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Raccontare un femminicidio senza uccidere due volte


di  Benedetta La Penna

I femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche

Ho scelto di non scrivere subito del femminicidio di Lettomanoppello, accaduto il 9 ottobre. Non per distacco, ma per rispetto. Perché troppe volte, dopo un femminicidio, assistiamo a una corsa a occupare lo spazio del dolore — politici in cerca di consenso, media affamati di titoli, commentatori pronti a riempire il silenzio con parole vuote. Io credo che prima di parlare, serva ascoltare. Perché le parole contano, e quando sono sbagliate, possono ferire una seconda volta.
E in effetti, ancora una volta, le parole sono state sbagliate.
Nei giorni successivi al FEMMINICIDIO di Cleria Mancini, uccisa dall’ex marito Antonio Mancini, il racconto mediatico si è subito piegato verso la giustificazione, verso la spettacolarizzazione. I titoli dei giornali hanno parlato di “raptus”, di “tragedia familiare”, di un uomo “fuori di sé”, “pazzo”, “accecato dalla gelosia”.

Ecco cos’è la narrazione tossica.
È quella che, invece di nominare la violenza per ciò che è — un atto di potere — la svuota di significato politico. È quella che sposta il focus dall’assassinio di una donna alla disperazione dell’uomo che l’ha uccisa. È quella che descrive il carnefice come una vittima delle proprie emozioni, riducendo la violenza patriarcale a un gesto di follia individuale.

Chiamare un femminicida “pazzo” non è solo un errore lessicale. È un modo per deresponsabilizzare — lui, e con lui la società intera. Se era “pazzo”, allora non poteva controllarsi. Se era “fuori di sé”, allora non c’era premeditazione. Se è “un raptus”, allora nessuno poteva evitarlo.
Così, in un colpo solo, si cancella l’origine sistemica della violenza maschile e si solleva la collettività dal dovere di interrogarsi su cosa l’abbia resa possibile.

Ma la verità è che non c’è nessun raptus.
Ci sono dinamiche di controllo, di possesso, di dominio. C’è un uomo che non accetta la libertà della donna accanto a sé, e una cultura che, in mille modi sottili, lo autorizza a pensare che quella libertà gli appartenga.
Emanuela voleva vivere la sua vita, e per questo è stata uccisa. È questo che bisogna dire. Tutto il resto — “il gesto di follia”, “il momento di buio”, “la mente malata” — sono tentativi di spostare lo sguardo, di allontanare la violenza da noi, di ridurla a un fatto privato.

Invece no: i femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche.
Accadono perché esiste un sistema che educa alla sopraffazione, che assegna agli uomini il potere e alle donne la colpa. Accadono perché lo Stato continua a tagliare risorse ai centri antiviolenza, perché la stampa continua a raccontare la violenza come un’anomalia, e non come un sintomo di un ordine sociale malato.

La narrazione tossica non è solo una cattiva abitudine giornalistica. È un dispositivo culturale di difesa. Serve a mantenere l’illusione che la violenza sia eccezionale, imprevedibile, non nostra.
Ma ogni volta che leggiamo “una donna è stata trovata morta” invece di “un uomo l’ha uccisa”, cancelliamo il soggetto. Ogni volta che scriviamo “lui l’amava troppo”, legittimiamo l’idea che l’amore possa essere una scusa per la violenza. Ogni volta che un giornale titola “tragedia della gelosia”, stiamo dicendo alle prossime Emanuele che la loro libertà è pericolosa.

Per questo oggi non scrivo per commentare, ma per denunciare.
Per dire che il modo in cui raccontiamo i femminicidi è parte del problema. Che il giornalismo, se non cambia sguardo, diventa complice.
Fare cultura femminista significa questo: smontare le parole che proteggono il potere, nominare la violenza per quello che è, ridare voce e dignità alle donne che non possono più parlare.

Cleria Mancini non è morta per un raptus. È stata uccisa da un uomo e da una cultura che gli ha permesso di credere che il suo corpo e la sua vita gli appartenessero.
Raccontarlo senza ipocrisie è il primo passo per impedire che accada ancora.
Le parole non bastano, ma sono l’inizio di ogni cambiamento.
E allora che questo cambiamento cominci da noi — da chi scrive, da chi legge, da chi ascolta, da chi insegna.
Perché ogni volta che scegliamo di raccontare la verità, togliamo ossigeno alla cultura della violenza e restituiamo giustizia a chi non può più difendersi.


L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 15 ottobre 2025

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Bloomsday 2025

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Perché l’autocoscienza maschile fa così paura?

di Lea Melandri


Quelli che oggi chiamiamo “stereotipi di genere”, se li guardiamo più profondamente, ci accorgiamo che non si tratta di “differenze”, ma di un processo sempre in atto di “differenziazione”, la spaccatura che ha diviso, contrapposto nella loro complementarità, parti inscindibili dell’umano, come il corpo e il pensiero, la ragione e i sentimenti, la biologia e la storia, e che perciò stesso tende alla loro riunificazione. Femminilità e virilità parlano di rapporti e di gerarchie di potere, di sfruttamento e di violenza, ma è innegabile che ritornano, sotto un altro aspetto, come i volti di quel desiderio di unità, appartenenza intima, che è il sogno d’amore: “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso” (Sibilla Aleramo).
’uscita dal due in uno della nascita, dal momento che la donna è stata confinata nel ruolo materno, non poteva far incontrare due singolarità incarnate, ma le figure dell’origine in posizioni capovolte. Anche quando è diventato il padre di se stesso l’uomo, che celebra nella sessualità penetrativa la “vittoria sul trauma della nascita” (Sàndor Ferenczi), non può dire di aver reciso il cordone ombelicale, la dipendenza che nell’infanzia lo ha visto inerme affidato al corpo con cui è stato tutt’uno, e da cui ancora teme immaginariamente di poter essere riassorbito.
Di questa ambiguità delle figure di genere, strette dentro logiche di desiderio e di paura, di amore e di odio, di vita e di morte, a dare conto è stata finora la pratica che il femminismo ha chiamato “autocoscienza”: un pensiero e una parola spinti fin dentro le acque insondate della persona, ai confini tra inconscio e coscienza, tanto da portare allo scoperto vissuti che sfuggono alle costruzioni teoriche e al discorso politico tradizionalmente inteso, o che restano “impresentabili”.
Nei rari casi in cui sono stati uomini a vincere, nelle loro scritture, la ritrosia a parlare di sé, a esporre sentimenti, fantasie, ritenute “naturali” inclinazioni femminili, non sono mancate voci critiche anche nel femminismo. Il vissuto di un figlio, l’intreccio di sentimenti opposti di amore e odio, tenerezza e violenza, affidamento e autonomia, destano comprensibilmente inquietudini nella donna che, suo malgrado, ha fatta propria come portato “naturale” la maternità: madre sempre e comunque, che abbia o non abbia avuto figli. Se è stato storicamente lo sguardo dell’uomo, l’ideologia del patriarcato, a identificarla con la sessualità e la maternità, è nell’immaginario di un figlio maschio che prende corpo negli anni dell’infanzia e della adolescenza una relazione destinata a prolungarsi nella vita amorosa adulta, con tutte le sue contraddizioni e ambivalenze.

“L’ossessione era sempre quella dell’identità maschile: confonderla e riavvicinarla a quella dell’altro sesso (capelli, orecchini eccetera) o al contrario credere di custodirla a colpi di forbici (…) Vedono la femminilità come una infezione, temono di esserne contaminati, custodiscono la virilità come un sistema chiuso, compatto, impermeabile alle mollezze che il contatto con il femminile evoca e provoca (…) Nella prima esperienza, abbracciati a una donna, ai ragazzi manca il respiro, si sentono soffocare, intrappolati. Altro che possedere, conquistare, dominare! Un uomo si sente avviluppato dalle spire, avvinghiato dai tentacoli, sepolto nella cedevolezza delle forme di un corpo femminile, e quando entra dentro di lei è come se fosse entrato nella tomba. Con immenso piacere e sgomento, la sconcertante novità della morbidezza”.
(Edoardo AlbinatiLa scuola cattolica, Rizzoli 2016)

Settant’anni prima, nel 1946, Franco Matacotta, il giovane poeta marchigiano, ultimo amore di una Sibilla Aleramo che si scopriva “madre- amante”, descrive la sua formazione di adolescente con parole e immagini molto simili.

“Mia madre! Essa lo era stata quando un minuscolo grumo di sangue attendeva nel suo grembo d’essere chiamato alla luce. Allora essa m’aveva posseduto, io ero stato tutt’uno con le sue viscere. Ora mi pareva che tra me e lei il rapporto fosse come tra l’acqua e le viscere della montagna. L’acqua se ne fugge, corre lontana. E io, perché dovevo continuare ad appartenere a mia madre? (…) Si amavano i miei genitori? Quelle braccia della mamma ch’io m’era rappresentato naturalmente protese verso il babbo, le sentivo invece deviate da non so qual vento nemico verso di me. Braccia. Bramose di offrirsi, di sacrificarsi, perennemente sollevate nell’atmosfera elettrica della casa: braccia senza corpo, senza volto, con quel loro gesto concavo delle mani sempre vuote. Perchè quella curva terribile, nel gesto d’amore? Essa chiama, stringe, diviene cerchio e spira”.
(Franco MatacottaLa lepre bianca, ristampato da Feltrinelli, 1982).

Figlia femmina, cresciuta per vent’anni in una famiglia contadina, dove i maltrattamenti riguardo alle donne sembravano far tutt’uno con la povertà e la fatica del lavoro dei campi, neppure il privilegio di aver potuto frequentare un buon liceo di provincia mi ha permesso allora di districare il perverso annodamento tra la debolezza e la violenza paterna, la vitalità prorompente di mia madre e la sua sottomissione. Ma, soprattutto, avendo potuto percorrere le strade riservate di solito al figlio maschio – lo studio, la fuga verso la grande città, l’impegno politico – non mi è stato difficile, con la consapevolezza che mi è venuta in seguito dal femminismo, rendermi conto di quanto la visione maschile del mondo – la “fuga dal femminile”, il desiderio e la paura di una possessività materna, sia pure legata agli affetti più che al potere – avesse messo radici profonde anche nella memoria del mio corpo. “Non c’è rivoluzione senza la liberazione delle donne”, scrivevamo nei volantini degli anni Settanta. Oggi direi “Non c’è liberazione senza una rivoluzione della coscienza maschile”. Se invece pensiamo che le donne siano “innocenti”, toccate dal patriarcato solo come vittime, e gli uomini malvagi “per natura”, allora non resta che chiederci perché continuiamo a mettere al mondo dei mostri.



L’articolo è stato pubblicato su  Comune-info il 24 Marzo 2025
L’immagine è di Folco Masi da unsplash

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IL PIACERE DI (FARSI) LEGGERE

di Sergio Tardetti

Di fronte a un libro un lettore non è mai solo con se stesso. C’è sempre un compagno invisibile che lo affianca, qualcuno con cui stabilire un dialogo, ancorché muto, qualcuno a cui chiedere conferma o smentita del poco che ha intuito della vita fino a quel momento. È lì, davanti a lui, che gli parla con una lingua a volte conosciuta, più spesso nuova, a volte si lascia interrogare, altre volte interroga, finché il monologo iniziale che nasce dalla voce del narratore diventa una conversazione. Ed è proprio così che nascono e fioriscono le amicizie e gli amori, continuano a durare nel tempo fino a dare frutti maturi ogni volta che il lettore riesce ad anticipare il pensiero dell’autore. E non parlo, naturalmente, di un pensiero banale o scontato, ma di qualcosa di originale, scaturito dalla mente di chi scrive e passato a quella di chi legge, perché lo faccia suo e lo usi al meglio. È un po’ quello che accade con gli amici di sempre, ogni volta sappiamo a cosa stanno pensando, tradiscono i loro pensieri attraverso piccoli indizi dai quali è facile ricostruire il tutto per chi ha una conoscenza profonda dell’altro. Così avviene tra lettore e scrittore, quella che un autore del passato chiamava “corrispondenza d’amorosi sensi”, un sentimento che può sorgere tra il lettore e l’autore presente a questo tempo, ma anche tra il lettore e chi di questo tempo ormai non fa più parte. L’autore, a qualunque epoca appartenga, coltiva il piacere di farsi leggere come si coltiva un fiore raro e prezioso che si vuole continuare a far fiorire anche in epoche future.
C’è un momento preciso in cui il lettore diventa protagonista di questa storia, quello in cui decide in merito alla scelta dell’autore e del suo libro. Spesso è amore a prima vista, piace il titolo, accattivante e sorprendente quanto basta per ammaliare, un titolo che dà da pensare o che fa pregustare future evasioni da una routine quotidiana senza sorprese né scossoni, una vita piatta, insomma, una linea continua come l’ EEG di un defunto. Lo stesso può accadere per la copertina, una grafica bene impostata capace di sollecitare l’attenzione dello sguardo aiuta ad essere scelti dal lettore curioso, che ama farsi affascinare da apparizioni improvvise, lampi nel buio che rompono la piatta uniformità di un panorama spesso fin troppo deludente. Ed è così che nascono gli innamoramenti, le folgorazioni sulla via di Damasco, le conversioni nei confronti di temi dei quali fino a quel momento non si era nemmeno voluto sentire parlare. Per il lettore il “non mi piace” è soltanto un’impuntatura temporanea, un’antipatia nata per qualche fortuito accidente – una giornata storta, un affare andato male, un amore non corrisposto – ma che è destinata a dissolversi nel tempo. Sarà sufficiente che le circostanze sfavorevoli cambino di segno – una giornata felice, un affare andato in porto, un sorriso apparso sul volto dell’amata – per cambiare parere anche in merito a certe letture fino a quel momento non particolarmente gradite. La lettura è e resta un piacere che non può che crescere nel tempo.


© Sergio Tardetti 2025

La Foto è di felix_w da Pixabay

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Introduzione al secolo ventuno

Immagine creata con l’intelligenza artificiale

 

di Franco Berardi Bifo

Un razzista sudafricano di nome Elon Musk, che i giornali definiscono l’uomo più ricco del mondo, si è guadagnato recentemente un altro appellativo, più interessante: agente del caos lo ha definito il Guardian, del 20 dicembre, riprendendo una definizione che il New York Times aveva già proposto nel 2022. Io credo che questa sia una definizione imprecisa, o almeno troppo semplice. Non credo che Musk abbia la funzione storica di promuovere il caos, se non apparentemente. La sua attività politica, a cominciare con l’acquisto di Twitter, è finalizzata alla distruzione dello Stato e delle strutture pubbliche costruite durante l’epoca moderna. Da questo punto di vista il progetto di Musk incontra quello di Steve Bannon e in generale dell’Amministrazione Trump. Ma la poliedrica attività di Musk, oltre a questa definitiva distruzione dell’ordine moderno (ovvero compimento dell’opera iniziata dal liberismo thatcheriano) comprende una parte costruttiva: costruzione di un sistema di controllo totale del sistema telecomunicativo globale (Starlink), e creazione delle interfacce tra biologico e digitale che renderanno possibile la creazione di automi compiutamente intelligenti (Neuralink).
Qualche giorno fa il razzista sudafricano, in un commento sul Welt Am Sonntag ha preso posizione sulla prossime elezioni tedesche, sostenendo l’Alternative fur Deutschland. Non si tratta di un partito nazista, ha detto Musk, argomentando così: “La raffigurazione di AFD come partito di estrema destra è chiaramente falsa, considerando il fatto che Alice Weidel, leader del partito, ha un partner dello stesso sesso che viene dallo Sri Lanka. Vi pare che questo possa assomigliare a Hitler?”. La questione merita di essere approfondita. È vero che individui come Donald Trump, o partiti come l’ADF tedesca appaiono molto diversi dal Nazionalistiche Sozialistiche Deutsche Partei. E lo sono: tanto per cominciare il trumpismo ha cancellato ogni riferimento al socialismo, che Hitler aveva invece conservato, non solo nel nome del suo partito, ma anche in alcune delle politiche sociali del Terzo Reich. Inoltre l’intero mondo immaginario che faceva da sfondo al regime hitleriano (i colori scuri delle divise, la rigidità delle pose, e così via…) è stato sostituito dall’esplosione del colore e dall’eccitazione carnevalesca delle folle MAGA. Il severo stile Gotico della borghesia industriale territorializzata e protestante è rimpiazzato dallo strabiliante Barocco della lumpen-borghesia mafiosa che da Berlusconi a Trump ha rifondato il potere sulla cosmovisione spettacolare. Dobbiamo dunque abbandonare l’assimilazione del trumpismo globale con il nazismo hitleriano, che la sinistra ha usato forse per spaventare l’elettorato che poco alla volta si è invece abituato a non farsi impressionare dallo spauracchio del nazismo? Sì e no.
No, perché in effetti il rilancio del suprematismo razziale colonialista dell’Occidente bianco è la funzione storica di lungo periodo che svolge il movimento reazionario globale di cui Trump è il simbolo e Musk lo strumento principale. Il nemico da sterminare per Hitler erano gli ebrei, mentre per il suprematismo razzista contemporaneo il nemico da sterminare sono le masse immense di colonizzati che, pur incapaci di un’offensiva politica internazionalista, costituiscono un pericolo per la stabilità occidentale con la loro semplice esistenza, con i loro movimenti migratori, e con le loro pretese di redistribuzione della ricchezza globale.
I militari israeliani, e lo stesso popolo israeliano, appaiono molto diversi dalle SS hitleriane dal punto di vista estetico e politico, ma svolgono la stessa funzione delle SS hitleriane quando si tratta di sterminare i nemici della civiltà occidentale, che per Hitler erano gli ebrei, e per Israele sono invece i colonizzati che rivendicano il diritto alla sopravvivenza e possibilmente a un territorio.
Il regime che si sta affermando ormai inarrestabilmente in tutto l’Occidente è, inoltre, la conseguenza e la piena implementazione del liberismo economico che si è affermato a partire dagli anni ’80, con la collaborazione attivissima delle sinistre europee nella loro generalità. La democrazia liberale è ormai spazzata via dovunque, ma la regola fondamentale della distruzione delle regole (e della loro sostituzione con la regola assoluta del massimo profitto) viene confermata ed esaltata da coloro che hanno fatto della parola libertà il loro slogan, purché sia chiaro che si tratta della libertà degli schiavisti. Le sinistre sono state funzione dipendente del liberismo nella fase passata, quando si doveva liquidare il movimento operaio. Questa funzione è stata svolta dalla sinistra e dai democratici, e per questo costoro sono e saranno in eterno oggetto di disprezzo. Ma ora le sinistre stanno scomparendo e quello che va emergendo è un regime che non ha più molto a che vedere con il fascismo del passato. Io ho deciso da molto tempo di adottare la definizione di nazi-liberismo. La devastazione liberale del sistema sociale è l’origine del nazionalismo razzista trumpista, ma è anche la sua stella polare. L’intenzione dichiarata dei più aggressivi nazi-liberisti, come Javier Milei, o come Steve Bannon ed Elon Musk, è la definitiva demolizione delle strutture pubbliche (sanità educazione, trasporti eccetera) che rendevano possibile la sopravvivenza sociale. Questo comporta naturalmente uno sterminio sociale, che è già in corso e che vedremo precipitare spaventosamente nei prossimi anni. Ma lo sterminio sociale in corso all’interno dei paesi occidentali è solo parte del genocidio globale che si sta svolgendo alla frontiera tra il nord e il sud del mondo, e che ha nel genocidio dei palestinesi il suo simbolo insanguinato. Quella in cui siamo entrati dopo il 7 Ottobre è l’epoca del genocidio globale – e questa epoca è naturalmente caratterizzata dal moltiplicarsi dei punti di precipitazione caotica. È evidente che il movimento reazionario globale di cui Musk è espressione provoca rotture caotiche in un numero sempre più grande di punti del pianeta.
Ma questo non è che un passaggio del processo che si è messo in moto negli ultimi decenni, che è insieme proliferazione del caos e creazione di un Ordine superiore, che è l’ordine dell’Automa.
Il movimento reazionario globale si impegna oggi nella devastazione del mondo umano, che è il mondo dell’indeterminazione, dell’approssimazione, dell’analogia e della congiunzione.
Ma al di là dell’azione caotizzante del movimento reazionario ci sta un obiettivo di ordine determinista, digitale e connettivo: l’Automa cognitivo è destinato a prendere il posto del caos vivente.
Musk, se vogliamo è un agente di caos politico, ma il caos politico ha la funzione di rendere possibile, in due movimenti logicamente successivi (ma cronologicamente contemporanei) l’eliminazione dell’umano: genocidio dei marginali e mutazione della mente collettiva per la sua sottomissione all’Automa, quindi l’instaurazione dell’Ordine Automatico. In alcuni linguaggi di programmazione, riprendendo un concetto del filosofo neo-positivista Rudolf Carnap, si parla di “functor” come variabile dipendente da una successione matematica. Al di fuori della metafora computazionale il funtore è un agente perfettamente compatibilizzato e sincronizzato con l’Automa cognitivo globale. Nei primi decenni del secolo ventuno l’Automa ha operato la formattazione e sincronizzazione delle menti individuali degli individui appartenenti alla prima generazione connettiva. Gli umani sono stati tendenzialmente assoggettati all’ordine digitale, progressivamente privati delle caratteristiche e delle pulsioni incompatibili con l’Automa come il desiderio erotico, la capacità critica, e tendenzialmente la singolarità espressiva. Questa mutazione non può avvenire senza enorme sofferenza, disforia, psicopatie depressive o aggressive. Ma una parte del genere umano non può essere formattata e sincronizzata, e rimane ai margini del processo produttivo e del territorio privilegiato. I non-formattati-non-sincronizzati (che uno scrittore di fantascienza di cui non vi dirò il nome chiamava daisies, dall’inglese: de-synchronized) verranno progressivamente sterminati con gli strumenti della guerra, della fame, della sottomissione a ritmi di lavoro schiavistico impossibili per l’organismo umano e con altre tecniche di terminazione… Questo processo è l’orizzonte del secolo ventuno, e lo vediamo già chiaramente delineato nelle linee politiche del trumpismo e nell’azione tecno-totalitaria di cui Elon Musk è il perno. Una razza di maschi bianchi funzionalmente superiore ed emotivamente sterilizzati sta prendendo in mano le leve del potere tecnico, economico e militare. Nessuna forza politica può opporsi a questa presa di potere, per la semplice ragione che non si tratta di un processo politico, ma si tratta di una mutazione tecno-cognitiva. La mutazione cognitiva e il genocidio sono i due processi decisivi di questo passaggio. La mutazione cognitiva è realizzata attraverso la sottomissione della mente umana a una formattazione che mira a sincronizzare l’attività della mente al ritmo dell’automa. Inevitabilmente questo processo di mutazione comporta sofferenza. Si pensi a patologie come l’ADHD, o attention deficit disorder: non si tratta di una patologia, quanto un tentativo di adeguamento e di sincronizzazione della mente al ritmo diecimila volte accelerato dell’Infosfera. La coscienza etica e la sensibilità erotica sono residui dell’umanità pre-formattata che stanno rapidamente scomparendo nella generazione connettiva emergente. Un altro carattere emergente dei mutanti è la impercezione del dolore altrui, effetto della ininterrotta esposizione a flussi di stimolazione nervosa simulata per cui la mente tende a non distinguere più le simulazioni dagli organismi, e tende a considerare i corpi sofferenti come omini verdi del video game, che non soffrono e se muoiono possono sempre rialzarsi in piedi un attimo dopo. Questo è l’orizzonte del secolo ventuno, questa è la tendenza che si sta inarrestabilmente dispiegando. Il collasso climatico, il collasso geopolitico, il collasso sociale costituiscono l’ambiente ideale per questo processo di mutazione, formattazione ed eliminazione dei residui daisies. Ma c’è anche la possibilità (assai probabile) che l’intreccio di questi tre collassi produca l’estinzione definitiva del genere umano. In questo caso tutto quel che è umano verrebbe finalmente cancellato, e questo permetterebbe di realizzare l’ideale perfetto dell’Ordine Muskiano: l’illimitata riproduzione dell’automa in un territorio che è stato finalmente depurato di ogni elemento caotico e imprevedibile.

Ciò detto noi (disertori) sappiamo che l’imprevedibile non è ancora cancellato. Ma di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere.

 

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 5 gennaio 2025

L’immagine è di Chris and Ralph da pixabay

 

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