Mondo

Guerra e pace

di Gianni Giovannelli

Giorno per giorno

Si sgozza e si sbuzza,
si sbudella e si sbrana,
si spezza e si fracassa,
si fucila e si mitraglia,
si brucia e si bombarda.

Giovanni Papini
(Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai, Lacerba, 1 ottobre 1914)

Per sostenere l’intervento italiano nella Grande Guerra il fiorentino Giovanni Papini utilizzò un vocabolario assai colorito, provocatorio, nello stile futurista di Marinetti. Nell’articolo, da cui è tratta la citazione in esergo, si annuncia con entusiasmo che poteva considerarsi finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia, della pacioseria. Pace e coesistenza venivano bollate come caratteristiche di spiriti meschini, di persone codarde, come disvalori contrapposti all’audacia e al coraggio di chi puntava invece a combattere, a cancellare il nemico.  A differenza di Marinetti, tuttavia, Papini fu riformato, inabile al combattimento per via di una fortissima miopia. Il fronte rimase per lui soltanto un palcoscenico, nel quale si recitava uno spettacolo che non comportava conseguenze concrete sulla vita quotidiana e che anzi gli assicurava una gratificante visibilità, il consenso della pubblica opinione, il successo. Mentre i soldati crepavano nelle trincee questo celebre scrittore si nutriva di morte senza correre rischi. Poco importa che abbia poco dopo mutato questa sua percezione del conflitto, divenuto per lui, a posteriori, sulla scia di papa Benedetto XV, inutile strage; la conversione al cattolicesimo non fu infatti di ostacolo ad un convinto sostegno del fascismo, alla sottoscrizione dell’ignobile manifesto degli scienziati che preparò le leggi razziali, all’ingresso nell’Accademia d’Italia, l’istituzione che raccoglieva i più illustri sostenitori del regime mussoliniano. Non esiste contraddizione, per chi è avvezzo a comportamenti disinvolti, fra l’elogio della carneficina e il dichiararsi devoto al binomio Dio&Patria. L’importante è mantenere la certezza della propria superiorità.

La trascorsa vicenda umana di Papini ci consente di comprendere, qui e oggi, il complessivo comportamento dei parlamentari eletti in Italia e in Europa. Durante il governo Draghi una larga maggioranza (Forza Italia, Partito Democratico, Lega e Cinque Stelle), con il pieno appoggio della destra neofascista oggi al comando del nuovo esecutivo, ha brutalmente criminalizzato ogni tentativo volto a ricercare un ambito di trattativa, a trovare una qualche via di compromesso. La parola d’ordine valida per tutti era quella di combattere fino alla sicura sconfitta militare russa, sognando di processare Putin in un Tribunale Internazionale dopo aver spezzato le reni alle orde nemiche.  L’insediamento di Giorgia Meloni – con la prudentissima isolata critica dell’opposizione pentastellata – non ha mutato il quadro: la spedizione di armi all’Ucraina prosegue a tempo indeterminato, ogni forma di eventuale diplomazia viene considerata diserzione, il pacifismo equivale alla resa incondizionata, dunque al tradimento. Questi sono i guerrafondai del terzo millennio: agiscono nascosti nelle retrovie, ben protetti, ben pagati, con l’arrogante sicurezza di essere insostituibili, tecnici esperti del moderno nepotismo dentro una struttura economica fondata sul clan, giocolieri della comunicazione in ogni tornata elettorale, indifferenti di fronte a qualsiasi tragedia umana. Di Papini non hanno certo mutuato il fascino di una cultura sapientemente coltivata, si limitano a ereditare il peggio di quel mondo tramontato. Manca perfino, dentro la cabina di comando, una compiuta teoria della guerra nel terzo millennio. La chiamata alle armi si risolve in una sequenza di mosse disordinate, di programmi con un respiro, nella migliore delle ipotesi, soltanto trimestrale; nonostante il rischio concreto di uso sul campo delle bombe atomiche, con ogni imprevedibile conseguenza, quel che interessa davvero l’apparato che gestisce il potere è l’incremento di fatturato, nell’anno fiscale, dell’industria bellica, sia essa pubblica o privata. Il futuro non esiste.

Gaza e l’antisemitismo.

Mentre la guerra in Ucraina proseguiva incessante, prendendo tuttavia una piega non gradita o quantomeno difforme da quella indicata nelle previsioni, si è aperto un nuovo fronte, questa volta in Palestina e con caratteristiche diverse. Il ceto politico israeliano e palestinese, a differenza di quello che governa i paesi del G7, ha una consolidata dimestichezza con l’uso delle armi; non si limita, come fanno gli atlantisti, a ordinare e gestire sfracelli da comode postazioni ben protette, combatte proprio. I dirigenti politici di Gaza e Tel Aviv sparano, e, quando possono, si uccidono a vicenda. Se si comportassero diversamente, perderebbero credibilità, capacità di comando. Non possono non combattere; dunque non hanno alcuna intenzione di ascoltare inviti alla moderazione o, tanto meno, di cessare le ostilità. Gli uni e gli altri sono perfettamente consapevoli che ogni tregua è solo simulata: per imporla occorre una forza economico-militare superiore a quella di cui dispone Israele, ma non esiste alleanza disposta ad usarla sul campo. Anzi: prevale, per varie ragioni, la scelta di alzare ulteriormente il livello di scontro, senza badare a ciò che questo comporta per le vite umane e per l’ambiente nel suo complesso. Ucraina e Gaza determinano, giorno dopo giorno, effetti sinergici, soprattutto considerando la comparsa di nuovi focolai caratterizzati anch’essi da sviluppi imprevedibili. La propaganda si adegua: quel che in Ucraina veniva bollato quale complotto putiniano ora, con riferimento alle vicende di Gaza, si pretende di ricondurlo all’antisemitismo. In un caso il punto di partenza lo si individua nell’attacco russo del 24 febbraio 2022, nell’altro il riferimento è il  7 ottobre. Non esiste un prima, ogni spiegazione diviene giustificazione, chi non appoggia la risposta , o chiede pace, o, peggio, pretende di essere neutrale, deve essere considerato un alleato oggettivo dell’aggressore (o dell’antisemita) e trattato come tale.  In Germania quello che era già un pericoloso nervo scoperto ora è diventato una vera isteria collettiva: la deriva militarista dei Grunen, pronti a cogliere ogni occasione per alzare il livello di scontro armato senza curarsi delle vittime, si è saldata con il sostegno indiscriminato alla strage dei palestinesi di Gaza, concretandosi in una sorta di processo, pubblico e politico, contro chiunque sia sospettato di criticare il comportamento sul campo del governo israeliano o anche soltanto di invocare un cessate il fuoco.

Schierarsi per proteggere la vita dei palestinesi assediati a Gaza è un crimine da punire in quanto “oggettivo” antisemitismo. Anche la semantica lessicale cede, travolta dalla foga degli accusatori. Come gli ebrei anche i palestinesi sono, senza ombra di dubbio, semiti. Dunque sia i filo-israeliani, sia i filo-palestinesi (in quanto tali e a prescindere perfino dalla collocazione politica) sono filosemiti, definirli “antisemiti” è una evidente contraddizione; arabo ed ebraico sono lingue tipicamente semite. Turchi, russi, iraniani ed europei (compresi i tedeschi) sono invece giapetiti (qualcuno preferisce chiamarli japetingi, comunque si tratta di ceppo linguistico indoeuropeo). Ecco: i tedeschi antipalestinesi di oggi sono di nuovo “antisemiti”, pur con una variante etnica rispetto ai loro nonni antigiudaici. L’area territoriale in cui vivono – e muoiono – ebrei e palestinesi è una miccia accesa dentro una polveriera; invece di spegnerla gli esponenti del pensiero neocolonialista occidentale provvedono a tener viva la fiamma con ogni mezzo, con profondo disprezzo del futuro collettivo, pensando solo all’incasso nel trimestre successivo.

Migrazione e guerra

Il conflitto tende a diffondersi, quasi fosse in atto una sorta di contagio inarrestabile. Investe di nuovo Libano e Siria, non conosce tregua neppure nelle acque del Mar Rosso ove gli Houthi resistono agli attacchi e rendono poco sicura la navigazione verso il canale di Suez, con inevitabili contraccolpi sul commercio e sui costi della merce. Le conseguenze, mai prese in considerazione come possibili dagli arroganti uomini politici della vecchia Europa, si cominciano a far sentire. La carneficina prosegue da oltre un anno nel vastissimo Sudan (grande sette volte l’Italia, poco popolato, i 40 milioni di abitanti sono ormai allo stremo); centomila soldati RSF sostenuti da russi ed etiopi si battono contro trecentomila militi inquadrati nel SAF appoggiato dagli Emirati e dall’Egitto. Entrambi gli eserciti fanno strage di civili. Martin Braaksme, di Medici senza frontiere, riferisce sconsolato che nell’indifferenza generale si contano oltre 30 mila morti e che i profughi sono calcolati in circa otto milioni. Un quarto di loro ha varcato il confine dello stato, verso la Libia, il Centrafrica e soprattutto il Ciad. Due milioni di esseri umani, disperati e affamati, hanno superato una frontiera lunga oltre duemila chilometri, priva di strutture, incontrollata e incontrollabile; non hanno altra scelta, si dirigono verso la costa mediterranea, migrano per sopravvivere. Sotto la pressione degli sfollati scricchiola anche il Ciad, ultimo avamposto del colonialismo francese, ricco di oro e uranio, costantemente depredato; il governo militare mantiene ancora i mille soldati del contingente imposto da Parigi, ma la tentazione di svincolarsi si fa ogni giorno più forte, il ruolo di gendarme residuale di un ormai disciolto G5 africano sta diventando scomodo. Le truppe di Macron, nel frattempo, sono state estromesse dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso, dal Mali.

Nella storica base collocata a lato dell’aeroporto di Niamey, da tre settimane, accanto al contingente italiano (250 uomini) e tedesco, i russi hanno sostituito i francesi; e il Niger ha molto uranio che fa gola a tutti.  I mercenari della Wagner sono insediati stabilmente nel Sahel, addestrano gli eserciti nazionali, gestiscono le miniere. Per giunta la rendita francese connessa alla valuta di origine coloniale (il CFA) è ormai prossima all’archiviazione definitiva. Il 16 settembre 2023 è stata sottoscritta la carta di Liptako Gourma che prevede una nuova moneta autonoma nel Sahel (Eco e/o Afrik) e la chiusura degli accordi fiscali con la Francia (verrebbe meno l’obbligo di versare il 50% della riserva statale alla banca centrale francese e il redditizio passaggio forzato per Parigi della convertibilità CFA/Euro).

A fronte di questo disastro diplomatico militare Macron, che a differenza dei capi di governo africani non conosce la guerra e non sa neppure sparare, si è spinto fino a minacciare un intervento in Ucraina contro la Russia, colpevole di averlo sconfitto in Africa! Guerra, colonialismo e flussi migratori si confermano strettamente legati, ma i governanti europei faticano a comprenderlo. Giocano con il fuoco, con presuntuosa tracotanza, convinti che tutto sia loro consentito, sicuri di vincere sul campo perché vincono le elezioni. Ma la guerra e le urne poggiano su regole diverse. La certezza dell’impunità viene trasmessa dai funzionari del potere ai sudditi, con perverse conseguenze che cadranno proprio sui più deboli. Machiavelli, citando Lorenzo il Magnifico, osserva che i guai dei popoli provengono dai loro governanti: E quel che fa ‘l signor fanno poi molti, Che nel signor son tutti gli occhi volti. Grazie anche alla forza della comunicazione si è radicata la convinzione che non abbia ricadute sociali trasferire la spesa pubblica destinata all’antico welfare in armamenti destinati al fronte ucraino, reprimere la protesta studentesca e popolare contro i massacri in Palestina, criminalizzare i migranti e rinchiudere inutilmente nei CPR una quota di sbarcati, affamare le popolazioni africane e rapinarle di ogni risorsa. Non è così. Gli errori nell’agire provocano, prima o poi, inevitabili reazioni, e queste possono essere dolorose.

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunciò trionfante l’entrata in guerra, ricevendo gli applausi di una folla che correva incosciente verso il baratro, incontro al disastro. Il Duce sosteneva che il combattimento era necessario per proteggere il popolo italiano da chi voleva insidiare l’esistenza stessa della nazione; come la sua nipotina Giorgia Meloni prometteva di colpire il nemico in terra, in mare, nell’aria (il c.d. orbe terracqueo) con una parola d’ordine (vinceremo!) che ci ricorda molto da vicino la retorica odierna. L’irresponsabilità è la medesima.

Nuove caratteristiche della guerra

Nel 1999 Qiao Liang e Wang Xiangsui pubblicarono la prima edizione del loro trattato con una definizione, guerra asimmetrica, che costituiva una vera novità nell’ambito degli studi militari moderni. Il testo è ormai divenuto un classico e indica nella prima guerra del golfo (17 gennaio 1991) il punto di svolta. Negli ultimi trent’anni i conflitti sono proseguiti in modo strisciante, tuttavia senza mai una sosta. Anzi l’ampiezza dei territori insicuri o pericolosi va crescendo, sempre e costantemente, giorno dopo giorno; l’area in cui vige il tempo di pace si è assai ristretta, comunque coltivando al proprio interno contraddizioni di non poco conto (scontri etnici, attentati terroristici, discriminazioni razziali o legate alla religione). La deterrenza tradizionale, fondata sul timore dell’arsenale atomico, ha perso la forza originaria (quella che aveva risolto la crisi cubana, ad esempio). Nuovi paesi possiedono la bomba (Israele, Corea del Nord, Pakistan), altri si apprestano ad acquisirla; comunque l’accesso all’ordigno atomico appare meno difficile rispetto al secolo scorso. Durante la prima guerra del golfo furono i giganteschi costosissimi velivoli americani a fare la differenza; distruggevano dall’alto, irraggiungibili. Ancora oggi consentono una sostanziale supremazia, sono ad esempio il punto di forza dello stato d’Israele.

Ma con il passare degli anni si sono rivelati insufficienti; gli americani hanno ugualmente perso la guerra in Afghanistan, si sono dovuti ritirare insieme ai loro alleati lasciando il campo ai talebani che, almeno sulla carta, non avevano alcuna possibilità di spuntarla. Rastrellamenti, danneggiamenti e stragi non sono bastati, hanno ritardato ma non evitato la sconfitta. A ben vedere, dopo la guerra del golfo nel 1991, gli americani non hanno più vinto in nessun posto. Dunque non basta avere armi moderne e potenti; esistono altre variabili e possono, in determinate circostanze, risultare decisive. E’ un segno di come sia mutata l’essenza stessa del conflitto, divenuto davvero asimmetrico, soggetto a eventi imprevisti.

Il capo di stato maggiore russo, Valerj Vasilievic Gerasimov, pubblicò sul numero 8 del Corriere militare-industriale (27.2.2013) un articolo che conteneva riflessioni di notevole interesse sulla guerra moderna, osservando: nel XXI secolo c’è una tendenza a sfumare la distinzione fra guerra e pace. Le guerre non vengono più dichiarate e una volta iniziate non seguono più il modello a cui siamo abituati. E ancora: l’uso palese della forza, spesso sotto le mentite spoglie del mantenimento della pace o della gestione delle crisi, viene utilizzato solo fino a un certo punto, principalmente per ottenere il successo finale nel conflitto.

In effetti sono in corso solo guerre non dichiarate, ma non per questo meno sanguinose. Accanto allo spettro dell’ordigno atomico (magari solo tattico in via di sinistra mediazione filologica), ai missili e alle difese per neutralizzarli, ai carri e ai bombardieri d’alta quota, il combattimento riguarda i corpi, uno di fronte all’altro  in divisa, o tanti civili inermi in attesa della morte. Ma in Ucraina ha conquistato un ruolo da protagonista il drone, non quello di grandi dimensioni, quello piccolo invece, economico, maneggevole. Un mezzo destinato a utilizzi sempre più massicci, introducendo nello scontro quotidiano un elemento inatteso, a volte di sorpresa.

Un missile, peraltro spesso intercettato durante il volo, costa decine di milioni; di recente Ali Baba ha venduto (non si sa a chi) per 57.000 dollari un UAU ad ala fissa H250, adatto ad uso militare (poi si sono scusati). Peraltro con solo 179,99 dollari si compra su Amazon il Potensik 2,7K, con 60 minuti di autonomia, apparentemente innocuo ma (come le rivoltelle giocattolo) modificabile da mani esperte. Bande di mercenari possono partecipare a guerre non dichiarate con armamenti low cost; questo è un fatto, ed è anche un fatto nuovo. Giovani tecnici ucraini, in laboratori semiartigianali, servendosi di alta tecnologia, hanno creato software trasformando un drone di fabbricazione turca, il Bayraktar TB2, in un’arma efficace contro i russi. Ora funziona a pieno ritmo una variegata industria bellica nazionale, come la Aerozozvidka del colonnello Yaroslav Honchar, che non riesce a soddisfare l’ordinazione crescente. I droni ucraini si servono di radar e intelligenza artificiale forniti dall’americana Forte Technologies, sono fonte  di profitti in crescita; il drone UJ22 Airborne (a elica e benzina) ha un’autonomia di 800 chilometri, tocca 120 Km/h, è lungo 3 metri, pesa solo 85 Kg, economico, facilmente trasportabile con un furgone. Con 50 mila dollari si acquista anche l’ucraino Bober (castoro), velocità 200 km/h; porta un discreto carico esplosivo e non è semplice da intercettare per via del tragitto modificabile da remoto.

I russi, dopo i primi colpi subiti, hanno imparato presto la lezione sotto i colpi del nemico e preparato la risposta. L’Iran ha fornito il drone Shahed-136 (testimone 136), disponibile in grande quantità, a buon prezzo (probabilmente assai  meno dei 50 mila dollari di base, pagati magari in oro, comunque vanificando le sanzioni); si tratta di un vecchio modello già sperimentato con successo dai combattenti talebani e ora, nel Mar Rosso, anche dai militanti Houthi.  Con ala a delta di circa 2,5 metri, pesa 200 kg, raggiunge 185 km/h, basta un camioncino per il trasporto, monta un  motore a 4 cilindri copiato dalla tedesca Limbach, lo si guida a distanza con una semplice SIM per cellulari 4G. L’Iran ha aperto una fabbrica di droni in Tagikistan, hanno richieste da ogni fronte nel mondo. L’esame di uno Shahed abbattuto rivela le contraddizioni dell’economia globale di guerra: processore americano, pompa anglo-polacca, convertitore cinese.

Dal novembre 2023 si è evoluto nel modello Shahed-238, un turbo difficile da intercettare ma con il difetto di essere assai più costoso e per giunta esposto ai missili che lo tracciano. Si è affiancato poi il nuovo Lancet 3, prodotto dalla mitica Kalashnikov, con motore elettrico (il che impedisce le rilevazioni acustiche e termiche) ma con una limitata autonomia (solo 80 chilometri). La scelta del comando politico-militare russo è stata infine quella di produrre in casa una sorta di Shahed nazionale, chiamato Geran 2, reso più efficiente dell’originale grazie all’applicazione di tecnologie occidentali (e schegge di tungsteno in testata). La fabbrica di Alabuga (Tatarstan), aperta nel luglio 2023, impiega ora 2400 operai; entro l’estate del 2025 (fra meno di un anno) saranno pronti seimila droni, a basso costo, da lanciare, in lotti da 5,  svolazzando come farfalle senza linee rette, diretti contro le postazioni ucraine. Ancora una volta l’analisi del prodotto scopre i veli, emergono le contraddizioni del mercato globale: il Geran 2 prodotto in Russia, su licenza iraniana, contiene 55 parti americane, 15 cinesi, 13 svizzere, 6 giapponesi. In ogni caso si tratta di un affare di straordinarie proporzioni!

Solo dieci anni or sono i droni con scopo offensivo, e non soltanto ricognitivo, venivano prodotti a centinaia, non certo a migliaia; Alabuga segna un cambio di passo destinato a mutare il modo di fare la guerra. Una guerra non dichiarata ma potenzialmente diffusa, quasi endemica. Il drone trasportabile messo a punto nei laboratori ucraini e iraniani, a prescindere dalla differenza di modello, una volta prodotto in serie è idoneo a rimuovere i vincoli tradizionali, ad aggirare i limiti di azione; inserisce l’inatteso, pone le condizioni di una dialettica forza/sorpresa che si traduce inevitabilmente in innovazione bellica. Vedremo quali ricadute ci saranno negli altri focolai, Palestina compresa; non si può controllare ogni zolla di territorio, ogni insediamento, ogni vita umana.

Macron minaccia la Russia vaneggiando interventi militari; per il momento, nonostante l’atomica nei magazzini, si è però fatto cacciare dal Niger. Pochi giorni fa se ne è andato alla chetichella anche Biden, dopo l’intimazione di sfratto e l’arrivo di Wagner. Accanto a russi e iraniani, autocrati in sintonia con il governo insediato con il golpe anti-occidentale, rimane solo una piccola pattuglia italiana, al comando del generale Figliuolo, quello del Covid. Difficile comprendere a far che cosa!  Il Niger è grande 4 volte l’Italia, ma ha solo 26 milioni di abitanti e il tasso di natalità più alto del mondo (6,82 per donna), una popolazione giovanissima con una consolidata abitudine al combattimento e una gran voglia di futuro. Fermare il flusso migrante dal Sahel all’Europa, nonostante le urla neo-papiniane di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non pare cosa facile da realizzare in concreto. Infatti il numero degli sbarcati, provenienti dal Sudan e dai paesi del G5, non accenna a diminuire. Ma gli apprendisti stregoni, insediati nei governi europei, continuano a provocare, senza mai davvero riflettere sul significato sostanziale della guerra e della pace.

The scene dissolves, is succeded by a grinning gap, a growth of nothing pervaded by vaguerness [1].

NOTE

[1] La scena si dissolve, le succede un sorridente precipizio, una crescita del nulla pervaso d’incertezza

Immagine di apertura: Angelus Novus di Paul Klee, 1920

«Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi, la bocca è aperta, le ali spiegate. Così ci si raffigura l’angelo della storia. Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso»

(Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, Tesi IX, in Gesammelte Schriften (Opere complete), a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Suhrkamp Frankfurt a. M. 1980, Volume I.2, p. 697)

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 13 maggio 2024

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L’ONU compie 78 anni: esaudiamo il suo desiderio?

di Miriam Rossi

78 anni… e sentirli tutti! L’Organizzazione delle Nazioni Unite soffia le candeline ed è circondata da Stati membri sorridenti e che si scambiano auguri e buoni propositi ma, inconcludente, continua a esprimere un desiderio, quello della pace, che da 78 anni continua a non avverarsi. Le future generazioni non sono state salvate dal flagello della guerra, come si erano ripromessi gli Stati che nel 1945 avevano sconfitto l’alleanza nazi-fascista della seconda guerra mondiale e avevano deciso di creare una nuova governance mondiale volta “a riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale e un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà” (dal preambolo dello Statuto dell’ONU).

Solo recentemente, la comunità internazionale ha condiviso la preoccupazione per la minaccia atomica di Mosca nel conflitto combattuto in Ucraina dal febbraio dello scorso anno e la possibile escalation nell’instabile scenario internazionale del conflitto israelo-palestinese dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Questo senza passare in rassegna le molte violazioni dei diritti umani, delle minoranze, della democrazia in corso in tanti luoghi del mondo, di quelle stesse Nazioni che si sono Unite nell’Organizzazione. Dall’Iran all’Afghanistan, dall’Armenia alla Somalia, dalla Siria alla Libia. E oltre.

Che senso ha dunque celebrare oggi la Giornata delle Nazioni UniteIl Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, lancia uno stringato videomessaggio in cui riconosce che “siamo un mondo diviso. Possiamo e dobbiamo essere nazioni unite”. Se, infatti, “le Nazioni Unite sono un riflesso del mondo così com’è – e un’aspirazione al mondo che sappiamo possa essere” occorre impegnarsi per continuare a costruire un mondo migliore. “Secondo le nostre aspirazioni”, sicuramente quelle dello Statuto sottoscritto direbbe Guterres, ma soprattutto secondo regole di civiltà che precludono la sua stessa autodistruzione.

Dobbiamo quindi essere davvero “Nazioni Unite” e impegnarci in tal senso, coordinando parole e azioni. Ma questo non accade tanto spesso.

“Equality, Freedom and Justice for All” è il tema centrale della celebrazione 2023 per la Giornata delle Nazioni Unite indetta negli Stati Uniti. Quindi “Uguaglianza, Libertà e Giustizia per Tutti”. Tuttavia gli stessi Stati Uniti continuano a bloccare con il proprio veto la decisione del Consiglio di Sicurezza di una risoluzione per imporre una pausa umanitaria per consentire un accesso pieno, sicuro e senza ostacoli alle Agenzie delle Nazioni Unite e ai loro partner a sostegno dei civili nella striscia di Gaza. Se adottata, la risoluzione avrebbe condannato ogni violenza e ostilità contro i civili e ogni atto di terrorismo, e avrebbe respinto e condannato inequivocabilmente gli attacchi terroristici di Hamas avvenuti in Israele a partire dal 7 ottobre. Nel rispetto dei principi del diritto umanitario internazionale, avrebbe inoltre chiesto il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi e la protezione del personale medico e umanitario, nonché degli ospedali e delle strutture mediche. Dove sta in questo veto la Giustizia per tutti, anche solo quella di vedere rispettato l’obbligo di adottare ogni misura possibile per proteggere la popolazione e i beni civili coinvolti in un conflitto?

In Italia da alcuni anni la ricorrenza non incontra grandi cerimonie. Anche questa è probabilmente la Libertà a cui si ispira l’azione del governo Meloni, la stessa che induce peraltro a sostenere con forza la lotta per la libertà degli ucraini ma che incontra un limite nei soggetti ai quali tale libertà è negata. Ai detenuti e ai richiedenti asilo in primis. Recentemente è giunta la condanna all’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani per le condizioni di vita e la detenzione nell’hotspot di Lampedusa tra il 2017 e il 2019 di tre migranti della Tunisia “privati arbitrariamente della loro libertà”. Di trattamento disumano e degradante parlano ancora altre sentenze che periodicamente colpiscono, e multano, l’Italia per il trattamento dei detenuti in carcere. Dove sta in queste condotte governative, non solo del governo attualmente in carica, il rispetto dei valori dello Statuto ONU?

Un’ipocrita cecità governa troppe Nazioni.

Uniti, cerchiamo di condurle tutte a dare una veste migliore a questo mondo.

Se lo merita a 78 anni dal primo desiderio espresso soffiando le candeline…

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 24 ottobre 2023

La foto è tratta da wikimedia

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L’infinita disputa sulla memoria

di Raúl Zibechi

Quando infuriava il nazismo, Walter Benjamin scrisse nelle sue famose Tesi sul concetto di storia: “Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”.

In questi giorni sta accadendo qualcosa di paradossale: la memoria di Salvador Allende viene adulterata, non dai suoi nemici pinochetisti, ma da coloro che si proclamano suoi seguaci. Il presidente Gabriel Boric è a capo di un’operazione ad ampio raggio per trasformare Allende in un’icona del consenso tra i partiti del sistema.
Lo scrittore cileno Dauno Totoro, in un’intervista a Telesur, mette a nudo questa operazione, attraverso la quale Boric cerca di reincarnare Allende, “riproducendo i suoi gesti, i suoi movimenti, cercando di diventare l’immagine di Salvador Allende […]. È il prolungamento di qualcosa di molto più serio che ha a che fare con la storia profonda di questo paese e con i gravi eventi che si sono verificati negli ultimi 50 anni” (https://goo.su/F9jG).

Totoro sostiene che è stato costruito un Allende simile a un’icona cristiana, che diventa l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo; che muore per noi e ci libera dalle colpe. Allende è stato tramutato in una sorta di redentore quasi soprannaturale, che trasforma il popolo in un soggetto passivo dei suoi miracoli.
Lo scrittore analizza il modo in cui le ultime parole di Allende sono state manipolate. Secondo la versione ufficiale, egli disse: “Quanto prima si apriranno le grandi strade dove cammina l’uomo libero…” Ma ciò che Allende disse agli operai, a cui si rivolgeva, è “…aprirete”, voi aprirete le strade” (“Salvador Allende: último discurso. 11 septiembre 1973”, minuto 5:45. [ndt: i sottotitoli in spagnolo dicono “se abrirán”, ma se si ascolta, si sente che il “se” non c’è]).

Nel primo caso, si tratta di qualcosa di magico. Si apriranno da sole? Nel secondo caso, è la lotta a determinare l’apertura delle strade.

Un piccolo trucco che modifica tutto, che pone al centro un essere mitico al posto della classe operaia. Ecco perché Totoro conclude: “Hanno trasformato Allende in un prodotto che scagiona l’intera classe politica”.
Un tassello essenziale di questa manovra storico-politica è Boric, colui che sostiene che Sebastián Piñera è un vero democratico (quel Piñera che ha dichiarato guerra al popolo, durante la rivolta del 2019).
Ma Allende non è stato un agnello di Dio, né una star del mondo dei media, ma il presidente impegnato che nella sua ultima apparizione portava un fucile mitragliatore e un elmetto per difendere il palazzo del governo. Quelle immagini sono state sostituite con altre, come l’esposizione delle sue scarpe in una teca perché la gente vada ad adorarle, aggiunge Totoro.

A differenza di quelli che ora lo spogliano del suo fucile mitragliatore, lo scrittore non passa sotto silenzio gli errori di Allende, che credeva in un paese che non esisteva e, in particolare, immaginava un esercito repubblicano rispettoso della legalità.

L’obiettivo finale di questa operazione è costruire un consenso storico senza profondità, un consenso vuoto, senza storia, senza futuro, che ci intontisce e che può essere spezzato solo fisicamente, cioè con la rivolta. Di questo si tratta: mostrare un Allende vuoto di contenuti, che serve agli scopi di una democrazia che non ha nulla a che vedere con quella per cui l’ex presidente ha dato la vita, e rimuovere l’idea della rivolta popolare dallo scenario e dall’immaginario politico.

L’immagine che presenta la sua morte come un suicidio va nella stessa direzione, intende demoralizzare i suoi seguaci. Gabriel García Márquez ha scritto della morte di Allende nel 2003, nel 30 ° anniversario del colpo di Stato, sottolineando che Allende morì in uno scontro a fuoco con una pattuglia di militari, con in mano il fucile mitragliatore che gli era stato regalato da Fidel (García Márquez, “La verdadera muerte de un Presidente”).

Tutta quella storia è stata cancellata perché, come ha detto lo stesso Allende, si trattava di impartire una lezione morale dando la propria vita. Un atteggiamento etico in contrasto con la politica attuale basata sul consenso, sull’unione. Contro che cosa o contro chi? Contro la rivolta e contro coloro che persistono nella loro ribellione, come settori del popolo Mapuche e come i giovani che sono stati repressi l’11 settembre per aver preso le distanze dalle celebrazioni ufficiali.

Ma le cose non finiscono qui. Questo montaggio fa parte della quotidianità del capitalismo e in particolare dei governi progressisti.

Lula ha messo una donna indigena a capo del Ministero dei Popoli Indigeni, ma i suoi alleati dell’agroindustria uccidono ogni giorno membri di quegli stessi popoli, come è successo questa settimana con le autorità spirituali Sebastiana e Rufino, nella più assoluta impunità (“Sebastiana y Rufino, autoridades espirituales Guaraní Kaiowá, asesinadas por defender su territorio en Brasil”).
Nella Colombia del progressista Gustavo Petro, il paramilitarismo continua ad essere la politica dello Stato nei territori (“El Paramilitarismo como política de Estado se mantiene en los territorios”). Nel 2022, sono stati uccisi 215 leader sociali e 60 ambientalisti.
In questo modo, le rivendicazioni e la memoria dei popoli vengono svuotate, mentre si afferma di difenderle. Nell’ambito di questo progetto di svuotamento della memoria per continuare a governare a favore del capitale, quale strategia sta elaborando il governo messicano nei confronti dei popoli originari, prima del 30° anniversario dell’insurrezione zapatista?

Fonte: “La interminable disputa por la memoria”, in La Jornada, 22/09/2023.
Traduzione a cura di Camminardomandando.

L’articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2023 su Comune-info 

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Quell’11 settembre del 1973

di Raffaele Crocco

Non sono solo le Torri Gemelle a New York a rendere ogni 11 settembre una data da ricordare. Quella volta, ventidue anni fa, il Mondo si trovò sul crinale del cambiamento. Mentre vedevamo le torri crollare, abbattute dall’attacco omicida e suicida degli uomini di Bin Laden, capivamo che c’era stato un prima e ci sarebbe stato un dopo, con tutto differente, cambiato.

Ma un altro 11 settembre, molti anni prima, nel 1973, aveva ottenuto lo stesso effetto, con molto meno clamore. Anche quel 11 settembre aveva dato al Mondo di allora un prima e un dopo. Quel giorno di 50 anni fa, un golpe militare assistito e progettato dagli Stati Uniti rovesciava e uccideva in Cile il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Il tutto accadeva davanti ad una platea mondiale equamente divisa fra chi approvava l’abbattimento di “quel pericoloso socialista” e chi condannava i fatti restando comodamente seduto in poltrona. Allende morì, quel giorno, assieme a chi difendeva la democrazia. Negli anni successivi morirono in migliaia. Ma quel giorno, quel 11 settembre, con lui morì la democrazia, diventata immediatamente fragile e possibile, realizzabile, solo sino a quando “faceva comodo al padrone”, in questo caso gli Stati Uniti.

Non fu più la stessa cosa, per chi viveva in democrazia. Non c’erano più certezze, i valori e gli strumenti del sistema erano troppo fragili per resistere al potere forte e reale di chi governa l’economia e ha le armi per imporre la propria volontà. Di questo si resero conto i democratici di tutto il Mondo, che iniziarono a ripiegare su posizioni sempre più “coerenti” con la visione del padrone e, quindi, sempre meno democratiche. Pensate all’Italia, al tentativo avviato subito dal Partito Comunista di Berlinguer di avvicinarsi alla Democrazia Cristiana, il braccio politico dell’Alleanza atlantica filo statunitense nel Paese, cercando il cosiddetto “compromesso storico”. Fu, quello di Berlinguer, il tentativo di mettere in sicurezza la democrazia italiana, pressato dalla paura che potesse ripetersi il Cile.

La democrazia morì quel giorno a Santiago, sotto i colpi del golpista Pinochet e degli Stati Uniti. E morì ovunque, nel Pianeta, che si inaridì per paura. E mentre la democrazia perdeva pezzi ed efficacia, dal Cile partiva la grande sperimentazione neo liberista, con l’economia a governare le vite degli individui, sostituendo la politica e il mercato trasformato nel nuovo dio. Un dio talmente insinuante, affascinante e potente da diventare l’unico punto di riferimento per decenni. Tutto si è fatto in nome del mercato e tutto è stato sacrificato su quell’altare: la giustizia sociale, il diritto al lavoro, il welfare.

Non è stato un evento locale, il golpe contro Allende. L’undici settembre del 1973 iniziò una controrivoluzione i cui effetti ancora ci portiamo addosso, come scorie radioattive. Le nostre democrazie – là dove in qualche modo hanno resistito – da quel giorno sono monche e malate. Per questa ragione oggi, dobbiamo ricordare anche quel giorno. Perché le tragedie non vanno mai dimenticate.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo l’ 11 settembre 2023

La foto è della Biblioteca del Congreso Nacional da wikimedia

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Promemoria brasiliano su Bolsonaro, il giudice Moro e il lawfare contro Lula

di Gennaro Carotenuto

La cooptazione del giudice Sergio Moro nel governo di Jair Bolsonaro in Brasile era decisa da tempo e getta nuove ombre sulla condanna di Lula. Facciamo luce sull’arte del lawfare in America latina.

1) Oggi i media mondiali raccontano come un successo di Jair Bolsonaro l’accettazione da parte del giudice Sergio Moro (rappresentato come un eroe senza macchia e senza paura, che condannò Lula nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato), di diventare ministro della giustizia nel nuovo governo. Superministro dicono, accorpando giustizia e sicurezza, un potere immenso. Giova ricordare che Sergio Moro condannò Lula essendo lui stesso candidato in pectore alla presidenza della Repubblica, partecipando sistematicamente a manifestazioni politiche contro il governo. Oggi sappiamo da una fonte al di sopra di ogni sospetto, niente meno che il vicepresidente di Bolsonaro eletto in Brasile, il generale Hamilton Mourão, apertamente nostalgico del regime civico-militare, che lo dichiara senza pudori o politicismi al quotidiano “Valor Económico”, che l’accordo Moro/Bolsonaro (che evidentemente comportava la desistenza del primo in cambio di un ministero) fosse ben anteriore. Dobbiamo credere alla terzietà di Moro al momento di condannare Lula?

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