Lettura

DOMENICA

di Sergio Tardetti

Potrebbe sembrare un giorno qualunque, se non fosse per la pretesa di volersi divertire ad ogni costo. Sole o pioggia, estate o inverno, la domenica è fatta così, per divertirsi. Finita la semplice intenzione di riposare, si va a cercare intorno una qualunque occasione di svago, vera o presunta che sia. Partono le carovane di auto che si snodano in lunghe code su per i tornanti montani, che si accavallano a grandi ondate sulle autostrade e superstrade dirette al mare, che si spandono a grandi macchie roventi nei parcheggi, consentiti e non, dislocati intorno alle località dove tutti vanno, appunto, per divertirsi. A questo punto verrebbe da pensare che ormai il più sia fatto e che, dopo tanto strazio e sudore, la vita finalmente possa diventare davvero un divertimento. L’illusione, però, dura al massimo un paio di minuti, il tempo di scendere dall’auto, guardarsi intorno e cominciare a cercare. Cosa si cerca? Via, lo sappiamo tutti! Un posto tranquillo, per riposarsi dalle fatiche del viaggio e illudersi di essere arrivati fuori dal mondo. Invece, sembra che tutto il mondo si sia dato appuntamento proprio qui, perché la gente sembra preferire lo stare in mezzo ad altra gente piuttosto che da sola. Da soli cosa si può fare, se non si è abituati alla solitudine? Così, per evitare di essere assaliti da quel nodo alla gola che alcuni chiamano tristezza, altri invece ansia, si preferisce tornare ad imprecare per l’impossibilità di trovare un parcheggio, per la difficoltà di sedere a tavola per un pasto di qualunque genere, per l’eccessivo chiasso che fa tutta quella gente che, non si sa bene per quale motivo, ha deciso di venirti dietro in quell’unico posto tranquillo che frequentavi da quando eri bambino. Dimenticando, però, che quando tu eri bambino, tutta quella gente non poteva arrivare fino a lì, a quel posto segreto e nascosto che solo tu e pochi altri conoscevate. Adesso non ci sono più posti segreti e tranquilli, nemmeno in cima alle montagne del Nepal, perché tutti vogliono andarci, anche chi non può o non potrebbe. Dove sono andate a finire quelle belle domeniche d’ozio? Sdraiati sull’erba tenera di un prato, o su un asciugamano appena umido, steso sulla sabbia rovente, ce ne stavamo immobili, a volte anche per ore intere, a osservare le nuvole che si fermavano sopra di noi, come a volerci osservare a loro volta. E quel loro continuo mutare di forme, quanto ci affascinava? Da bambini giocavamo a dare un nome a quelle forme, e ridevamo ogni volta che qualcuno di noi trovava un nome strano per qualche strana nuvola. Oggi, chi si ferma più a guardare il cielo? Sta lì da così tanto tempo che sembra scontato che continui a rimanerci e che lo troveremo identico anche il giorno dopo, e due giorni dopo, e chissà ancora per quanto. Almeno la domenica servisse a questo, a riappacificarsi con l’universo! Macché, niente di tutto questo. Impegnati come siamo a guardare dove mettere i piedi, continuiamo a fissare la terra, lasciando al cielo il suo unico compito, quello di esserci. Poi, ad un tratto, quasi senza preavviso, il cielo comincia a scurirsi, l’aria si fa più fresca, perfino più fredda, e così tutti, ma proprio tutti, decidiamo di risalire nelle nostre auto e, dopo esserci finalmente districati dal groviglio del traffico, riprendiamo la strada verso casa, provando a capire nel frattempo se, almeno quel giorno, ci siamo veramente divertiti. Perché domani è lunedì.

© Sergio Tardetti 2023

Foto di Nile da Pixabay

UNA MATTINA QUALUNQUE

di Sergio Tardetti

Capita, una mattina qualunque, di guardarsi intorno e immaginare come sarà il mondo, quando. E’ su questo “quando” che indugia sovente il pensiero, proponendo ipotesi e situazioni che a volte non includono la necessità della nostra presenza, piuttosto tendono ad escluderla. Nei quando atemporali c’è sempre modo di collocare tutto e tutti, ad esclusione di noi stessi, perché i “quando” contemplano giorni piuttosto lontani dall’oggi. Sterile esercizio, direbbe qualcuno particolarmente materialista, come lo definisco io, oppure particolarmente animato da senso pratico, come si definirebbe lui. Il fatto è che immaginare è uno degli esercizi mentali che preferisco e che in questi tempi sembra piuttosto accantonato. Credo di averlo fatto da sempre, fin da bambino, come quasi certamente la stragrande maggioranza dei miei coetanei, ancora completamente all’oscuro delle costrizioni a cui ci avrebbe sottoposto, in un futuro non troppo remoto, la cosiddetta educazione. Questa parola, dai molteplici significati e sfumature, finiva sempre per coincidere con l’altra più temuta “istruzione”, capace senza dubbio di fornire gli strumenti per trasformare le cose immaginate in segni sulla carta e dare loro quella fisicità che, a parere di alcuni, avrebbe dovuto eternarle. A volte le cose immaginate si trasformavano in pensieri piuttosto che in oggetti, non sempre il desiderio attiene al possesso, a volte si incarna in qualcosa di non apprezzabile in senso stretto.
Così, in una mattina qualunque, ci si ferma a fantasticare, non troppo a lungo perché il tempo, come dicono quelli che prezzano tutto, è denaro e senza denaro non puoi comprare il tempo. La durata dell’operazione è anch’essa una durata qualunque, conseguenza della notevole diversità esistente, per nostra fortuna, tra le persone che popolano questa terra. E in qualche modo, dipende anche dal valore – e non dal prezzo – che le attribuiamo. E questo valore aumenta notevolmente tra le persone che non danno importanza al prezzo, non già perché siano ricche di loro, ma perché considerano il denaro una necessità, ma non un dovere. In quanto necessità, il denaro occorre per la vita quotidiana, ma c’è chi è convinto che lo scopo della vita non sia accumulare denaro, quindi non fare del denaro un dovere. Strano, vero? Eppure, ne conosco di persone che limitano il possesso di denaro a quanto basta per vivere con dignità, senza essere costretti a mendicare per poter disporre della soddisfazione almeno dei bisogni primari. Una mattina qualunque, capiterà a ciascuno di noi di dover riflettere in pochissimi istanti sul senso del nostro passaggio su questa terra e su cosa avremo lasciato e staremo lasciando in quel momento. Se lasceremo volti sorridenti e pensieri felici, allora saremo riusciti a sfuggire al dovere del denaro.
© Sergio Tardetti 2023

NEL FOLTO DELLE RIGHE

Considerazioni su un’opera di Aldo Merce “Non leggete tra le righe – meta esercizio di lettura”

di Sergio Tardetti

Ci fu un tempo in cui l’invito a leggere tra le righe veniva raccolto da pochi sceltissimi studiosi, che passavano ore e ore del proprio preziosissimo tempo per individuare in quel candido lucore significanti che fossero eventualmente sfuggiti a una prima lettura. Salvo poi scoprire che tra le righe c’era solo il bianco della pagina che fa da spazio tra una riga e un’altra.

Col tempo i pasdaran della lettura tra le righe hanno reiterato e potenziato i loro appelli, diventando via via sempre più insistenti e minacciosi, imponendo così il loro punto di vista, secondo il quale tra le righe c’era da scoprire molto di più che nelle singole righe. Così, tanto per compensare in qualche modo il tempo perso in questa sterile operazione, molti studiosi cominciarono a raccontare e a scrivere di apparizioni miracolose, scorte proprio lì dove l’ordine ricevuto e puntualmente eseguito non aveva poi dato i frutti sperati. Chi riuscì in questo modo a scoprire doppi e tripli significati ai significanti riportati nelle righe, qualcuno arrivò addirittura a individuare quadrupli significati.

Per puro spirito di emulazione, altri studiosi presero a cercare doppi e tripli sensi all’interno di quelli trovati dai loro colleghi, continuando questo genere di ricerche fino ai giorni nostri. Eppure, un modo di rompere questa catena, che rischiava di trascinarsi all’infinito, doveva pur esserci. E, in effetti, un modo c’è e ce lo dimostra Aldo Merce con la sua recentissima opera “Non leggete tra le righe – meta esercizio di lettura”. Il suo è un esplicito invito a desistere da quell’operazione – la lettura tra le righe, appunto – che, se condotta per troppo tempo e senza adeguati strumenti ottici – leggi occhiali – rischia di far perdere non solo il cervello ma anche la vista della gran parte degli studiosi. Se il problema è leggere tra le righe, ha pensato l’artista, allora una soluzione c’è: eliminare il “tra le righe”, lo spazio bianco che ormai da tempo viene lasciato, tradizionalmente per lunga abitudine, tra una riga e un’altra. Vedo già i tralerighisti agitarsi, li sento quasi gridare: impossibile! Impossibile, cosa? “Nihil difficile volenti” e nemmeno impossibile, basta volerlo. La soluzione? Scrivere le righe una attaccata all’altra, senza nessuno spazio in mezzo. Un’idea semplice, decisamente lapalissiana direi. E perché fino ad ora nessuno ci aveva pensato? Proprio perché i tralerighisti, il partito di chi proclama, impone, ordina la lettura tra le righe è potente, si è infiltrato in tutte le istituzioni e mai nessuno avrebbe osato opporsi ai loro diktat, votando una risoluzione che imponesse di annullare lo spazio tra le righe. Con evidente guadagno di spazio e risparmio di pagine, direi. E anche di tempo, perso da parte degli studiosi nei loro sterili tentativi di leggere tra le righe. Niente più “tra le righe”, nessuna tentazione di provare a leggervi lasciamo il “tra le righe” al suo destino. Lasciamo gli studiosi ad operazioni ben più fruttuose che non il leggere tra le righe, che ritornino finalmente al compito iniziale che si erano scelti, capire cosa c’è scritto nelle righe e ricercarne il significato, diffondere il verbo erga omnes. E’ bastato dunque il gesto anarchico di un artista, un moto di ribellione alle parole d’ordine, per far crollare un mondo che era rimasto in piedi inalterato per secoli. Le opere di Aldo Merce, artista capace di stimolare riflessioni su argomenti di solito considerati marginali da chi si occupa soltanto di “questioni importanti”, hanno sempre un alto contenuto di provocazione. Del resto, se così non fosse per un artista, la sua opera diverrebbe banale e scontata, cosa che non è certo proprio ciò che ci si attende dai veri artisti.
Quanto a me, lascio uno spazio bianco tra una riga e un’altra: legga tra le righe chi vuole e chi sa!

© Sergio Tardetti 2023

L’ARTICOLO

di Sergio Tardetti

Entri, entri, si accomodi. Se l’ho mandata a chiamare? Certo che l’ho mandata a chiamare, caro Sismondi, altrimenti perché lei sarebbe qui? Non glielo hanno detto? In effetti, non lo ho detto neanche io a chi ho mandato a chiamarla, caro Sismondi. Comodo, comodo, stia pure lì in piedi, è una faccenda di pochi minuti, giusto il tempo di dirle… Chi è che mi chiama, adesso? Eccola qui, sempre lei… Caterina! Che piacere sentirti, stavo giusto parlando di te con Sismondi. Te lo ricordi Sismondi, vero? Come chi sarebbe? Il mio redattore capo, quel gran genio del Sismondi, quello che reinventa la grammatica e la sintassi. Te lo avevo presentato alla festa del giornale, sai quel giovanotto un po’ anziano, che ha l’età di mio figlio, ma sembra mio padre … Ah, hai capito di chi parlo, vero? Pensa che l’ho fatto assumere proprio io all’Eco di Montretto, sì, insomma, al giornale, e sempre io l’ho nominato redattore capo. Se è stata una buona idea, dici? Ancora non mi sono dato una risposta, anzi, la sto ancora cercando, ma prima o poi la troverò, stai sicura. Mi stavi dicendo? Scusa se divago, ma ho un piccolo problema da risolvere… Di che problema si tratta? Niente di serio, ma è un problema da non sottovalutare, per questo ho chiamato Sismondi, che mi darà senz’altro una mano… Oppure la darò io a lui, ma per salutarlo, arrivederci, anzi, forse addio. Abbia pazienza, Sismondi, finisco questa telefonata e sono da lei. Allora, ci vediamo stasera? No, non dico a lei Sismondi, parlavo con Caterina… Stasera, sì, otto in punto, ristorante? Tre Cervi? È nuovo?
Non lo conosco… Lei, Sismondi, lo conosce? Mi fa cenno di sì, si vede che lui esce molto più spesso di me, Caterina. E, scusi Sismondi, ci va spesso? Ah, anche di recente? E, mi dica, mi dica: come si mangia? Molto bene, mi sta dicendo, mi segui Caterina? E, mi dica, mi dica: come si beve? Ah, molto bene anche per quello? Non è che c’è stato ieri sera, per caso? Perché, scusi sa, se c’è stato ieri sera e si beve molto bene, magari stamattina non sarà stato poi così lucido da poter scrivere l’articolo di fondo. Ah, l’aveva già scritto ieri sera, prima di uscire a cena? E, se non sono indiscreto, mi scusi Sismondi, con chi era? Preferisce non dirmelo, capisco… Capisci, Caterina? Ah, anche tu capisci benissimo, non è che per caso vi siete messi d’accordo? Comunque, si è trovato bene, vero? E qui al giornale, mi scusi, come si trova? Bene, anche qui. E, se insistessi per sapere con chi era ieri sera? Non me lo vuole dire… Me lo dici tu, Caterina? Perché, tu che ne sai? Ah! Eri tu con lui… Scusa, Caterina, se sono stato indiscreto, perdonami, ma c’è che stamattina mi sento un po’ fuori fase, specialmente dopo avere letto l’articolo di Sismondi. Non che sia scritto male, con quel tanto di ironia che il nostro buon Sismondi sa mettere nelle sue parole, con quella dose di buona retorica che tutti gli riconosciamo, ma, abbia pazienza, Sismondi, anche con quella sciattezza per la quale l’ho dovuto riprendere più volte. Capisci, Caterina? No, Sismondi, per favore, non mi dica che le dispiace, che un errore può capitare a tutti e che la prossima volta ci starà più attento, perché me lo ha già detto tre giorni fa, una settimana fa, due settimane fa e anche un mese fa.
Come posso fidarmi di lei, se continua a commettere errori così banali? Siamo giornalisti, che diamine, mica graffitari? Come dici, Caterina? Ah, capisco… Questo però non me lo avevi mai detto prima, perché? Giusto, giustissimo, affari tuoi… Scusami se sono stato inopportuno, d’accordo, fai conto che non te lo abbia mai chiesto. Dunque, Sismondi, a quanto sembra c’è qualcuno che si sta prendendo molta cura di lei, qualcuno disposto a scendere in campo a sua difesa… Però, anche lei! Scusi, sa, ma mi commette certi errori che neanche uno scolaretto… E lei è laureato, vero? Ah, non è laureato? Avrà almeno frequentato l’università, spero! Scusi, sa, Sismondi… Come dici, Caterina? Siete stati compagni di corso? Ed è proprio lì che vi siete conosciuti… E con voi c’era anche… Ma no! Davvero? E voi tre eravate inseparabili, e siete tuttora, molto amici… Capisco, capisco benissimo, però Sismondi non si è laureato. Non è colpa sua, dici? Sì, certo, anche Sismondi mi fa cenno di no, magari tutto questo avrà una spiegazione, ma ciò non toglie che… Insomma, certi errori finiranno per compromettere la buona immagine del giornale, non è d’accordo anche lei, Sismondi? E, quindi, che dovrei fare, secondo te, Caterina? Certo, capisco, ma non ti sembra un po’ troppo chiudere un occhio di fronte a certi errori? Come sarebbe a dire: quali errori? Andiamo, Caterina, errori che neanche alle elementari si sarebbero commessi, figurarsi poi da un quasi laureato… Perché lei non è laureato, me lo conferma, Sismondi? Me lo conferma.
E allora, perché al momento dell’assunzione mi ha detto che era laureato? Ah, glielo ha consigliato lui, anzi glielo hanno consigliato loro… Ma loro, chi? Tu, Caterina? E, immagino che l’altro sia lui… E va bene, si vede proprio che oggi non è giornata. No, non ce l’ho con te, Caterina, ce l’ho con me stesso, che qualche volta dovrei stare un po’ più attento a scegliermi i collaboratori. O, per lo meno, dovrei evitare di farmeli imporre. Adesso devo lasciarti, Caterina, ho qui da fare con il nostro Sismondi, un ripassino di grammatica, che forse potrebbe tornargli utile. Ciao, Caterina, a presto! Anzi, a stasera, vero? Come sarebbe a dire: dipende? Ma dipende da cosa? Ah, da quello che ti farà poi sapere Sismondi. Dai, Caterina, non scherziamo, che c’entra Sismondi, adesso? C’entra, dici? Perché, dalla sua risposta a una certa tua domanda, dipenderà se stasera usciremo insieme o no… Capisco, anzi, non capisco: a quale domanda ti riferisci? Ah, ecco: chiederai a Sismondi come l’ho trattato, e, a seconda della risposta, deciderai. Ma perché dovrà decidere lui di quello che farò stasera? Perché lui è stato un tuo compagno di corso all’università, insieme a… Ci siamo capiti! Tranquilla, Caterina, te lo rimanderò tutto intero! Ma è uno scherzo, una battuta, Caterina! Via, adesso non possiamo più nemmeno scherzare? Non su certi argomenti, dici… E va bene, allora non scherziamoci, diciamo che facciamo sul serio. Adesso parlo un attimo con Sismondi e poi ti faccio richiamare, così ti dirà lui come è stato trattato, con i guanti bianchi, come sempre, del resto. Sì, ciao Caterina, a stasera, allora… forse.
Allora, Sismondi, veniamo a noi. Dunque, lei ha detto di avere scritto l’articolo che è uscito oggi fin da ieri sera. Sì, ho capito, prima di uscire con Caterina. Immagino, però, che avesse molta fretta, sa, io la conosco Caterina, e lei non sopporta che si arrivi in ritardo a un appuntamento con lei. Perciò, forse, data l’ora, sarà stato costretto ad affrettarsi, immagino. Giusto? E immagino anche che, una volta terminato di scrivere l’articolo, lo avrà riletto e poi spedito… Ah, lo ha soltanto spedito. Senza rileggerlo, quindi, perché se lo avesse riletto, allora se ne sarebbe accorto… Come, accorto di cosa? Allora, guardi, proviamo ad arrivarci un poco alla volta, dopotutto Caterina mi ha chiesto di essere paziente con lei, e poi c’è sempre quell’altro amico vostro, sì, lui, insomma… Dovremo tenerlo presente, anzi, io dovrò tenerlo presente, non vorrei creare qualche caso, che poi potrebbe… Sì, insomma, lo so ben io cosa potrebbe. Perché sorride, Sismondi? Dice che ha capito cosa intendo dire? E, sentiamo, che cosa avrebbe capito? Su, me lo spieghi! No, non mi altero, non mi sto alterando, anzi, glielo chiedo con tutta la calma possibile: potrebbe cortesemente spiegarmi quello che ha capito? Dice che altrimenti lui… Va bene, basta, vedo che anche per lei è tutto chiaro, torniamo a noi, per favore. Dunque, l’ho fatta chiamare… Oh, insomma, non è il caso di finire un discorso che subito ti interrompono! Ma chi è che…? Ah, buongiorno, è lei, mi fa piacere sentirla… Tutto bene? E a casa tutto bene? Con chi ha appena parlato? Dice che dovrei indovinarlo? Mah, difficile poterlo dire, lei ha a che fare con così tanta gente che… Ah, la conosco anch’io questa persona, dice…
Scusi, sa, ma non sarà stata per caso Caterina? Ah, ecco, volevo ben dire… Dire cosa, mi chiede? Niente, niente, un pensiero mio, capitato in testa quasi per caso. Dunque, lei ha parlato con Caterina. E, mi scusi se sono curioso, ma a proposito di cosa? Non di cosa, dice? Allora di chi? Ecco, lo immaginavo, ma ho preferito che me lo confermasse lei… Sismondi, sempre Sismondi, fortissimamente Sismondi! Scusi, sa, la citazione mi è venuta spontanea, naturale. No, non era affatto mia intenzione fare dello spirito, non mi permetterei mai, specialmente poi con lei… Come dice? Se Sismondi è ancora qui da me? Sì, in effetti è ancora qui, stavamo discutendo sa, ma bonariamente, s’intende, perché con lui non potrei farlo che in questo modo, bonariamente. Come dice? Vorrebbe, anzi vuole, che glielo passi? Sì, subito, eccolo… Caro Sismondi, è per lei, naturalmente immaginerà chi possa essere… Come dice? Bravo, sì, proprio lui! Eccolo, glielo passo! (Ma tu guarda un po’ che mi doveva capitare oggi… Del resto, me lo sentivo che non sarebbe stata una giornata tranquilla. E poi, accidenti a me e alla mia pignoleria! Ma, del resto, che posso farci? Sono fatto così, punto e basta). Tutto a posto, Sismondi? Vi siete consultati abbastanza? Via, non faccia quella faccia, per favore, si parla, si dice, si fa tanto per scherzare! Mi vuole parlare ancora, dice? E sentiamo… No, sì, no, sono ancora qui… Va bene, adesso parlo con Sismondi. Grazie, grazie… A presto!
Allora, caro Sismondi, tutto chiarito! E, mi scusi se l’ho fatta chiamare, ma purtroppo io sono fatto così… Fatto male, come dice a volte anche Caterina, malissimo, ma, d’altronde… Insomma, tornando a noi, ecco, venga qui, si avvicini… Vede qui? Non lì, qui! Cosa nota? Non nota anche lei qualcosa che stona con il resto dell’articolo? Qui, qui, dove sta guardando, scusi? Ah, lo vede anche lei! E, mi scusi, non nota niente di strano? Niente… Tutto normale, dice. Eppure, guardi bene, anzi, guardi meglio… Qui, qui! Non sto alzando la voce, mi scusi, sa, a volte mi infervoro, mi faccio prendere la mano dal mio carattere… Come sarebbe a dire: un brutto carattere? Lo dice lei! Ah, non lo dice lei, si limita al più a riferire, lo dice Caterina… E anche lui, quello, insomma? Ho capito, ho capito… Allora, guardi Sismondi, guardi qui, lo vede? Cosa c’è scritto? Un uomo… Bravo, è così che si leggerebbe, ma guardi meglio. Lo vede quel cosino pressoché invisibile tra “un” e “uomo”? Saprebbe dire anche come si chiama? Bravo, quel cosino si chiama apostrofo… Come sarebbe a dire: cosa c’entra? Come sarebbe a dire: è per questo che mi ha fatto chiamare? Per un apostrofo? Sì, per un apostrofo, proprio! Senta, Sismondi, io magari perderò il posto, ma lei mi faccia un favore: ripassi la grammatica!

© Sergio Tardetti 2023

LA RETORICA DELLE PICCOLE COSE

di Sergio Tardetti

Bisogna dare valore alle piccole cose, una frase che mi capita di sentire di tanto in tanto, soprattutto da parte di persone che, come dicono loro, “hanno capito”. Cosa abbiano capito, poi, certo non vengono a dirlo a me, e in generale a noi che non abbiamo capito, è un segreto che conservano chiuso a doppia mandata nella cassaforte della loro anima. Ci piacerebbe tanto conoscere cosa hanno capito, e soprattutto, quali sono le piccole cose alle quali dovremmo dare valore, operazione decisamente ostacolata dallo strettissimo riserbo nel quale si chiudono queste persone, una volta interrogate in proposito. Alla fine di lunghi ed estenuanti tentativi per carpire il segreto, ci troviamo costretti ad arrenderci e a porre l’unica domanda possibile: “Ma se nessuno ci dice quali sono queste piccole cose, come facciamo a capire?”. Al che i propugnatori delle piccole cose alzano le spalle, come a voler significare: fatti vostri. Così, incuriositi e soprattutto pronti a raccogliere quella che consideriamo una sfida, cominciamo a guardarci intorno, a chiedere con finta noncuranza a chi potrebbe conoscere la risposta, per arrivare quanto prima a farci un’idea, una qualunque, perfino piuttosto limitata, ma accettabile, di quali siano le piccole cose di cui vanno favoleggiando coloro che “hanno capito”.
Perché, è inutile nasconderlo, anche noi vorremmo fare parte, prima o poi – ma sempre meglio prima – del novero di quelli che “hanno capito”. Sentirsi esclusi da qualcosa, qualunque cosa, è uno dei principali crucci – meglio, tormenti – dell’animo umano, perché costringe sempre ciascuno a rivolgersi la domanda inquietante: a me, cosa manca? Perché no? Da qui in avanti partono le domande, aumentano i tormenti – ormai non più crucci – e la vita finisce per diventare un vero e proprio inferno. Notti intere trascorse ad occhi spalancati, distesi al buio sul letto, a fissare il soffitto, sperando forse di leggere la risposta, almeno una, alle nostre tante domande in qualche segno visibile anche al buio, forse una leggera macchia di umidità sull’intonaco. E così, la notte trascorre inutilmente e la risposta tarda ad arrivare, per notti e notti di seguito. Di giorno, per fortuna, si è talmente travolti dagli eventi quotidiani da non avere tempo di porsi la fatidica e dolorosa domanda. Di notte, poi, tornando a fissare il soffitto, notiamo che la leggera macchia di umidità si è allargata e si è fatta più evidente, anche se non contiene ancora la risposta; forse, continuando a pazientare e ad attendere, prima o poi, la risposta apparirà in tutta la sua sfolgorante evidenza.
E poi, un giorno, stanco di inseguire le “piccole cose”, il cui significato continua decisamente a sfuggirti, decidi che non ne vale più la pena, meglio dedicare il tuo tempo ad attività più interessanti e più gratificanti. Ed è così, abbandonando il tuo inseguimento, che arrivi a qualche utile considerazione, capace di farti riprendere il filo del discorso con te stesso interrotto ormai da troppo tempo. Probabilmente, ragioni, l’equivoco nasce dal fatto che non ci sono piccole cose e grandi cose, ma ci sono semplicemente cose. Il valore che diamo alle cose e la dimensione che finiamo per attribuire loro sono del tutto relativi, ciò che è piccolo per te potrebbe essere grande per me, e viceversa. Così, confortati da questa decisiva e rassicurante scoperta, riprendiamo il consueto cammino, smettendo di interrogarci, salvo poi trovare un altro argomento capace di suscitare in noi nuove e più stringenti domande. Perché è così che procede, o almeno dovrebbe procedere, la vita.

© Sergio Tardetti 2022

Foto di Alexa da Pixabay