche se abbiamo paura senza motivo il male è la paura stessa
che punge e disturba invano il cuore: un male tanto più grave in quanto ciò che temiamo non esiste davvero eppure ci spaventa lo stesso).

Agostino
(Confessioni, VII, 5.7)

Il generale Fabio Mini è nato nel 1942; quando, nel 1963, dopo l’Accademia Militare a Modena, è entrato stabilmente nelle file dell’esercito italiano, erano gli anni del c.d. boom economico e della guerra fredda fra i due blocchi. Il primo esperimento di un governo di destra (quello di Tambroni) era fallito dopo soli tre mesi di vita, travolto dalle manifestazioni popolari che avevano riempito le piazze di tutto il paese, da nord a sud; a Genova quasi ci fu un’insurrezione per impedire il congresso del MSI, a Reggio Emilia in cinque caddero il 7 luglio sotto i colpi della polizia di stato, entrando stabilmente nella leggenda. La resistenza di massa della classe operaia alla svolta reazionaria contribuì non poco a rafforzare la ripresa delle lotte in fabbrica, sempre più efficaci fino al celebre Autunno Caldo che modificò l’assetto sociale italiano e spinse l’apparato di governo al varo della strategia della tensione. La caduta di Tambroni aveva aperto le porte agli esecutivi di centro-sinistra, alla presidenza di Saragat e all’ingresso dei socialisti nell’apparato di governo.

Un soldato colto, sensibile e intelligente quale è (e certamente era) il generale Mini non poteva certo evitare la percezione del clima politico che lo circondava e dentro il quale andava costruendo una carriera prestigiosa, fino a diventare capo di stato maggiore del Comando NATO per il Sud Europa (nel 2001 al vertice militare nei Balcani e nel 2002/2003 alla testa della missione KFOR in Kossovo). Solo considerando appieno il percorso politico-militare complessivo dell’autore sarà possibile intendere l’ultimo volume dato alle stampe, di cui con queste note ci stiamo occupando: La NATO in guerra, dal patto di difesa alla frenesia bellica, Edizioni Dedalo, maggio 2025, pagine 174. Il testo è pubblicato nella collana Orwell diretta da Luciano Canfora, che vi ha inserito una breve gustosa prefazione nella quale si bolla la NATO come uno “sgangherato organismo atlantico che ci ha regalato la guerra in Ucraina”. E sulle ceneri della vecchia alleanza egli intravede la nascita (effetto imprevisto e tragicomico) di una para-NATO a trazione franco-inglese che “ha gettato rapidamente alle ortiche il fantoccio ormai afflosciato su sé stesso dell’Unione Europea. Il professor Canfora (solido intellettuale costantemente collocato in area democratico-progressista) e il generale Mini (per oltre 40 anni ufficiale dell’esercito con funzioni apicali) si presentano in perfetta sintonia e appaiono molto (ma molto) più lucidi dei leader politici alla guida di maggioranza e opposizione. L’esame spietato delle scelte, tattiche e strategiche, che accomunano oggi il Partito Democratico e Fratelli d’Italia sul tema della collocazione italiana nel quadro bellico è probabilmente più una critica preoccupata (al confine con un rassegnato timore del disastro che ci si para davanti) che un programma politico. D’altro canto se non riescono a costruire una credibile barricata, capace di frenare la frenesia bellica in crescita, le strutture politiche dei partiti presenti in Parlamento, non si può pretendere che provvedano in supplenza due pur lucidi ottantenni estromessi da ogni ruolo di comando e trattati come un peso fastidioso.

In chiusura del suo saggio, documentato preciso convincente, il generale Mini osserva (ed è difficile non convenire con questa oggettiva descrizione della realtà): si sono trovati mille pretesti falsi per fare la guerra, mai uno, vero o falso, per fare la pace. E aggiunge: in realtà la guerra è diventata l’idea prevalente nelle menti di molti responsabili di governo eletti nelle nazioni o di quei funzionari designati a gestire la NATO o l’Unione Europea. Uomini e donne che non sanno governare, che non conoscono gli strumenti di cui dispongono, che non si curano dei sacrifici che impongono, che non sanno stabilire le priorità dei propri fini e mezzi. Di questa ignoranza la guerra si pasce e compiace. Io aggiungo che le medesime considerazioni valgono per l’opposizione che non sa opporsi, che si dissocia costantemente da ogni ribellione o anche dal semplice dissenso, elogiando e sostenendo la repressione giudiziaria, poliziesca, politica, amministrativa delle voci fuori dal coro.

In questo quadro fosco l’autore inserisce quella che definisce “utopia”, ovvero la prospettiva di “ricondurre” la NATO alle regole del suo trattato fondativo, liberandosi mediante “espulsione” degli stati che minacciano la sicurezza di altri stati o comunità, membri o meno della NATO. L’autore riconosce che le possibilità realizzative sono “scarse”; a me pare che l’uso dell’aggettivo “scarse” pecchi di ottimismo, e la speranza sia piuttosto riconducibile alla nostalgia per gli anni giovanili di servizio durante la guerra fredda, quando non era ancora arrivata la guerra asimmetrica che seguì il venir meno del fronteggiarsi di due blocchi, entrambi a modo loro attenti agli equilibri del welfare acquisito dalle rispettive popolazioni.

Il generale Mini traccia la storia della NATO, dividendo il periodo 1949-1989 da quello successivo alla caduta del Muro. Sostiene che nel periodo successivo le regole del Trattato siano state stravolte, trasformando un’alleanza difensiva in uno strumento offensivo, aggressivo, in qualche modo neo-imperialista. A mio avviso qui l’autore tralascia qualche passaggio, offre una lettura in qualche modo pro domo sua. La NATO già nel momento della sua fondazione (4 aprile 1949, 12 paesi) fu estesa al Portogallo fascista di Salazar con aperta protezione della dittatura da ogni attacco interno o esterno; e quando la Grecia fu ammessa nel 1952 gli americani non persero l’occasione di preparare le basi per il colpo di stato dei colonnelli, che certo non trovò ostacoli in ambito militare. Dunque l’Alleanza non fu solo “difensiva”, ma decisamente anticomunista, ponendosi al tempo stesso quale argine rispetto al socialismo reale, all’URSS, e più in generale all’ala più radicale del movimento operaio dei paesi occidentali. Non a caso l’autore evita ogni riferimento a Stay-Behind (Gladio), che pur essendo organizzazione diversa e segreta (promossa da CIA e Servizi Segreti italiani) si affiancava alla NATO di fatto (vari paesi dell’Alleanza infatti ne fecero parte).

Bisogna pur tuttavia riconoscere che nei suoi primi 40 anni la NATO non mosse guerre, ebbe un ruolo importante nel risolvere la crisi cubana del 1962, evitò di includere la Spagna prima del 1982, ovvero prima che terminasse il franchismo (l’adesione arrivò, guarda caso, con il primo governo socialista, che in campagna elettorale si diceva contrario). In buona sostanza la “prima” NATO fu costantemente parte attiva dello schieramento “occidentale” contro quello “sovietico” a difesa del “blocco”; la dialettica era aspra, spesso molto aspra, ma alcune regole non vennero mai infrante. Questo aspetto, di non poco rilievo, il generale Mini lo descrive in modo chiaro, puntuale, storicamente ineccepibile. La trattazione costituisce l’ossatura della prima parte del volume, indispensabile per la seconda, attuale, utilissima per comprendere la crisi bellica che ci si para davanti, e che lascia intravedere terribili conseguenze.

I capitoli di grande interesse sono naturalmente quelli che affrontano, nei presupposti e nella successiva sequenza degli avvenimenti, la guerra in Ucraina. L’autore spiega, con citazioni testuali di accordi e di decisioni che reggono l’argomentazione in modo assai convincente, come dopo la fine dell’URSS i paesi aderenti al Trattato abbiano abbandonato le linee guida sulle cui basi venne costituito nel 1949, cambiando pelle all’Alleanza, trasformata in un apparato minaccioso piegato all’esclusivo interesse degli Stati Uniti e all’ingerenza per nulla difensiva nella vita sociale-politica-militare di altri paesi, nella ex Iugoslavia, nei territori ex socialisti dell’est europeo, fino alla Georgia o all’Ucraina. Il programma era e rimane quello di creare instabilità, incrementare l’industria bellica, drenare risorse, indebolire chiunque rifiuti il vassallaggio nordamericano. Mentre la tela tessuta dagli Stati Uniti, pur se si tratta di evidente prevaricazione aggressiva, ha una logica (perversa ma logica), del tutto idiote e autolesioniste appaiono tattica e strategia dell’Unione Europea e degli altri paesi NATO.

Citavo sopra gli anni in cui il militare-militante Fabio Mini si era formato e aveva raggiunto i vertici del comando; insieme agli studi nelle accademie (non solo italiane) e alla lettura dei testi migliori d’arte bellica l’aver vissuto quel periodo storico gli consente di leggere, dentro i segmenti di conflitto e le decisioni politiche, l’impatto che colpisce pesantemente la vita dei popoli europei, la lesione violentissima del tessuto sociale consolidato negli anni precedenti, l’incrinarsi dei diritti delle comunità. Lo scenario si presenta agli occhi dell’autore maledettamente chiaro. In Ucraina guidano il gioco USA e Russia: concordano su due punti fondamentali, entrambi devono vincere, l’Europa deve pagare per tutti, il resto è negoziabile. Mostrano di non averlo compreso Meloni e Schlein, dovrebbero leggere questo volume, comprendere la legge bronzea dei numeri (armi e armati), cambiare passo, allontanandosi dal burrone verso il quale si sono incamminate prima che sia troppo tardi. Le considerazioni tecniche versate nel volume, nella loro cruda oggettività, sorprendono. L’unica alternativa è il rifiuto della guerra. Inutile attardarsi in barocchi distinguo, fare radiografie critiche sul passato di chi ci invece ci chiarisce lo stato delle cose. Prendiamo esempio dal professor Canfora e dal generale Mini, dobbiamo fare tutto il possibile per fermare questo impazzimento simile a quello con cui si conclude la montagna incantata di Thomas Mann.


L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 15 luglio 2025

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Gaza e la clementina Orri


di Gianni Giovannelli

L’arma che uccide, da quando è diventata
un prodotto industriale, si rivolta contro l’umanità,
e il soldato di professione non sa più
di quali aspirazioni egli sia lo strumento.

Karl Kraus
(Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, 1980, pag.184)

Mercoledì 14 maggio 2025, Milano, Piazza Martini: è giorno di mercato, frotte di persone camminano fra le bancarelle guardano, parlano, chiedono, esitano, a volte comprano. In quello stesso giorno l’esercito israeliano ha bombardato il campo profughi di Jabalya, il più grande degli otto esistenti nella striscia. In 1400 metri quadrati, dentro tende e baracche, ai margini della città, ci abitano in 116.011, registrati da UNRWA nel 2023; la città vicina ne conta invece 82.877. L’area del campo, già nel XIV secolo, era celebre per la fertilità della terra e per gli agrumeti. Senza difesa, colpiti dalle armi che piovevano dal cielo, sono morti almeno in settanta, di cui 22 bambini. Il giorno prima era stato distrutto l’ospedale del campo di Khan Younis (6 morti); il giorno dopo sarebbe toccato ad altri 115, uccisi dall’alto, all’alba. Nella striscia l’esercito israeliano ha distrutto il cibo, cancellato ogni traccia di agrumeto insieme alle case.

La frutta al mercato

Mentre i palestinesi senza cibo muoiono sotto i colpi dell’occupante, ormai privo di qualsiasi remora o pietà per le vittime, nelle bancarelle di Piazza Martini si vendono molte varietà di frutta o verdura. Molti fra i lavoratori che servono i clienti vengono dai paesi del sud mediterraneo, sono tunisini, egiziani, marocchini, sono nati e cresciuti accanto ai palestinesi, non possono non fraternizzare, condividono, come è naturale, la loro sofferenza. In maggio la stagione dei mandarini (con i semi) e delle clementine (senza semi) può dirsi giunta a conclusione, inizia a novembre, dopo i primi giorni di aprile anche la specie tardiva non si trova più. Eppure tutti i banchi hanno in bella vista le clementine, con un bel colore, una buccia invitante, il pezzo aperto in mostra appare morbido, succoso, senza semi; il prezzo è tuttavia più alto, per quanto si sia al mercato mai sotto i quattro euro al chilo, spesso di più. Viene spontaneo chiedere e così imparo che il paese di origine è Israele.

La Clementina Orri

Dopo essermi documentato spiego l’arcano. Si tratta di un ibrido che la genetista Aliza Vardi (1935-2014) ha creato nei laboratori dell’Istituto di Ricerca Agricola Volcani. Si chiama Cultivar Orah (oppure Orri in commercio), il Ministero dell’agricoltura israeliano lo ha brevettato negli USA il 4 marzo 2003 (PP13616) e ha ottenuto la certificazione UE nel 2013, ottenendo la licenza in esclusiva per questo prodotto di laboratorio e natura. La caratteristica di Orri è proprio quella di essere disponibile quando gli agrumi similari hanno chiuso il ciclo; Israele condivide l’affare con la multinazionale spagnola Genesis Innovation Group (AM Fresh Group) e chiunque si mettesse in mente di piantarlo altrove deve pagare i diritti. La legge spagnola (a garanzia dell’accordo) punisce con il carcere chi non rispetta l’esclusiva; un contadino valenciano si è beccato una multa oltre a 31 giorni di carcere per coltivazione abusiva di Orri. Di fatto Israele (con la multinazionale spagnola) ha il monopolio; usa le leggi europee per conservare l’esclusiva ma al tempo stesso distrugge gli agrumi palestinesi infischiandosene della normativa internazionale che dichiara di non riconoscere. Per uno strano scherzo della storia l’Istituto Volcani fu creato nel 1921 da Itzhak Elazari Volcani, un sionista nato in Lituania, emigrato in Palestina nel 1908 per sfuggire ai pogrom, socialista e collettivista, morto nel 1955, avversario fierissimo della destra nazionalista israeliana. Torniamo ora in Piazza Martini.

Discussione in piazza

La reazione nasce spontanea dopo aver saputo la provenienza del frutto: se viene da Israele non compro le clementine! Nasce subito una discussione animata davanti alla bancarella. Una signora interviene per prima: non ti piacciono perché ci sono i pesticidi velenosi? No! Non è per quello, non riuscirei a mangiare sapendo che è merce sporca di sangue. Il ragazzo al banco guarda sorpreso, non se lo aspettava, si sente coinvolto, pare quasi commosso. Vi capisco, avete ragione, dice, io sono qui per lavorare, vendo quello che mi dicono di vendere, ma avete ragione, non bisogna dare soldi a Israele, li usano per uccidere, per rubare la terra ai palestinesi. Si guarda intorno, teme orecchie ostili, ha paura di essere mandato via, poi sorride, approva. Intorno a Piazza Martini ci sono caseggiati popolari in cui abitano molte famiglie di immigrati, la solidarietà per il popolo di Gaza si respira nell’aria. Ci saranno sicuramente nel crocchio che si è formato sostenitori di Israele, o magari anche razzisti e perfino popolani resi ciechi dal rancore, dal bisogno, dal malessere sociale. Tuttavia tacciono vergognosi, consapevoli di essere in minoranza. Diventa un coro di voci indignate, di protesta convinta, di condanna della strage quotidiana di cui si stanno macchiando le truppe israeliane. Cade il silenzio indifferente, si incrina, sia pure (purtroppo) per poco, l’omertà complice che consente l’attuazione sistematica del genocidio a poca distanza dalle nostre abitazioni, sull’altra costa del Mediterraneo.

Un massacro finanziato

Il governo italiano manda/vende (poco cambia) armi usate per la strage continua. Il governo israeliano distrugge gli agrumeti dei palestinesi e coltiva, anche nei campi espropriati illegalmente, i frutti che vende nei paesi europei, usando il profitto (e i proventi di licenze concesse) per finanziare il massacro. I coloni che incassano il corrispettivo della Clementina Orri sono gli stessi che, protetti dall’esercito, bruciano case e campi dei contadini palestinesi. Intanto ai profughi della striscia viene tolto ogni sostegno alimentare, si impedisce con le armi l’arrivo di acqua, energia, medicine, vestiti. I paesi dell’Unione Europea, pronti a riarmarsi e a sottrarre fondi al welfare per costruire la guerra, assistono senza reagire. Non solo mandano strumenti di morte, non solo evitano sanzioni economiche, si guardano bene perfino dal disporre misure diplomatiche dissuasive, anche minime, come l’espulsione degli ambasciatori del genocidio. L’attuale ambasciatore israeliano a Roma, l’ufficiale dell’aeronautica Jonathan Peled, si dichiara assai soddisfatto della posizione assunta dal governo italiano e sostiene (come in fondo naturale) l’operato del governo in carica, compreso il blocco degli aiuti umanitari a Gaza. Un governo presieduto da chi dovrebbe essere arrestato, in quanto criminale di guerra, ove decidesse di visitare il paese amico!

Reagir bisogna

La specialista addetta alla comunicazione per UNICEF, Tess Ingram, nell’intervista rilasciata il 19 gennaio 2024, aveva rilevato che nei 105 giorni precedenti, durante l’invasione e il quotidiano bombardamento della popolazione nella striscia di Gaza, erano nate/i oltre 20.000 bambine/i. Il 2 aprile 2025 l’associazione Save the Children ha riferito che in media, senza ospedali e senza aiuti, nascono ogni giorno a Gaza 130 nuove creature (sono oltre 47.000 in un anno). Una resistenza e una resilienza incomprensibili per chi, come Trump, vorrebbe trasformare Gaza in una seconda Sharm El Sheikh. Tuttavia i soldati israeliani non desistono, perseguono il loro disegno omicida. È giunto il tempo di rompere il muro del silenzio, di fermare la strage. Di restituire la Clementina Orri al mittente rifiutando ogni complicità.

Cantava Rudi Assuntino: o forse si aspetta/la rossa provvidenza/per cui gli altri decidono/e noi portiam pazienza.


NOTA
Si veda, a questo proposito, la rete BDS – Boicotta, Disinvesti, Sanziona.




L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 22 maggio 2025


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E’ MORTA L’UNIONE EUROPEA, VIVA L’UNIONE EUROPEA!

di Gianni Giovannelli

Il rapimento di Europa – Rembrandt, 1632

Se crederete subito vi ordineranno
qualche cosa di più grande ancora
nella convinzione che la paura vi ha fatto dire di si
anche a questo primo punto.
Se rifiuterete con decisione
farete capire chiaramente
che dovranno rivolgersi a voi
solo da pari a pari

Tucidide
(Le storie, I, 141, Sansoni, 1967 pag. 516)

Il parlamento della Repubblica Federale Tedesca è stato rinnovato con le recenti elezioni tenute il 23 febbraio scorso e, come noto, l’assetto è cambiato notevolmente, con un forte incremento della destra (AFD, 152 seggi), l’ingresso della sinistra (Neue Linke, 64 seggi), il forte calo di Verdi e Socialdemocratici (ora 85 e 120 seggi), l’uscita dei Liberali. Il quadro potrebbe mutare a seguito del ricorso presentato alla Corte Costituzionale da Sahra Wagenknecht (BSW, comunisti populisti) che ha chiesto il riconteggio, avendo mancato la soglia del 5% per un pugno di voti. Ove mai la spuntasse (il che non è da escludere, pur se non facile) verrebbe a cadere l’esile maggioranza composta da democristiani e socialisti, con conseguente ingovernabilità. Intanto i due partiti hanno sostenuto la proposta Von der Leyen di aumentare a dismisura la spesa militare, legittimando il deficit di bilancio nei singoli paesi nazionali. Il problema, tuttavia, in Germania è quello di una legge costituzionale (detta freno al debito) che vieta qualsiasi disavanzo superiore a 0,35% del PIL: si tratta di un ostacolo insormontabile per l’applicazione del riarmo in terra tedesca. Il Presidente Steinmeier ha sciolto il Bundestag già 27 dicembre 2024, ora in carica solo provvisoriamente fino all’insediamento di quello nuovo, previsto per il 31 marzo 2025; ma nella nuova composizione manca la maggioranza di 2/3 necessaria per rimuovere la norma costituzionale. Sia Neue Linke sia AFD hanno escluso di dare l’assenso e i loro 216 voti bastano a bloccare la riforma, anche ove Wagenknecht non la spuntasse. Mostrando un totale disprezzo per ogni elementare regola democratica democristiani e socialdemocratici si stanno allora impegnando, congiuntamente, per far votare la modifica della Costituzione al parlamento disciolto, avviando una trattativa con i Grunen che, come noto, sono irresistibilmente attratti dalle bombe e dalle guerre, dunque disponibili a questo colpo di mano contro la pace.
Un altro sostenitore del riarmo è un altro sopravvissuto come Emanuel Macron, incollato alla sua posizione nonostante la sconfitta elettorale e la mancanza di sostegno nel paese; la maggioranza della Francia (sia la destra lepenista, sia la sinistra di Fronte Popolare) si oppone alle spese militari, ma questo non conta nulla, il programma viene imposto con prepotenza, con la repressione del dissenso. Il Presidente del Consiglio Europeo, il socialista Antonio Costa, ha sostenuto con opportune astensioni il governo conservatore portoghese di Montenegro, schierato con i più oltranzisti paesi della NATO contro qualsiasi trattativa; ma proprio nei giorni scorsi a Lisbona l’esecutivo è caduto e si va verso nuove elezioni, probabilmente a maggio. In Romania poi il favorito nazionalista Calin Georgescu (fra l’altro con un passato ecologista) è stato clamorosamente escluso dalla ripetizione delle elezioni, dopo l’annullamento della consultazione precedente da parte di una Corte Costituzionale assai poco indipendente dalle pressioni governative; chi ha sottoscritto il riarmo certamente rappresenta una minoranza del paese. Quanto avvenuto a Bucarest si presenta come un vero paradosso: la destra europea appoggia il candidato socialista pro riarmo e esclude il candidato nazionalista favorito, accusandolo di aver ricostituito il movimento fascista con il finanziamento di Putin e dei comunisti nordcoreani! In questa cornice confusa si cala la scelta (anche questa forzata, autoritaria e sostanzialmente antigiuridica) di procedere al riarmo e allo scontro militare senza richiedere il voto del parlamento europeo; imposto dalle circostanze e concesso di malavoglia aveva carattere consultivo, oltre a non rappresentare la realtà dei cittadini che vivono nei 27 paesi dell’Unione Europea. Rievocare il fascismo storico conduce fuori strada. Certamente rivivono nell’attuale cabina di comando elementi che hanno caratterizzato i regimi dittatoriali europei della prima metà del secolo scorso, quali la xenofobia, il colonialismo, l’intolleranza repressiva, la repressione poliziesca, la giustizia classista. Ma non basta a spiegare quel che sta avvenendo. Siamo di fronte ad un nuovo assetto politico fondato su un rapporto dispotico fra governo e sudditi, sulla relatività del diritto sempre piegato alla ragion di stato, sull’esproprio del comune e delle risorse primarie (aria, acqua, cielo) in una forma che si presenta, in veste nuova, come accumulazione primitiva volta a ottenere valore dall’esistenza collettiva riducendo la maggioranza degli esseri viventi a merce che produce, sempre, ogni minuto della giornata, senza sosta. In questa guerra non ci sono solo le armi convenzionali in azione: ci sono soprattutto satelliti che preparano la morte in precise aree territoriali scelte da anonimi funzionari in strutture indipendenti da quella che viene chiamata democrazia occidentale e che oggi forse non esiste già più (o comunque si avvia verso una inevitabile sparizione dalla scena, in tempi brevi).
L’irruzione di Donald Trump ha probabilmente accelerato quel che comunque sarebbe accaduto nella vecchia Europa. Non viene neppure contrapposta una diversa visione del mondo rispetto a quella che brutalmente il presidente americano rivendica come propria. L’Unione Europea dei 27 (affiancata dalla Gran Bretagna che pure si era sfilata pochi anni addietro) è frammentata, divisa, perfino provinciale, senza prospettive reali oltre che priva di valori morali da difendere. Pensa, sbagliando, che sia possibile, nel XXI secolo, fermare i flussi migratori; non ci riuscirono negli ultimi cinque secoli del primo millennio i cittadini dell’impero, quando ci si spostava a piedi o con i carri, pensano di riuscir-ci in un’epoca che dispone di navi, aerei, automobili, treni! Pensa, ancora, di poter vincere la guerra senza combattere, senza mettere a rischio la vita, senza esporla ai droni, alle pallottole, alle armi chimiche, alla strage intelligente pianificata dalle migliaia di satelliti che ci ruotano sopra la testa. O magari sognano di poter ripristinare la leva obbligatoria. Quando Macron minaccia di mandare truppe francesi o europee a combattere (o a separare i combattenti: cambia poco) ha in mente qualche migliaio di mercenari pronti a qualunque scelleratezza, come ha sempre fatto. Dimentica che non è riuscito a tenere la posizione neppure in Africa, di fronte a truppe male equipaggiate il suo esercito ha ceduto il campo: contro l’armata russa è ragionevole dubitare che possa andargli meglio. L’Unione Europea abbaia alla luna, rischia di provocare un disastro senza sapere tuttavia come reagire davvero, sul campo, dopo averlo stupidamente innescato.
Ottocento miliardi. Sottratti alla spesa sanitaria, alla ricerca, all’istruzione, alla difesa dalla povertà, all’ambiente, al futuro, all’accoglienza, al meticciato inteso come unica vera reale speranza dei popoli europei. Ottocento miliardi buttati al vento per un programma sconclusionato che non ha la minima possibilità di ottenere risultati concreti, neppure dal punto di vista criminale di chi lo ha concepito. Serviranno solo ad arricchire ulteriormente le imprese che producono armi e che, tendenzialmente, si disinteressano di come vengano usate dopo aver incassato il corrispettivo. Il comico Maurizio Crozza ci ha rivelato che il dispositivo di accensione del Lockeed Martin F-35 (circa cento milioni ciascuno) rimane esclusiva americana, possono bloccarlo se non sono d’accordo, alla faccia dell’autonomia difensiva europea! Sono ottocento miliardi spesi male, sparsi in 27 paesi in costante lite fra loro, governati spesso da partiti minoritari, corrotti, con unico punto in comune il dispotismo quale forma necessaria di esercizio del potere (la Romania è un esempio emblematico).
Ora ci apprestiamo alla messa in scena di una farsa, quella del 15 marzo 2025, a Roma, in sostegno dell’Europa. Non si sa quale, naturalmente. Ma il lancio proviene da Michele Serra, giornalista (ovviamente retribuito) di Repubblica, quotidiano fin dall’inizio schierato per la prosecuzione del conflitto russo-ucraino e contrario ad ogni trattativa. Repubblica è interamente posseduto da Exor, società controllata dalla famiglia Agnelli. La famiglia Agnelli ha la proprietà (fra le tante) di Iveco Defence Vehicles (IDV), azienda produttrice di mezzi militari che nel 2024 ha aumentato il fatturato del 31% e l’utile del 92%: non stupisce il risultato considerando il proliferare degli scontri bellici nel mondo. La Rivista Italiana di Difesa ha reso noto l’accordo siglato in data 11 novembre 2024 fra IDV e Leonardo per la fornitura (da parte della prima alla seconda) di motore e cambio-trasmissione da montare su due nuovi modelli di carri armati, l’Italian-Main Battle Tank (IMBT) e il c.d. A2CS/AICS (una nuova famiglia di veicoli da combattimento). Si tratta di un affare colossale che renderà alla famiglia Agnelli, datrice di lavoro del giornalista Serra, una montagna di soldi; ma, persona riservata, il giornalista Serra non ha ritenuto di far sapere ai convocati tramite le colonne del quotidiano questo particolare di cronaca economica, probabilmente valutandolo di scarso interesse. Eppure il dubbio che l’editore del suo giornale abbia magari un conflitto d’interesse sorge spontaneo! Il progetto Von der Leyen approvato dal Consiglio Europeo par costruito apposta per riempire le tasche della famiglia Agnelli, naturale che abbia volentieri messo a disposizione la testata per creare sostegno ad un riarmo che procurerà vantaggio finanziario al gruppo, controbilanciando la crisi di Stellantis e rafforzando il governo.
Chi, magari in perfetta buona fede, andrà alla manifestazione, contribuirà certamente a far crescere il patrimonio (un po’ logorato ma sempre notevole) della famiglia Agnelli, difficilmente aiuterà la pace nel mondo e forse (per lo più inconsapevolmente) verserà invece benzina sul fuoco, contribuendo a morte e distruzione, sottraendo risorse a sanità, ambiente, istruzione, ricerca. Ma non c’è alcuna possibilità di mantenere in vita l’Unione Europea, quella è già morta, nessuno potrà resuscitarla. Michele Serra evoca, con una sorta di nostalgia per la propria gioventù comprensibile in chi ha ormai passato i settanta, l’Europa di De Gasperi e Adenauer, perfino quella di Altiero Spinelli o di Aldo Capitini; ma è cambiato il secolo, il modo di produzione, il pianeta. L’unica Europa che esiste oggi l’abbiamo davanti: è quella dei 27, di Orban ungherese e Marcel Ciolacu rumeno, di Giorgia Meloni e Emanuel Macron, di Costa e Von der Leyen. E’ un’Europa dispotica, aggressiva, predatrice, xenofoba, ostile. Ha sostituito e ucciso quella del XX secolo. Andare in piazza a sostenerla è follia pura, autolesionismo. Ne prendano atto tutti, finalmente: come nelle vecchie monarchie la cerimonia funebre del 15 marzo prevede il grido è morta l’Unione Europea viva l’Unione Europea! I presenti sono chiamati a incoronare il nuovo sovrano.
Esiste un’altra Europa? Ma certo! I giovanissimi nati nel terzo millennio (nonostante il calo demografico esistono) hanno imparato a girare nel vecchio continente senza incrociare sbarre doganali di confine, la Gran Bretagna pagherà un prezzo per averle rimesse e già sta cominciando a farlo. I migranti sono fuggiti dalla guerra, non certo per andare altrove ad armarsi e a combattere. Bisogna ritrovare l’orgoglio di essere internazionalisti, non è in contraddizione con l’amore per la propria terra, per una casa, per una vigna, per un lembo di orizzonte. Mai come in questo frangente la pace prende la forma di un programma rivoluzionario; è l’esatto contrario del programma di riarmo, che infatti mira all’esproprio del comune. La nostra Europa pone quale condizione preventiva proprio la diserzione in aperta opposizione al riarmo; e si tiene consapevolmente lontana dalla manifestazione dl 15 marzo, senza anatemi, ma al tempo stesso con una ostile estraneità.

L’immagine è tratta da Wikimedia

E’ MORTA L’UNIONE EUROPEA, VIVA L’UNIONE EUROPEA! Leggi tutto »

La violenza del potere nudo

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di Alessandra Algostino

È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità; genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio indifferente e complice. È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore, che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera forza.

Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra.

È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora percepita come un disvalore.

Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace.

I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti deportati in catene: è la violenza disumana del potere.

Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico, come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big del capitalismo digitale.

È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima – e non sufficiente – come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un fascio-liberismo.

Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene prospettato è la guerra. La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello della guerra.

E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di un’Europa che da secoli

«non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo» (Fanon),

la rendono incapace di sfuggire all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico orizzonte.

Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia? Iniziamo a pensare possibile ciò che appare impossibile. «Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta spingerlo in su e respirare» (Krenak).

Pubblicato su il manifesto del 7 marzo 2025.

e su su Comune-info l’8 Marzo 2025

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