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IL PIACERE DI (FARSI) LEGGERE

di Sergio Tardetti

Di fronte a un libro un lettore non è mai solo con se stesso. C’è sempre un compagno invisibile che lo affianca, qualcuno con cui stabilire un dialogo, ancorché muto, qualcuno a cui chiedere conferma o smentita del poco che ha intuito della vita fino a quel momento. È lì, davanti a lui, che gli parla con una lingua a volte conosciuta, più spesso nuova, a volte si lascia interrogare, altre volte interroga, finché il monologo iniziale che nasce dalla voce del narratore diventa una conversazione. Ed è proprio così che nascono e fioriscono le amicizie e gli amori, continuano a durare nel tempo fino a dare frutti maturi ogni volta che il lettore riesce ad anticipare il pensiero dell’autore. E non parlo, naturalmente, di un pensiero banale o scontato, ma di qualcosa di originale, scaturito dalla mente di chi scrive e passato a quella di chi legge, perché lo faccia suo e lo usi al meglio. È un po’ quello che accade con gli amici di sempre, ogni volta sappiamo a cosa stanno pensando, tradiscono i loro pensieri attraverso piccoli indizi dai quali è facile ricostruire il tutto per chi ha una conoscenza profonda dell’altro. Così avviene tra lettore e scrittore, quella che un autore del passato chiamava “corrispondenza d’amorosi sensi”, un sentimento che può sorgere tra il lettore e l’autore presente a questo tempo, ma anche tra il lettore e chi di questo tempo ormai non fa più parte. L’autore, a qualunque epoca appartenga, coltiva il piacere di farsi leggere come si coltiva un fiore raro e prezioso che si vuole continuare a far fiorire anche in epoche future.
C’è un momento preciso in cui il lettore diventa protagonista di questa storia, quello in cui decide in merito alla scelta dell’autore e del suo libro. Spesso è amore a prima vista, piace il titolo, accattivante e sorprendente quanto basta per ammaliare, un titolo che dà da pensare o che fa pregustare future evasioni da una routine quotidiana senza sorprese né scossoni, una vita piatta, insomma, una linea continua come l’ EEG di un defunto. Lo stesso può accadere per la copertina, una grafica bene impostata capace di sollecitare l’attenzione dello sguardo aiuta ad essere scelti dal lettore curioso, che ama farsi affascinare da apparizioni improvvise, lampi nel buio che rompono la piatta uniformità di un panorama spesso fin troppo deludente. Ed è così che nascono gli innamoramenti, le folgorazioni sulla via di Damasco, le conversioni nei confronti di temi dei quali fino a quel momento non si era nemmeno voluto sentire parlare. Per il lettore il “non mi piace” è soltanto un’impuntatura temporanea, un’antipatia nata per qualche fortuito accidente – una giornata storta, un affare andato male, un amore non corrisposto – ma che è destinata a dissolversi nel tempo. Sarà sufficiente che le circostanze sfavorevoli cambino di segno – una giornata felice, un affare andato in porto, un sorriso apparso sul volto dell’amata – per cambiare parere anche in merito a certe letture fino a quel momento non particolarmente gradite. La lettura è e resta un piacere che non può che crescere nel tempo.


© Sergio Tardetti 2025

La Foto è di felix_w da Pixabay

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Introduzione al secolo ventuno

Immagine creata con l’intelligenza artificiale

 

di Franco Berardi Bifo

Un razzista sudafricano di nome Elon Musk, che i giornali definiscono l’uomo più ricco del mondo, si è guadagnato recentemente un altro appellativo, più interessante: agente del caos lo ha definito il Guardian, del 20 dicembre, riprendendo una definizione che il New York Times aveva già proposto nel 2022. Io credo che questa sia una definizione imprecisa, o almeno troppo semplice. Non credo che Musk abbia la funzione storica di promuovere il caos, se non apparentemente. La sua attività politica, a cominciare con l’acquisto di Twitter, è finalizzata alla distruzione dello Stato e delle strutture pubbliche costruite durante l’epoca moderna. Da questo punto di vista il progetto di Musk incontra quello di Steve Bannon e in generale dell’Amministrazione Trump. Ma la poliedrica attività di Musk, oltre a questa definitiva distruzione dell’ordine moderno (ovvero compimento dell’opera iniziata dal liberismo thatcheriano) comprende una parte costruttiva: costruzione di un sistema di controllo totale del sistema telecomunicativo globale (Starlink), e creazione delle interfacce tra biologico e digitale che renderanno possibile la creazione di automi compiutamente intelligenti (Neuralink).
Qualche giorno fa il razzista sudafricano, in un commento sul Welt Am Sonntag ha preso posizione sulla prossime elezioni tedesche, sostenendo l’Alternative fur Deutschland. Non si tratta di un partito nazista, ha detto Musk, argomentando così: “La raffigurazione di AFD come partito di estrema destra è chiaramente falsa, considerando il fatto che Alice Weidel, leader del partito, ha un partner dello stesso sesso che viene dallo Sri Lanka. Vi pare che questo possa assomigliare a Hitler?”. La questione merita di essere approfondita. È vero che individui come Donald Trump, o partiti come l’ADF tedesca appaiono molto diversi dal Nazionalistiche Sozialistiche Deutsche Partei. E lo sono: tanto per cominciare il trumpismo ha cancellato ogni riferimento al socialismo, che Hitler aveva invece conservato, non solo nel nome del suo partito, ma anche in alcune delle politiche sociali del Terzo Reich. Inoltre l’intero mondo immaginario che faceva da sfondo al regime hitleriano (i colori scuri delle divise, la rigidità delle pose, e così via…) è stato sostituito dall’esplosione del colore e dall’eccitazione carnevalesca delle folle MAGA. Il severo stile Gotico della borghesia industriale territorializzata e protestante è rimpiazzato dallo strabiliante Barocco della lumpen-borghesia mafiosa che da Berlusconi a Trump ha rifondato il potere sulla cosmovisione spettacolare. Dobbiamo dunque abbandonare l’assimilazione del trumpismo globale con il nazismo hitleriano, che la sinistra ha usato forse per spaventare l’elettorato che poco alla volta si è invece abituato a non farsi impressionare dallo spauracchio del nazismo? Sì e no.
No, perché in effetti il rilancio del suprematismo razziale colonialista dell’Occidente bianco è la funzione storica di lungo periodo che svolge il movimento reazionario globale di cui Trump è il simbolo e Musk lo strumento principale. Il nemico da sterminare per Hitler erano gli ebrei, mentre per il suprematismo razzista contemporaneo il nemico da sterminare sono le masse immense di colonizzati che, pur incapaci di un’offensiva politica internazionalista, costituiscono un pericolo per la stabilità occidentale con la loro semplice esistenza, con i loro movimenti migratori, e con le loro pretese di redistribuzione della ricchezza globale.
I militari israeliani, e lo stesso popolo israeliano, appaiono molto diversi dalle SS hitleriane dal punto di vista estetico e politico, ma svolgono la stessa funzione delle SS hitleriane quando si tratta di sterminare i nemici della civiltà occidentale, che per Hitler erano gli ebrei, e per Israele sono invece i colonizzati che rivendicano il diritto alla sopravvivenza e possibilmente a un territorio.
Il regime che si sta affermando ormai inarrestabilmente in tutto l’Occidente è, inoltre, la conseguenza e la piena implementazione del liberismo economico che si è affermato a partire dagli anni ’80, con la collaborazione attivissima delle sinistre europee nella loro generalità. La democrazia liberale è ormai spazzata via dovunque, ma la regola fondamentale della distruzione delle regole (e della loro sostituzione con la regola assoluta del massimo profitto) viene confermata ed esaltata da coloro che hanno fatto della parola libertà il loro slogan, purché sia chiaro che si tratta della libertà degli schiavisti. Le sinistre sono state funzione dipendente del liberismo nella fase passata, quando si doveva liquidare il movimento operaio. Questa funzione è stata svolta dalla sinistra e dai democratici, e per questo costoro sono e saranno in eterno oggetto di disprezzo. Ma ora le sinistre stanno scomparendo e quello che va emergendo è un regime che non ha più molto a che vedere con il fascismo del passato. Io ho deciso da molto tempo di adottare la definizione di nazi-liberismo. La devastazione liberale del sistema sociale è l’origine del nazionalismo razzista trumpista, ma è anche la sua stella polare. L’intenzione dichiarata dei più aggressivi nazi-liberisti, come Javier Milei, o come Steve Bannon ed Elon Musk, è la definitiva demolizione delle strutture pubbliche (sanità educazione, trasporti eccetera) che rendevano possibile la sopravvivenza sociale. Questo comporta naturalmente uno sterminio sociale, che è già in corso e che vedremo precipitare spaventosamente nei prossimi anni. Ma lo sterminio sociale in corso all’interno dei paesi occidentali è solo parte del genocidio globale che si sta svolgendo alla frontiera tra il nord e il sud del mondo, e che ha nel genocidio dei palestinesi il suo simbolo insanguinato. Quella in cui siamo entrati dopo il 7 Ottobre è l’epoca del genocidio globale – e questa epoca è naturalmente caratterizzata dal moltiplicarsi dei punti di precipitazione caotica. È evidente che il movimento reazionario globale di cui Musk è espressione provoca rotture caotiche in un numero sempre più grande di punti del pianeta.
Ma questo non è che un passaggio del processo che si è messo in moto negli ultimi decenni, che è insieme proliferazione del caos e creazione di un Ordine superiore, che è l’ordine dell’Automa.
Il movimento reazionario globale si impegna oggi nella devastazione del mondo umano, che è il mondo dell’indeterminazione, dell’approssimazione, dell’analogia e della congiunzione.
Ma al di là dell’azione caotizzante del movimento reazionario ci sta un obiettivo di ordine determinista, digitale e connettivo: l’Automa cognitivo è destinato a prendere il posto del caos vivente.
Musk, se vogliamo è un agente di caos politico, ma il caos politico ha la funzione di rendere possibile, in due movimenti logicamente successivi (ma cronologicamente contemporanei) l’eliminazione dell’umano: genocidio dei marginali e mutazione della mente collettiva per la sua sottomissione all’Automa, quindi l’instaurazione dell’Ordine Automatico. In alcuni linguaggi di programmazione, riprendendo un concetto del filosofo neo-positivista Rudolf Carnap, si parla di “functor” come variabile dipendente da una successione matematica. Al di fuori della metafora computazionale il funtore è un agente perfettamente compatibilizzato e sincronizzato con l’Automa cognitivo globale. Nei primi decenni del secolo ventuno l’Automa ha operato la formattazione e sincronizzazione delle menti individuali degli individui appartenenti alla prima generazione connettiva. Gli umani sono stati tendenzialmente assoggettati all’ordine digitale, progressivamente privati delle caratteristiche e delle pulsioni incompatibili con l’Automa come il desiderio erotico, la capacità critica, e tendenzialmente la singolarità espressiva. Questa mutazione non può avvenire senza enorme sofferenza, disforia, psicopatie depressive o aggressive. Ma una parte del genere umano non può essere formattata e sincronizzata, e rimane ai margini del processo produttivo e del territorio privilegiato. I non-formattati-non-sincronizzati (che uno scrittore di fantascienza di cui non vi dirò il nome chiamava daisies, dall’inglese: de-synchronized) verranno progressivamente sterminati con gli strumenti della guerra, della fame, della sottomissione a ritmi di lavoro schiavistico impossibili per l’organismo umano e con altre tecniche di terminazione… Questo processo è l’orizzonte del secolo ventuno, e lo vediamo già chiaramente delineato nelle linee politiche del trumpismo e nell’azione tecno-totalitaria di cui Elon Musk è il perno. Una razza di maschi bianchi funzionalmente superiore ed emotivamente sterilizzati sta prendendo in mano le leve del potere tecnico, economico e militare. Nessuna forza politica può opporsi a questa presa di potere, per la semplice ragione che non si tratta di un processo politico, ma si tratta di una mutazione tecno-cognitiva. La mutazione cognitiva e il genocidio sono i due processi decisivi di questo passaggio. La mutazione cognitiva è realizzata attraverso la sottomissione della mente umana a una formattazione che mira a sincronizzare l’attività della mente al ritmo dell’automa. Inevitabilmente questo processo di mutazione comporta sofferenza. Si pensi a patologie come l’ADHD, o attention deficit disorder: non si tratta di una patologia, quanto un tentativo di adeguamento e di sincronizzazione della mente al ritmo diecimila volte accelerato dell’Infosfera. La coscienza etica e la sensibilità erotica sono residui dell’umanità pre-formattata che stanno rapidamente scomparendo nella generazione connettiva emergente. Un altro carattere emergente dei mutanti è la impercezione del dolore altrui, effetto della ininterrotta esposizione a flussi di stimolazione nervosa simulata per cui la mente tende a non distinguere più le simulazioni dagli organismi, e tende a considerare i corpi sofferenti come omini verdi del video game, che non soffrono e se muoiono possono sempre rialzarsi in piedi un attimo dopo. Questo è l’orizzonte del secolo ventuno, questa è la tendenza che si sta inarrestabilmente dispiegando. Il collasso climatico, il collasso geopolitico, il collasso sociale costituiscono l’ambiente ideale per questo processo di mutazione, formattazione ed eliminazione dei residui daisies. Ma c’è anche la possibilità (assai probabile) che l’intreccio di questi tre collassi produca l’estinzione definitiva del genere umano. In questo caso tutto quel che è umano verrebbe finalmente cancellato, e questo permetterebbe di realizzare l’ideale perfetto dell’Ordine Muskiano: l’illimitata riproduzione dell’automa in un territorio che è stato finalmente depurato di ogni elemento caotico e imprevedibile.

Ciò detto noi (disertori) sappiamo che l’imprevedibile non è ancora cancellato. Ma di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere.

 

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 5 gennaio 2025

L’immagine è di Chris and Ralph da pixabay

 

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L’economia dei soldi contro l’economia della natura

Foto di Antonio Citti

di Paolo Cacciari 

Norberto Bobbio diceva che “potere” è una parola “paravento”, perché nasconde molte diverse forme di esercizio del potere e di organizzazione dello stato, diversi modelli di “governance” – diremmo oggi – più o meno democratici, più o meno oligarchici, più o meno burocratizzati, più o meno comunitari. Il potere, infatti, viene esercitato attraverso una mistura di strutture e di strumenti di consenso e repressivi, simbolici e militari, economici e ideologici, consuetudinari e tecnologici. La posta in gioco del potere è il possesso di risorse naturali e umane tale da far valere la volontà di chi le gestisce.
È convinzione comune che nella società contemporanea il potere economico abbia via via assunto una posizione dominante su tutti gli altri ambiti della condizione umana. Assistiamo infatti alla subordinazione di tutte le sfere della vita – materiale e spirituale – al sistema economico. Attraverso il denaro l’economia ha catturato totalmente l’interesse delle persone, meritando assoluta obbedienza e religiosa venerazione. Di “dittatura dell’economia” ne parlò anche papa Bergoglio all’inizio del suo mandato (Papa Francesco, La dittatura dell’economia, a cura di Ugo Mattei, prefazione di Luigi Ciotti, Edizioni Gruppo Abele, 2020).

Economia vs politica
Il potere economico si è impadronito della sfera politica, qualunque sia la sua configurazione. Non mi riferisco solo al clientelismo, alla corruzione, al finanziamento delle campagne elettorali e al lobbismo – che pure hanno assunto una dimensione imbarazzante per gli stessi protagonisti; basti pensare a cosa sono diventate le campagne elettorali negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte suprema del 2010 che ha abolito ogni limite alle donazioni delle corporation a favore dei candidati (solo Musk ha speso più di 130 milioni di dollari nella campagna a favore di Trump) o al ruolo delle lobby nella UE dove operano 10 lobbisti accreditati per ogni parlamentare europeo. L’imperativo della crescita economica è stato introiettato dai partiti – sia da quelli conservatori che da quelli progressisti – come fine ultimo dell’agire politico. La pseudo competizione tra le forze politiche che si contendono il governo degli stati avviene per lo stesso obiettivo: far ottenere maggiori profitti alle imprese. Procedendo in tal modo i board (amministratori delegati, presidenti, consigli di amministrazione) delle compagnie più potenti sul mercato smettono di aver bisogno della mediazione politica, elaborano direttamente le policy e costituiscono le loro istituzioni finanziarie transnazionali (Fondo Internazionale Mondiale, Banca dei Regolamenti internazionale, ecc.), giuridiche (arbitrati), culturali (fondazioni filantropiche), di informazione (social), persino militari (Consiglio atlantico della Nato). Vedremo poi dove conduce l’errore di confondere la crescita del Pil con il bene comune e il benessere sociale.

Economia vs etica
Il potere economico esercitato attraverso il denaro si è impadronito anche della sfera etica e spirituale. Come ci hanno a suo tempo spiegato Max Weber e Walter Benjamin, l’economia è stata elevata a religione che professa il culto della crescita, officiato dagli economisti con i governanti nelle vesti di chierichetti. Il Bene è passato dalla Provvidenza alla “mano invisibile”, o – come si conviene nell’era tecnologica – al “pilota automatico” evocato dal banchiere Mario Draghi. Non è rimasto più nulla di sacro, di incommensurabile, di rispettabile in sé e per sé. Né l’umano, né il naturale.
L’economia di mercato sembra regolata da una legge sovrannaturale e si riproduce come per istinto, mossa dall’avidità, dall’egoismo, dall’interesse personale. A ciò fanno coerentemente seguito un’etica, una antropologia e persino una particolare psicologia. L’homo oeconomicus deve essere individualista, competitivo, virile, aggressivo, identitario, anaffettivo… ora anche patriottico, pronto, cioè, se non proprio ad impugnare le armi, a donare ai militari il 3 per cento, forse anche il 5% della ricchezza sociale.

Economia vs pace
Inutile dire che la sfera del potere economico è integrata nel “complesso militare-industriale”, come lo chiamava con timore uno che se ne intendeva, il generale Eisenhower, presidente degli Stati Uniti. Il connubio tra economia e militari funziona non solo in tempo di guerra – ci siamo vicini – ma “normalmente”. Non solo perché l’economia di guerra svolge una funzione “anticiclica” in periodi di scarsa accumulazione dei profitti (sembra che l’economia russa dopo tre anni di guerra stia andando a gonfie vele), non solo perché è dagli investimenti pubblici in armamenti che nascono le innovazioni tecnologiche che poi l’industria privata mette a frutto (“dualità” tra ricerca in campo militare e civile), ma perché la potenza militare è indispensabile per presidiare le sfere di influenza degli stati, i mercati di sbocco e le aree di approvvigionamento delle materie prime. Le guerre armate non sono altro che la prosecuzione delle guerre commerciali. L’idea illuministica secondo cui il libero commercio avrebbe avvicinato e pacificato i popoli si è rivelata nel suo opposto: una guerra economica generalizzata.

Economia vs saperi
Il potere economico è consustanziale alla scienza analitica-deduttiva galileiana, indispensabile per riuscire a trasformare la natura in un insieme di cose, di materiali e di energie da impiegare senza scrupoli nei cicli produttivi economici. Con Bacone e Cartesio l’ordine naturale si è rovesciato: sarà l’umano a dominare, assecondare, plasmare la natura. Le stupefacenti invenzioni che conosciamo nascono con una precisa intenzione e ubbidiscano ad un progetto predefinito di dominio utilitaristico ed “estrattivista”, diciamo oggi. Qualsiasi dispositivo tecnologico di cui ci siamo dotati è un prodotto socialmente determinato e cristallizza nel proprio disegno i valori e le visioni del mondo di chi l’ha pensato, creato e prodotto. Non tutti i ritrovati tecnologici possono essere usati a fin di bene; pensiamo all’energia nucleare. A chi crede che una lama sia solo una lama, ditegli di provate a sbucciare una mela con una scimitarra, o di uccidere una persona con un coltello da tavola.

Economia vs comunità
Vi è poi un’altra sfera di potere “derivato”, ma molto influente nella vita super-organizzata di tutti i giorni, quello amministrativo e giudiziario. Fino a qualche tempo fa questi poteri godevano di un’aura di indipendenza e neutralità costituzionalmente riconosciuta. Nelle teorie della pubblica amministrazione i “public services” sono i servitori dello Stato che devono limitarsi ad applicare leggi e regolamenti. In realtà i margini di autonomia nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme sono molto ampi. Con l’arretramento del ruolo delle assemblee elettive, l’uso dello spooling system e delle “porte girevoli” dei funzionari tra settore pubblico e privato, la sfera burocratica ha acquisito una crescente rilevanza. Inutile dire che la loro principale funzione è garantire la preservazione dei business as usual.

Economia, cioè crescita quindi benessere e democrazia?
Domandiamoci allora quali sono i motivi per cui la sfera economica è riuscita a prevalere su ogni altra dimensione del vivere umano e del vivente tutto. A mio avviso perché i più potenti agenti economici (coloro che posseggono i principali mezzi di produzione e di scambio e, quindi, di comunicazione) sono riusciti a far passare nella opinione comune due assiomi, due postulati che vengono presentati e assunti come verità evidenti in sé stesse. Il primo: la crescita economica aumenta la disponibilità di beni e servizi, quindi, migliora la vita e porta benessere. Il secondo: nel sistema economico di libero mercato la competizione avviene alla pari; quindi, colui che riesce ad offrire prodotti più convenienti agisce nell’interesse di tutti (Thomas Hobbes), pertanto merita di ottenere ciò che vuole. In forza della teoria dei vasi comunicanti, o della marea che sale nel porto e solleva tutte le imbarcazioni, o del tricky-down-effect, gli imprenditori capitalisti sono convinti che ciò che è utile a sé stessi sia utile a tutta l’umanità. Insinuare un dubbio in questa consolidata narrazione è faticoso e impopolare, poiché è tristemente vero che in questa società governata dal mercato solo chi possiede il denaro necessario può sperare di soddisfare le sue esigenze.
Il tema allora è: chi e a quali costi sociali e ambientali può permettersi di ottenere ciò che desidera? Sostenibilità ecologica e giustizia sociale sono compatibili con le logiche dell’arricchimento personale?

Il denaro da mezzo a fine
In una società dominata dall’ordine di mercato (market system) ogni cosa dipende ed è connotata dal denaro. Il valore che attribuiamo al nostro lavoro, il valore delle cose che usiamo, il valore dei servizi pubblici a cui abbiamo accesso, il valore dei beni naturali… il valore di ogni cosa e ogni attività viene misurato, denominato e contabilizzato in valuta circolante. I frutti della terra, le attività che vengono svolte gratuitamente (pensiamo all’accudimento dei figli e delle persone non pienamente autosufficienti, alla presa in cura degli animali e delle piante, alla manutenzione delle proprie cose e del territorio) che non entrano nel circuito economico come merce perdono di visibilità e di considerazione sociale. In termini marxiani (e di tutte le teorie economiche classiche) ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d’uso dei beni e dei servizi utili al vivere degli esseri umani. Per un economista, al pari di un commercialista e di un contabile, una attività che non genera denaro è priva di senso. Vedremo poi dove sta l’errore.

Mercificazione e mercatizzazione
Diciamo che le cose stanno ancora peggio di così: il sistema di mercato per continuare ad espandersi ha bisogno di alimentarsi in continuazione annettendo tutto ciò che gli è attorno. Pensiamo ai cicli naturali dell’acqua, del clima, della fotosintesi clorofilliana, del cloro e del fosforo e così via. Ma pensiamo semplicemente agli oceani e allo spazio che stanno per essere intensamente colonizzati con i satelliti e con la geoingegneria. Passando dal macro al micro, pensiamo alla manipolazione genetica con la relativa brevettizzazione dei genomi. Passando dal materiale alla sfera delle relazioni sentimentali, pensiamo alle attività di cura personale tradizionalmente svolte in ambiti familiari, amicali e comunitari ed ora sempre più sussunti da imprese for profit assistenziali, sociosanitarie, educative, ecc.
Siamo già entrati nell’era distopica del post umano; l’azienda Neuralink di neurotecnologie di Mask ha chiesto l’autorizzazione per impiantare interfacce neurali (chip) nei cervelli delle persone. Siatene certi che nei laboratori ciò è già avvenuto con gli animali. Con l’editing genetico (tecnologia Crispr-Ca59 sperimentata in larga scala con i vaccini anti Covid) è già possibile sintetizzare un embrione (di topo) senza utilizzare spermatozoi e cellule uovo, partendo da cellule staminali. I pseudo embrioni sono già tra noi.

Denaro è potere
Forse è sempre stato così, fin dall’origine della divisione sociale del lavoro, dalla costruzione delle città, dalla fondazione dei regni e degli stati. Ma è certo che il sistema economico turbocapitalista neoliberale ha condizionato a tal punto la sostanza umana e naturale da ridurla a mero fattore di produzione: stock e flussi. Degradati a “capitale umano” e a “servizi ecosistemici” gli esseri viventi vengono incorporati come “risorse” nei cicli di valorizzazione dei capitali investiti. Tutto ciò che non diventa merce vendibile sparisce dall’ordine sociale e sembra non interessare la sfera delle relazioni pubbliche. Il capitalismo ragiona così, sulla base del calcolo della remunerazione degli investimenti, cioè della massimizzazione dei ricavi e dei profitti: payback e dividendi. L’economia nel capitalismo è: rendimenti alti e costi bassi. Il capitalismo è fatto di denaro, non ha anima e nemmeno ragionevolezza. Scrisse il padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti (1897 – 1989), dopo una lunga permanenza alla Olivetti di Ivrea: “La produzione industriale è qualche cosa di insaziabile. Non ci sono limiti: chi è preso dalla febbre del produrre trova sempre qualche cosa di nuovo da fabbricare.” (Io e le macchine, supplemento al n.6 di Genius, i mensili dell’Espresso, 1984).

Due “inconvenienti”
L’“economia dei soldi” (come la chiamava Giorgio Nebbia), il capitalismo, ha due caratteristiche congenite: la centralizzazione della ricchezza e la distruzione della natura.
Il dibattito in corso da più di due secoli negli ambienti più sensibili ai temi della giustizia sociale e della conservazione dell’ambiente naturale verte sul fatto se il sistema sociale capitalista sia o meno riformabile. I tentativi fin qui realizzati nel corso della storia in varie parti del mondo nel cercare di regolare la crescita economica in modo da incanalarla all’interno di obiettivi di equità e sostenibilità hanno dato esiti insoddisfacenti. Solo in alcune parti fortunate dell’enclave ricca del Nord globale, in alcune fasi storiche e a favore solo di alcune fasce sciali è stato raggiunto un livello di reddito e di benessere accettabile, mentre nel resto del mondo il modello di sviluppo industriale ha comportato tremendi squilibri sociali ed enormi devastazioni naturali. Non lasciamoci ingannare dalle bugie statistiche: misurare il benessere in “uno-virgola dollari/giorno” significa imporre un parametro universale neocoloniale ad ogni forma di civiltà diversa da quella mercantile.
La regolamentazione del mercato per via politica nel tentativo di correggerne i “fallimenti”, attenuare le più odiose “distorsioni” e mitigare gli impatti indesiderati (altrimenti definiti nei manuali di economia “esternalità negative”) hanno comportato vari compromessi tra gli interessi delle parti sociali in conflitto, ma non hanno impedito la progressiva e sempre più rapida erosione delle basi materiali della vita sulla Terra e l’accentramento della ricchezza accumulata.

Squilibri distributivi
Il sistema di mercato è forse capace di autoregolarsi sulla base di un’infinità di transazioni economiche effettuate da liberi cittadini che agiscono nel proprio interesse, ma è certo che il risultato finale non è affatto né anonimo, né impersonale. Il gioco non è alla pari e non determina un risultato “win-win”. Ogni “vincita” provoca un mare di sofferenze, crea una folla di “naufraghi dello sviluppo” (Serge Latouche), produce gerarchie di classe, di genere, di razza.
Il potere economico è esercitato da persone in carne ed ossa che agiscono secondo precisi progetti, plasmando modi di produzione, relazioni sociali, sistemi organizzativi e distributivi, influenzando stili di vita e di consumo, istituendo determinate forme di governance. Siamo giunti alla situazione inaudita in cui esistono 58 persone fisiche multimiliardarie che possiedono circa metà della ricchezza globale. I primi 10 maggiori Fondi di investimento (i “titani” della finanza) controllano 50 mila miliardi di dollari, pari alla metà del Pil mondiale. Nei loro Consigli di amministrazione siedono in tutto 117 signori. Poche conglomerate controllano la maggioranza degli scambi transnazionali.
Invece di scandalizzare, i dati che regolarmente pubblicano Oxfam e altri osservatori (vedi il Global Wealth Report della banca svizzera UBS) sulle ricchezze smisurate accumulate dai super-ricchi affascinano l’opinione pubblica. Ciò ci dà il senso di quanto in profondità sia penetrata nella cultura contemporanea l’ideologia dell’arricchimento.

Impatti antropogenici
Il secondo “difetto” del sistema economico di libero mercato riguarda l’uso spropositato delle “risorse” naturali. L’“economia dei soldi” entra in conflitto con l’“economia della natura” – per usare la metafora creata da Ernst Heinrich Haeckel (1834 – 1919) per far capire cos’è l’ecologia, ossia la scienza sistemica che studia i rapporti complessi tra organismi viventi e ambiente. Come noto, le crescenti pressioni ambientali generate dall’industrializzazione stanno provocando, con inaudita accelerazione, la riduzione degli spazi vitali necessari per la riproduzione delle specie animali e vegetali. La biofisica del pianeta sta mutando. Così come la composizione chimica dell’atmosfera (la concentrazione media di anidride carbonica è simile a quella esistente nel Pliocene, tre milioni di anni fa) e il ph degli oceani. L’estrazione mineraria è raddoppiata negli ultimi 20 anni. La massa antropogenica (l’accumulo di infrastrutture, macchinari, oggetti) supera in peso la biomassa vegetale globale. Conseguentemente emissioni, scorie e rifiuti saturano la superficie terracquea. Il “metabolismo naturale” della biosfera non è più in grado di rigenerare la materia utilizzata. Tre/quarti della superficie terrestre è pesantemente compromessa. La spoliazione, il saccheggio, lo “stupro” della Terra, in termini scientifici, si definisce ecocidio.
Inutile dire che le responsabilità, in un mondo disuguale, non sono equamente distribuite tra gli abitanti della Terra. Basti pensare che l’1% della popolazione più ricca emette il 66% dei gas climalteranti

Perché il sistema economico di mercato è irriformabile
Il sistema di mercato dominato dal denaro è irriformabile rimanendo all’interno delle sue regole di base. I fallimenti fin qui riscontrati dalle politiche sociali ed ambientali volte alla sostenibilità e all’equità, almeno da quando le evidenze scientifiche hanno dimostrato l’andamento esponenziale del trend della crescita economica (diciamo, per convenzione, dal rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo e dalla prima conferenza Onu sullo sviluppo umano, Stoccolma,1972), derivano dalla accettazione della stessa logica di fondo che sovraintende la crescita. Il procedimento usato dai decisori politici per impostare le azioni di correzione, mitigazione e adattamento del sistema socioeconomico (il punto più alto e organico della infinita serie di dichiarazioni, convenzioni, protocolli fin qui approvati è stato raggiunto con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, varata in sede Onu nel 2015, e poi con la strategia della Just Transition della Commissione Europea del 2019) è elementare: per invogliare le imprese a ristrutturare il proprio apparato produttivo (uscire dai fossili, ad esempio, e aumentare le quote di utili da destinate al fattore lavoro, occupazione e salari) è necessario offrire a loro delle opportunità economicamente più convenienti. Ciò significa creare nuovi mercati profittevoli, nuove domande di beni e di servizi, nuova crescita. La crescita tramite accumulazione di capitali da reinvestire (e remunerare) rimane la precondizione delle politiche riformiste sociali e ambientali di stampo keynesiano. Ed è qui che si forma il cortocircuito, come l’eterno ritorno alla casella iniziale nel gioco dell’oca: non esiste un aumento del Pil che non comporti un aumento dell’energia e delle materie impegnate nei cicli produttivi, distributivi e di consumo, da una parte e/o la diminuzione dei costi di produzione dall’altra. Non esiste un Pil smaterializzato, “angelizzato” (la battuta è di Herman Daly) che non si porti con sé un aumento del “consumo di natura” e una intensificazione dello sfruttamento del lavoro umano. La formula magica del “decoupling” assoluto è una chimera.
Il sistema di mercato ha un difetto di fabbricazione, un “baco” congenito: non ammette limitazioni alla sua crescita, si crede esterno alla natura, non vede che a breve termine e si illude della inesauribilità del mondo materiale.

Le false soluzioni della crescita verde
Per tentare di aggirare l’ostacolo ed evitare di prendere in considerazione l’unica soluzione che sarebbe davvero efficace – la diminuzione diretta e netta del flusso di materie e di energie impiegate nei cicli economici – è stata tentata la strada delle compensazioni. Tanto prelevo e inquino, tanto pago/investo per rigenerare e disinquinare. A prima vista sembra una soluzione ragionevole. A tal fine (dal Protocollo di Kyoto,1997, per far fronte alla “emergenza” climatica) è stata inventata una serie di complessi meccanismi di mercato per disincentivare le imprese ad emettere CO2 e gas simili imponendo dei prezzi (carbon pricing) sotto forma di autorizzazioni e tasse (Cap end Trade). I ricavati avrebbero dovuto finanziare gli interventi di mitigazione e rigenerazione. Ancora una volta mercato e tecnologie sono stati chiamati a risolvere i problemi da essi stessi generati, con soluzioni “in house”. Tale meccanismo è stato proposto anche nelle Convenzioni per la conservazione della biodiversità.
Peccato che alla base del principio della compensazione ci sia un errore ontologico: gli ecosistemi e i cicli ecologici non sono valutabili in denaro, non sono inscrivibili in un semplice foglio di calcolo costi/benefici, poiché non tutta l’energia è rinnovabile, non tutti i nuovi materiali di sintesi che vengono immessi sono biodegradabili, quasi mai i tempi di metabolizzazione e assorbimento degli inquinati sono compatibili con i tempi di ritorno degli investimenti degli impianti industriali che li hanno prodotti e, pertanto, i loro “costi” non sono attualizzabili. “Balene, elefanti, torbiere, aria pura: pochissimo è sfuggito allo sguardo rapace dei contabili”, ha scritto Adrienne Buller (Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde, add editore, 2024).

Prendersi cura
Non potranno mai emergere delle green technologies, una green economy, una transizione ecologica che non siano guidate dalla volontà di instaurare una green and just society. Senza una intenzionalità e un progetto politico trasformativo del sistema economico oggi prevalente nel mondo sarà impossibile rientrare nei limiti della sostenibilità ecologica e della sopportabilità sociale.
Per uscire dalla “dittatura economica”, per riuscire ad espellere il denaro dalla vita, è necessario rovesciare come un calzino il significato e il senso dell’agire economico (oikos). L’economia deve essere intesa come null’altro che l’insieme delle attività di presa in cura della riproduzione della vita. Su questa linea hanno scritto un gran numero di studiose ecofemministe e studiosi di economia ecologica e della decrescita. Cito qui un autore controverso, Hans Immler, che a me pare particolarmente efficace: “Se sotto il termine economia viene intesa la formazione razionale dei rapporti materiali di una società, cioè la concreta determinazione produzione e riproduzione, crescita e sviluppo, distribuzione e consumo, ecc., allora natura e lavoro non sono il mezzo nella produzione sociale, bensì anche e soprattutto il fine e il risultato di ogni modo di produzione. Ma ciò significa che il processo di natura come unità di lavoro umano e natura esterna deve essere punto di partenza e fine di ogni economia” (Hans Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica, Introduzione di Piero Bevilacqua, Donzelli, 1993). In definitiva si torna a Karl Polanyi: l’economia va reincorporata nella società che a sua volta dipende dalla “economia della natura”.
Un percorso di acquisizione di consapevolezza delle interrelazioni e interdipendenze che intrecciano ogni specie vivente, compresa quella umana.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 4 gennaio 2025

 

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