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ORE DICIOTTO


di Sergio Tardetti

La campana della Chiesa Madre ha un suono più allegro del solito stasera. La gente del piccolo borgo è accorsa a frotte, vestita degli abiti migliori, come se andasse ad una festa. E festa sarà davvero, sempre che i protagonisti si decidano ad arrivare. L’attesa è iniziata ormai da più di un’ora, e un’altra ancora manca all’istante in cui l’evento, così tanto a lungo evocato, accadrà, finalmente. Giorni e giorni, ore e ore di preparativi, di prove, di correzioni di piccoli impercettibili errori, che solo ai protagonisti sono apparsi tali al momento. E, finalmente, il visto, il si proceda, l’imprimatur sono stati concessi da entrambe le parti, dai numerosi e non sempre richiesti supervisori, che hanno voluto dire la loro in merito all’evento, alle sue dinamiche e alle sue varie fasi. Sono intervenute, innanzi tutto, le madri, future consuocere, sempre in lizza per definire la supremazia del rispettivo figlio o figlia nella gerarchia familiare, considerando come sempre in queste situazioni il loro parere “vincolante”, una condizione – anzi, una serie di condizioni – senza la quale – e senza le quali. Insomma, basta, va da sé, ci siamo capiti. Chi non si è capito sono state proprio loro, le amiche-rivali, che si sono fronteggiate per giorni e giorni, a volte per settimane e mesi, una volta rese edotte della tanto attesa notizia – Ci sposiamo! – a colpi di “questo sì, quest’altro no, questo forse, quest’altro è impossibile!”. Fino allo sfinimento, fino alla necessaria discesa in campo dei consorti, che, fino a quel momento, avevano osservato dall’alto della loro esperienza l’evoluzione delle schermaglie, sfociate infine in aperti combattimenti, tra le di loro coniugi.

Ad imporre per primo la tregua – armata, ma pur sempre tregua – era stato il signor Orlando, che aveva tuonato un baritonale “Adesso basta!”, alle ennesime rimostranze che la di lui legittima consorte, signora Franca, gli aveva sottoposto tra una portata e l’altra del pranzo domenicale. Assenti i “ragazzi”, strategicamente defilatisi per una sana boccata di aria marina, la signora Franca aveva potuto finalmente dare libero sfogo a tutta la sequela di ripicche con le quali, a suo dire, la futura consuocera l’aveva tormentata e torturata fino a quel momento, negandole persino la facoltà di esporre, civilmente s’intende, il suo parere in merito all’organizzazione dell’intera cerimonia. E dire che lei, la consuocera, si era permessa di dare consigli sul come disporre i posti a tavola al banchetto nuziale. E, sulla torta, aveva potuto dire qualcosa lei? Sulla torta, per mantenere la pace familiare, era stato opportuno tacere. Anche se. Anche se di parole da aggiungere al già detto la signora Franca ne avrebbe avute e ne aveva ancora, in abbondanza, perfino in sovrabbondanza. E tutte quelle parole, trattenute a stento, pro bono pacis, s’intende, le avevano provocato un mezzo travaso di bile che, insomma. Basta. “Basta” lo aveva detto anche il signor Orlando, sempre con quella bella voce baritonale impostata, perché lui cantava nel coro della chiesa, e peccato che nel giorno della cerimonia non avrebbe potuto farlo, impegnato ovviamente in tutt’altro ruolo. E lo aveva fatto notare, tutto questo, alla signora Franca, le aveva fatto notare a cosa avrebbe dovuto rinunciare anche lui nell’occasione.

E che, dunque, lei la smettesse di fare i capricci per una torta sulla quale avrebbero dovuto decidere, in fondo, soltanto gli sposi. Ed era stato allora che la signora Franca si era temporaneamente azzittita, ma dentro di sé continuava a ribollire come un vulcano prossimo all’eruzione. Ma, tornando a noi e al presente, un improvviso ondeggiare della folla, radunata sulla piccola piazza antistante la chiesa, segnala l’arrivo di qualcuno di importante ai fini della riuscita della cerimonia. Si tratta forse dello sposo? Impossibile, ancora troppo presto per poterne ammirare l’arrivo, la discesa dalla macchina condotta dal fidatissimo amico Gianriccardo, l’elegante ascesa dei pochi gradini che conducono al portone della chiesa, spalancato come deve essere nell’occasione. Il tutto in una salva di applausi e di auguri che sembrano rendere ancora più leggero ed elastico il passo dello sposo. A proposito, si chiama Andrea, lo sposo. Ma non è lui a destare l’interesse della folla, si tratta invece di una ragazza elegantissima – amica della sposa, prontamente riconosciuta come tale da alcuni e subito conosciuta e ammirata anche dal resto degli spettatori. Ma anche amica dello sposo, mormora qualcuno dei presenti, amica “particolare” spettegola qualcun altro, evidentemente bene informato, perché sono davvero in pochi a conoscere i dettagli di una breve relazione che ha tenuto legati Angelica – la nostra invitata in arrivo – e Andrea, come già detto, lo sposo. Le cose, però, finiscono sempre per andare come devono andare, mai come vorremmo che andassero, noi semplici spettatori di vicende nelle quali l’unico coinvolgimento avviene attraverso le decine di pareri non richiesti, che ci permettiamo di sottoporre alla attenzione di chi di dovere. Che poi, alla fin fine, decide sempre secondo la propria volontà, o almeno così dovrebbe accadere, di solito.

Così è stato, infatti, per Andrea, quando si è trovato a dover scegliere la futura compagna della sua vita, senza dare ascolto alle voci che lo avrebbero voluto vincolato per l’eternità ad Angelica. A risolvere la questione ci ha pensato Gianriccardo, che ha trovato campo libero per far conoscere ad Angelica le sue intenzioni – difatti si sposeranno di lì a un mese, al ritorno dal viaggio di nozze degli sposi del giorno. La vita è scontata? La vita è monotona? Chi può dirlo? Intanto, mentre tentiamo di sciogliere la serie ininterrotta di interrogativi che si propongono alla mente in questa situazione, sta facendo il suo ingresso nella piazza antistante la chiesa l’auto della sposa. La cerimonia vera e propria, a questo punto, può avere inizio e, difatti, già lo sposo ha raggiunto la sua postazione, già il padre della sposa è sceso dall’auto per aprire lo sportello alla propria figlia e darle il braccio. Un sorriso soddisfatto gli sta affiorando alle labbra, quel genere di sorriso che equivale a un “finalmente” rassicurante e consolante, ormai è fatta e adesso non si torna più indietro. Attento, adesso, a non inciampare su qualcuno dei cinque gradini che conducono all’ingresso vero e proprio della chiesa. Del resto, non sarebbe la prima volta che accadono episodi del genere, sicuramente non di buon auspicio per l’esito della cerimonia e del matrimonio nel suo complesso. Ricorda ancora, il padre della sposa, quando qualcosa di simile accadde in occasione del suo matrimonio, al padre della sposa di allora, sua attuale consorte, a suo suocero, insomma, e ci vollero settimane e mesi per assorbire i malumori legati a quell’insignificante incidente e a quel tanto di ridicolo che ne era conseguito.

Ma, ormai, è fatta, c’è solo da percorrere la navata e consegnare la sposa nelle mani dello sposo, mani un po’ sudaticce, per la verità, dopotutto l’emozione comincia a prendere il sopravvento. Intanto, le prime note della Marcia Nuziale si spandono nell’aria della chiesa, è il segnale, non convenuto ma universalmente riconosciuto, che dà inizio alla cerimonia.

© Sergio Tardetti 2025

L’immagine è Generata dall’IA Piaxbay

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Si può ancora pensare dopo Gaza? Bifo e la fine dell’umano


di coltrane59

Si può davvero ancora pensare dopo Gaza?
Pensare dopo Gaza è un saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, come indicato  nel sottotitolo del libro di Bifo uscito nel febbraio 2025 per la casa editrice indipendente Timeo.
Ultimamente recensire i libri di Bifo è veramente difficile ma proveremo a definire delle linee di lettura e di pensiero che si sforzano di capire, aprire varchi, indicare cosa vuol dire pensare oggi, dopo Gaza e dopo quel 1900 che sembrava, dopo Auschwitz e Hiroshima, dirci “mai più”…

La ferocia

Proprio dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, dopo i continui avvertimenti sui rischi di guerre, povertà, miserie culturali e falsi miti, dittature e tecnologie usate per uccidere, siamo di fronte, in quel cimitero spettrale a cielo aperto che è Gaza, al “ritorno della ferocia come unico regolatore degli scambi tra gli umani che segna il processo di estinzione della cosiddetta civiltà”, dove ogni forma di linguaggio e di spettacolo di tv, media, social diventa uno strumento di sterminio. La politica e la società diventano i grandi assenti di questa crisi epocale dove la stessa cultura ebraica tradisce se stessa e l’universalità della ragione umana e della democrazia falliscono qualsiasi tentativo di mediazione e di risoluzione del conflitto, o meglio del genocidio in corso. Perché in quelle bombe ci siamo anche noi, inermi e responsabili, occidentali, stati, istituzioni, colonialismo interminabile, Orientalismo pervasivo, tecno-capitalismo e neoliberismo sfrenato. Se tutto poi viene mediato dalla ferocia vuol dire che gli spazi della politica sono ormai vuoti gusci fini a se stessi.
Cosa fare di fronte a questa ferocia pervasiva? Disertare forse, cercare una pace senza condizioni, la rinuncia a vincere, l’alleanza tra le vittime…Ma in realtà siamo solo parte inerme e privilegiata di un Occidente che si sta sgretolando in maniera irreversibile: no, non abbiamo la forza di fermare questo genocidio inarrestabile.

Gaza è Auschwitz con le telecamere

Bifo è sicuro: “la differenza tra Auschwitz e Gaza sta nel carattere pubblico, orgogliosamente ostentato dell’Olocausto inflitto ai palestinesi” dove  l’orgia degli orrori su tv, computer e telefonini produce “una sorta di nichilismo visuale” che porta a una pericolosa assuefazione estetica dell’orrore.
Ricordando il libro Mille piani di Deleuze e Guattari, l’autore definisce il fascismo come una situazione in cui la guerra è dappertutto, in ogni nicchia e in ogni luogo: siamo nelle tenebre davvero: “un tecno fascismo che si manifesta biopoliticamente come sterminio illimitato”.

Basta con la memoria

La memoria non esiste più e non crea più resistenza, conoscenza, storia, intensità. Inoltre si tratta di una memoria bianca, occidentale, patriarcale che non ricorda le varie stragi del colonialismo e dell’imperialismo: per esempio la popolazione della più grande democrazia al mondo, che deve diventare di nuovo grande, ha nella sua pelle lo sterminio delle popolazioni indigene del Nord America. Inoltre non ci ricordiamo mai che non sono gli ebrei che hanno voluto tornare in Palestina ma “sono i nazisti europei che li hanno spinti ad andarsene, sono i sionisti che insieme agli inglesi hanno preparato la trappola in cui gli ebrei sono caduti: quella trappola si chiama Israele”. Allora per Bifo la vera lotta per allontanarsi dal potere è “liberazione dalla memoria, da tutte le memorie”.
L’odio, le barbarie, il nazionalismo, il fascismo, il sovranismo, le guerre in corso hanno la loro memoria e ne traggono linfa vitale ma la memoria è ingannevole e si può trasformare in rancore: “perciò la memoria può essere nemica dell’amicizia”.

Disintegrazione

Non esiste nessuna democrazia liberale e il potere dei vari Putin, Trump, Milei, intesi come tiranni, sono soltanto “la manifestazione politica (cioè spettacolare) del potere sempre più ineludibile del sistema finanziario e del sistema tecno militare”. Ma Bifo ci ricorda continuamente che se la differenza tra democrazia liberale e sovranismo è ormai vuota invece la disintegrazione è reale. E comunque le bande di mafiosi attuali che governano Israele e Usa non faranno altro che accelerare questa disintegrazione di ogni valore sociale, culturale, politico ed esistenziale della nostra civiltà.

Una nazione bagnata di sangue

Bifo ci ricorda anche che Paul Auster, prima di morire, scrive un libro fondamentale (Una nazione bagnata di sangue) per i suoi Stati Uniti: “Questo è un paese nato nella violenza, con 180 anni di preistoria vissuti in continuo stato di guerra con gli abitanti delle terre di cui ci siamo impossessati e continui atti di oppressione contro la nostra minoranza schiavizzata”.
Adesso, e non solo negli USA, ci sono guerre, gang, armi, sparatorie, psicosi di massa, complottismo, suicidi, depressioni, sonno dimenticato, gaming permanente, crescente antinatalismo, schiavismo digitale e molto altro ancora.
Bifo rincara la dose: “lo schiavismo fa parte del bagaglio psichico della nazione americana… come può questa nazione pretendere di essere considerata come un esempio per qualcun altro? E forse gli americani votano Trump proprio perché è uno stupratore e un bugiardo nella stessa misura gli Israeliani votano Netanyahu proprio perché pratica il genocidio…
Nel suo libro Franco Berardi analizza anche concetti come l’ipercolonialismo, inteso come estrattivismo delle risorse mentali attraverso l’unione micidiale del capitalismo finanziario con il capitalismo delle piattaforme digitali e come il darwinismo sociale, inteso come esaltazione del mercato e della competitività, cioè della capacità di adattarsi e di rispondere alle esigenze sociali.
Le pagine finali del testo rappresentano, quasi come un piccolo Urlo di Munch, un grido doloroso e un appello alla cultura, alla poesia, a ogni forma di movimenti e solidarietà possibili, a una sorta di diserzione permanente verso le forme e i caratteri brutali e feroci di questa società per cercare di evitare la terminazione della civiltà umana.
Sabato 12 aprile 2025, in una libreria di Castelnuovo Berardenga, la “Libreria del Mondo Offeso”, Bifo ha raccontato che, presentando il suo libro in varie parti d’Italia, esponendo le sue idee e le sue linee di pensiero, si è trovato di fronte a due tipi di reazioni: i suoi amici di un tempo, i vecchi compagni del 68 e del 77, i marxisti più o meno ortodossi si sono meravigliati del nichilismo di fondo e dell’appello a disertare di fronte a queste barbarie che ci avvolgono; ma le nuove generazioni invece non si sono stupiti di questo mondo feroce e barbarico, di questa crisi nella crisi, di queste depressioni e psicosi pervasive, di questo paesaggio disincantato privo di ideali politici e di sogni collettivi. Non vorrei aggiungere altro, ma bisogna sforzarsi di ripensare profondamente le possibilità a venire delle nostre vite per non poter più affermare che “la sospensione della procreazione è la sola speranza per evitare un futuro di tormento e di orrore”.

Per Gaza, oltre Gaza.


L’articolo è stato pubblicato su Codice Rosso il 26 Aprile 2025


Franco Beradi Bifo – Si può ancora pensare dopo Gaza? Bifo e la fine dell’umano. https://timeo.store/ 2025

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LA PERSEVERANZA DEL SANTO

Dalla quarta di copertina

Rimini. Nel caldo afoso del luglio 2012, l’ufficiale dei carabinieri Federico Santucci, noto come “il Santo”, si ritrova coinvolto in un’indagine per il ritrovamento di un corpo avvenuto in acqua, a poca distanza dalla spiaggia. E’ una ragazza e indossa solo il reggiseno. Mentre cerca di affrontare il dolore nella sua vita personale, segnata dal fallimento di una relazione importante, l’omicidio di Estella, una giovane donna in cerca di evasione e intrappolata in una spirale di dipendenza, cambia il corso della sua vita.
La storia si sviluppa tra eventi drammatici e ricordi dolorosi, rivelando i segreti e le ombre che si nascondono dietro la facciata di una città balneare. Con una narrazione avvincente, il romanzo esplora temi di perdita, redenzione e la lotta contro i propri demoni interiori.

Davide Grassi, avvocato penalista, scrittore e podcaster vive e lavora a Rimini.
Prima di questo thriller ha pubblicato nella veste di coautore il libro inchiesta San Marino SpA (Rubbettino 2013) e il romanzo Il braccio destro (Mursia, 2020).


Davide Grassi – La perseveranza del santo, Carlo Filippini Editore, 2024


Recensione di Davide Cardone


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CATASTROFISTI E POSSIBILISTI


di Sergio Tardetti

(Un eterno confronto tra chi si lascia trascinare dagli eventi e chi invece prova a fare qualcosa per cambiarli)
Da grande sarei voluto rimanere come da ragazzo, potenzialmente aperto ad ogni possibilità. Questo era, ed è rimasto tuttora, il mio più vivo desiderio. D’altra parte, tutto incoraggiava a poter mantenere questo atteggiamento positivo e propositivo, dalle parole di elogio pronunciate in ogni occasione dagli amici per il mio modo di condurmi, alle azioni compiute per mettere in pratica quello che era stato enunciato in teoria, fino agli attestati di stima e di solidarietà provenienti da ogni parte, per tutte le volte che mi mostravo disponibile al confronto con gli altri e con il futuro. Il mio possibilismo era universalmente conclamato, accompagnato ogni volta da riconoscimenti e apprezzamenti che mi invitavano a mantenere ben salda la rotta, senza deviarne minimamente, quasi fossi considerato unastella polare per la linea di condotta degli altri. Col passare del tempo, mi rendevo conto di quanta fatica cominciasse a costarmi mantenere quella rotta, continuare a rimanere possibilista, malgrado il duro quotidiano confronto con la realtà mi spingesse verso altre direzioni. Quello che accadeva intorno a me non faceva ben sperare chepotessi rimanere ancora a lungo su quella strada, ormai solo apparentemente tracciata, ma in realtà ancora tutta da tracciare. Intanto, però, i possibilisti che mi avevano accompagnato lungo quel cammino cominciavano a diradarsi, come foglie d’autunno, incalzati e sopraffatti dal turbine della realtà.
Man mano che i giorni passavano, mi accorgevo di essere sempre più isolato, perché molti avevano ceduto e si erano ritrovati a far parte della folla dei catastrofisti. “Come va?”, chiedevo di tanto in tanto a qualcuno. “Male, male! Va tutto male!”, era l’inevitabile risposta che mi giungeva. Quando, però, si trattava di entrare nei particolari, si finiva per scoprire che, infine, così male non stava andando, intanto perché, a differenza di altri che ci avevano accompagnato per un lungo tratto, noi eravamo ancora lì a poterci lamentare e a ricordare le figure e le vicende degli assenti. “Da quando mi stancai di cercare, cominciai a trovare”, mi ripetevo mentalmente come un mantra, e dovevo in effetti riconoscere che era vero. La catastrofe, nella maggior parte dei casi, nasceva proprio dalla furia della ricerca di un qualcosa che non si riusciva a trovare, pur investendo tempo e denaro, soprattutto denaro, in quella impresa. Denaro speso in serate trascorse a stordirsi con musica e alcool, sperando di riuscire ad osservare la realtà sotto un altro nuovo aspetto, oppure in lunghi ed estenuanti viaggi, per cercare di tenersi lontano da quella realtà che continuava a provocare in ciascuno un così pesante turbamento. Ogni volta che ci si riprendeva dallo stordimento o si rimetteva piede sul suolo natio, però, ritornava quella sensazione dolorosa di scoraggiamento, che continuava a far vedere un presente sconfortante e un futuro ancora più nero.
Passati i primi dieci minuti, in cui era ancora vivo e presente il disorientamento euforico, causato dal temporaneo cambiamento di stato o di luogo, ognuno riprendeva a lamentarsi della propria vita e di quel mondo che lo circondava. L’eco di quei “Male, male, va tutto male!” tornava a risuonare nell’aria come il lamento di una generazione moribonda e ormai senza più via di scampo. Che fare, a questo punto? Continuare lungo la stessa strada, sempre più soli e sempre più stanchi? O cominciare a pensare a qualche forma di cambiamento? Le litanie e i cori dei catastrofisti giungevano alle orecchie da ogni direzione, fino al punto da contagiare gli amici più stretti e persino i familiari. Quando, però, si trattava di scendere nei dettagli, specificando cos’era che andasse “Male, male, tutto male”, nessuno riusciva ad essere particolarmente preciso. Si trattava per lo più di sensazioni, forse anche del fatto che, con l’avanzare dell’età, certamente molti compagni di strada avevano cominciato a mancare, altri iniziavano a cedere, ma per il resto non c’era poi così tanto da lamentarsi. Alla fine, ci si era soltanto uniti al coro dei più, perché il ruolo del catastrofista è meno faticoso da sostenere. Al possibilista, invece, è sempre richiesto di indicare direzioni da prendere, mete da raggiungere, sapendo già egli stesso che raggiungerle sarà possibile, ma non sempre certo. A quel punto, quando la meta agognata e profetizzata non apparirà all’orizzonte, tornerà a levarsi il coro dei catastrofisti e quel “Male, male, va tutto male!” finirà per diventare l’enorme buco nero che inghiottirà al suo interno anche l’ultimo dei possibilisti.


© Sergio Tardetti 2025

Foto di Pete Linforth da Pixabay



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Peccati essenziali

di Cristina Formica

I Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato è un libro da regalarsi e da regalare, da tenere vicino per riflettere e cambiare. È un testo fatto per amarsi e per criticarsi, perché solo guardando in faccia la realtà, la propria persona e la società si può veramente migliorare e stare meglio. Pubblicato dalla piccola casa editrice femminista LE PLURALI, è un testo che descrive un mondo recente ma non solo vicino, uno sguardo necessario per offrirci qualcosa di migliore e da coltivare. I peccati necessari sono quelli che le donne e tutte le identità LGBTQ+ hanno diritto ad agire, almeno quelle che non vogliono essere, o non vogliono più essere, le serve del patriarcato e che perciò possono imparare ad abitare, ad agire, a scagliarsi contro l’imperativo imperante di un mondo al maschile becero, quello bianco ed eterosessuale, quello capitalista e colonialista, anche quello nero e musulmano che ha gli stessi tratti di quello cattolico integralista e repressivo. Il patriarcato è il patriarcato in qualunque parte del mondo agisca, e questo libro lo spiega molto bene.
Peccare fa essere anche felici: la Rabbia, l’Attenzione, l’Ambizione, la volgarità, il Potere, la Violenza e la Lussuria possono essere il modo di riappropriarsi di se stesse e di lottare, anche da sole, contro tutti i mulini a vento che il patriarcato vuole mantenere per opprimere le donne. I peccati sono tali perché rompono muri, aboliscono proibizioni, urlano forte e lontano, trovano altre che donne che Mona Eltahawy nomina e unisce, scrivendo di donne che si muovono in tutto il pianeta, soprattutto in quelle zone di cui la tradizione patriarcale, secondo l’ottica occidentale, le vuole sempre sottomesse perché impossibilitate a lottare, incapaci di combattere per i propri diritti. Proprio questo elenco, lunghissimo e dettagliato, delle donne che lottano in Africa, nel Maghreb da cui l’autrice proviene, nel Medio Oriente e in tutta l’Asia, coniuga serenamente le lotte femministe nordamericane e australiane, quelle europee e sudamericane. Il rendere e pubblicizzare quello che le donne fanno in tutto il mondo non attenua la rabbia, ma la rende più forte per essere maggiormente potente, per essere insieme e non disperate, nonostante tutto, nonostante le sconfitte, l’umiliazione, la prigione e l’essere uccise, spesso non è solo un rischio di subire violenza: ma è proprio la rabbia che permette di affrontare la violenza subita.
Mona Eltahawy è una donna di più di 50 anni, è nata in Egitto e con la sua famiglia si è trasferita in Inghilterra e in Arabia Saudita; ha poi scelto di essere statunitense, dove si è trasferita nei primi anni del duemila e ha preso la cittadinanza, unendo i punti della sua vita e continuando a essere una giornalista e scrittrice importante, che gira il mondo con i capelli rosso fuoco; Mona è voluta diventare una femminista nota in tutto il mondo, come racconta di sé, per agitare le donne in ogni posto che va. Più di un anno fa era anche alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, dove arringava la folla, quasi solo di donne, non cedendo mai l’entusiasmo e la voglia di porsi avanti e guardare avanti. La scrittrice non nasconde mai la sua storia, parte fondamentale dei suoi cambiamenti e che hanno spesso rotto quegli equilibri ipocriti che nascondono le donne sotto, funzionali alla società degli uomini e anche delle donne: ci sono anche quelle, che Eltahawy definisce operaie del patriarcato, che mantengono e contribuiscono a mantenere l’oppressione delle donne, tutte le altre donne che non hanno raggiunto alcuna posizione ragguardevole per poter agire liberamente il loro essere. Non c’è carica politica, economica e sociale che tenga, anche se si arriva a una posizione “invidiabile” come donna bisogna saper mantenere uno sguardo che vada oltre sé e parli anche alle altre che non ce la fanno a realizzarsi, in molte situazioni a vivere dignitosamente proprio perché donne. Non esiste nessuna carica che possa effettivamente riuscire a cambiare il patriarcato se si agisce come un uomo, ne è un esempio perfetto Giorgia Meloni che infatti si definisce al maschile, contribuendo ad una visione del potere che è sempre e solo degli uomini. E come lei, le diverse donne nominate dalla prima presidenza di Trump, di cui l’autrice ricorda come non sia né sia mai stato dalla parte delle donne, lui che è accusato di violenza sessuale e che ha nominato Gina Haspel a capo della CIA nel 2018, una donna funzionale al patriarcato e che ha partecipato direttamente a sessioni di tortura di sospetti terroristi, distruggendone poi la documentazione di prova, atti orrendi per cui è stata accusata di crimini di guerra.
Molte sono le storie che Eltahawy racconta, a partire dalle molestie e violenze che ha subito e che l’hanno incoraggiata a combattere la violenza contro le donne in ogni posto in cui ha vissuto. Poi, ci sono le storie degli stupri etnici in Bosnia e in Rwanda, di cui nessuno vuole mantenere memoria. Ed ancora le storie delle donne indiane che lottano per andare nei templi nonostante le mestruazioni, periodo naturale che impedisce alle donne la preghiera, come se qualsiasi dio sia meno disposto ad essere riverito se lo fa una donna con il mestruo; la stessa lotta è stata fatta dalle donne musulmane di New York, che subiscono la stessa limitazione. Ma d’altronde, anche in Italia, fino a non molto tempo fa, si diceva che se una donna aveva le mestruazioni non doveva impastare il pane e fare tutta una serie di cose perché il sangue avrebbe influito negativamente. E poi l’autrice parla delle donne elette al parlamento statunitense nel 2018, quando sono state nominate anche figure fuori dalla casta politica come Ilham Omar, una donna di origine somala che ha continuato a portare il velo anche nell’emiciclo di Washington; oppure Alexandria Ocasio-Cortez, eletta dai sobborghi newyorkesi perché anche lei si era dovuta districare in una vita complicata, essendo di origine portoricana, povera e a rischio di perdere la casa. Donne che il potere non ha sostenuto, ma la gente sì, anche per questo sono espressione contraria del patriarcato che, di nuovo, Trump rappresenta e non solo lui purtroppo.
Così come il racconto delle lotte in tante nazioni africane per i diritti delle donne, delle persone gay, lesbiche e trans: in diversi stati infatti si rischia la prigione e la morte se non si è eterosessuali, o se si attacca un leader uomo che governa anche rispetto al fatto che le donne si vedono negare i propri diritti umani, tutti i giorni della loro vita, perché sono donne.
Un libro che esprime il bisogno di essere ribelli, di essere libere e liberi perché questo è il destino necessario per una vita ricca e realizzata. A seguire il potere (patriarcale) si rimane sempre sotto un sistema che forse individualmente salva, ma è un destino solitario, senza sbocchi se non quelli che qualcun altro vuole darti oppure, da un momento a un altro, toglierti. Un libro che non vuole assolutamente trovare una soluzione pacifica, ma che anzi sobilla ed agita perché è questo l’unico modo di cambiare ciò che non ci piace; Mona Eltahawy ci è riuscita, approfittando delle possibilità che ha avuto e mostrandosi sempre in prima linea, consapevole che la sua posizione di notorietà l’avrebbe protetta: ma soprattutto ha protetto altre donne, e su questo indica una strada che è ancora tutta da percorrere, perché realmente possiamo costruire quanto di meglio per noi se, e solo se, consideriamo anche le altre persone, anche se non sono come noi, anche se non vogliono essere come noi.
Alla fine, leggendo questo libro, rimane un confine molto più ampio da varcare, un coraggio più grande, un pensiero più forte, è proprio un libro di forza e ne abbiamo, mai come ora, assolutamente bisogno.

Mona Eltahawy – I Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato. LE PLURALI Editrice

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 9 febbraio 2025




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