Diritti umani

Una pace senza libertà: il linguaggio coloniale del piano Trump

Emily Jacir, Memoriale dedicato ai 418 villaggi palestinesi distrutti, spopolati e occupati da  Israele nel 1948, 2001

di Mariella Pasinati


L’annuncio della prima fase dell’accordo sul piano di pace proposto da Trump ha acceso la speranza che la stretta mortale sulla popolazione palestinese possa finalmente avvicinarsi alla conclusione. E certamente bisogna cogliere ogni opportunità, salutare con sollievo ogni spiraglio che possa porre fine al genocidio.
Ma una pace duratura non dovrebbe e non può essere costruita sull’abbandono dei diritti fondamentali del popolo palestinese.
Il piano infatti si limita a dichiarare che l’autodeterminazione e la sua sovranità finale saranno una mera “aspirazione”, attraverso un percorso che non potrebbe essere più vago, condizionato o incerto. Ogni volta che il potere parla di pace, dovremmo fermarci a chiedere: pace per chi, e a quale prezzo? Il Piano di pace Trump 2025 promette “ricostruzione” e “stabilità”, ma il suo linguaggio tradisce un intento opposto: non è la pace dell’ascolto, ma la pace dell’ordine imposto.

Nel documento compaiono parole come deradicalizzazione, prosperità economica, sicurezza, nuova leadership civile, Board of Peace. Ognuna di queste espressioni — apparentemente neutra — disegna un mondo dove la pace è amministrata dall’alto, da chi detiene già il potere, e dove ai palestinesi spetta solo la parte del soggetto da “rieducare”.
Dietro la parola deradicalizzazione si nasconde la retorica coloniale di sempre: trasformare la resistenza in malattia, la ribellione in deviazione da correggere. È la stessa logica con cui, nei secoli, il patriarcato ha preteso di “normalizzare” le donne, definendo follia ciò che in realtà era ricerca di libertà.
La promessa di prosperità è un’altra forma di dominio. Il piano parla di investimenti e infrastrutture, ma non restituisce sovranità. Sostituisce la libertà con la crescita, la dignità con la gestione economica. È la pace dell’“aiuto” che compra la resa, della ricostruzione che non passa mai per la restituzione del potere di decidere. Una pace paternalista, che offre risorse in cambio di obbedienza.

Nel linguaggio della sicurezza si rivela poi la radice patriarcale del piano: la sicurezza non è pensata per la popolazione civile palestinese, ma per Israele e per gli interessi occidentali. È la sicurezza di chi controlla, non di chi vive. Si disarma chi è già disarmato, si sorveglia chi è già sotto assedio. È una logica maschile e militarizzata, che confonde protezione con controllo e trasforma la paura in strumento politico. La pace, invece, non nasce dalla paura dell’altro, ma dal riconoscimento reciproco della vulnerabilità.
Il Board of Peace, organismo internazionale chiamato a “guidare” la ricostruzione, incarna perfettamente la struttura patriarcale del potere: pochi decisori esterni che amministrano la vita di chi ha già subito la distruzione. È la stessa scena che si ripete da secoli: la pace decisa da chi non ha sofferto la guerra.

Bisogna pensare un’altra grammatica della pace. Non ricostruzione, ma riconoscimento. Non normalizzazione, ma relazione. Non governance, ma autodeterminazione.
Invece di parlare di deradicalizzazione, occorrerebbe parlare di decolonizzazione: restituire al popolo palestinese la parola, la capacità di immaginare e ricreare la propria vita.

Non è quindi il momento di distogliere lo sguardo, ma occorre continuare quel movimento globale contro la guerra e la distruzione di Gaza che in queste settimane ha saputo nominare l’orrore e rispondere con la forza di chi si oppone senza cedere alla violenza, come ha dimostrato l’esperienza della Flottilla, un esempio di come sia possibile agire politicamente senza riprodurre la logica bellica.
La pace, per chi la pensa da una prospettiva femminista, non è un accordo ma un processo vivente: nasce dal basso, dal lavoro lento delle comunità, dal gesto quotidiano di chi continua a creare vita anche tra le rovine. È quella pace che non si concede, ma si costruisce insieme; che non silenzia, ma ascolta. Quella pace che — come ricorda Leymah Gbowee — non significa assenza di conflitto, ma presenza di voce.
Oggi quella voce attraversa il mondo, nei presìdi, nelle piazze, nelle università, nelle strade. È una voce che dice basta alla guerra e al colonialismo e che chiede una pace giusta, non l’ordine dei forti.


l’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 10-10-2025

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Un’apartheid nostrana


di Raffaele Crocco


Di tutti i cinque referendum abrogativi che dovremo affrontare, come elettori, l’8 e 9 giugno, quello sul diritto alla cittadinanza intriga molto.
È il referendum che più racconta delle contraddizioni della democrazia, che ancora oggi pare essere un diritto per alcuni, non per tutti. Come diceva Gino Strada, se un diritto non è universale, si chiama privilegio e l’idea che il nostro Paese da rispetto agli stranieri che ci vivono e magari ci sono nati, è quello di voler discriminare. Pensate alla frase, citata da chi da anni si oppone a qualunque concessione agli stranieri: “la cittadinanza – dicono costoro – bisogna meritarsela”. Una frase così fantasiosa e roboante che viene da chiederci cosa abbiamo fatto tutti noi – a parte avere avuto la fortuna di nascere qui, in questo periodo storico – per meritare di essere italiani certificati.

Detto questo, facciamo un doveroso ripasso. Il referendum chiede di abrogare interamente la lettera F dell’articolo 9 della legge del 1992 sulla cittadinanza. Quella legge dice che «la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del ministro dell’Interno, al cittadino straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio dello Stato» . Questo termine si riduce a quattro anni per i cittadini dell’Unione Europea e a cinque per gli apolidi, coloro che non hanno cittadinanza. Prima di allora, del 1992 intendo, il termine di attesa per la richiesta di cittadinanza era di cinque anni. La riforma – decisamente peggiorativa – venne varata in un clima di crescente stupore e paura: chi è più anziano ricorda, gli altri facciano lavorare la fantasia. Nell’agosto del 1991 erano iniziati gli arrivi massicci di albanesi. Arrivavano su navi mercantili, prese d’assalto nei porti albanesi e costrette a dirigersi in Italia, cariche di esseri umani. Un fenomeno nuovo per noi, allora, addestrati storicamente ad essere Paese di emigranti, non luogo d’immigrazione. Qualcuno – più o meno gli stessi di oggi – iniziarono a usare la cosa per creare paura e insicurezza. Iniziarono a parlare di “invasione straniera”, di “pericolo per le nostre donne e le nostre case”, di “rischio per i posti di lavoro”. L’idea del nemico nacque così: lo straniero divenne – e resta – pericoloso. Tra le varie scelte che vennero fatte, tutte utili ad aprire la strada alle contraddizioni che ancora oggi viviamo sul tema dell’emigrazione, vi fu appunto il varo della legge sulla cittadinanza. Si decise di prolungare il termine dai cinque anni precedenti, ai dieci attuali.

Una decisione che, di fatto, creò e crea un’apartheid nostrana: più di 2,5milioni di persone, che vivono in questo Paese da anni, lavorano, producono ricchezza, pagano le tasse, non hanno alcun diritto politico. Molte di loro, spesso più giovani, in Italia ci sono nate. Vuol dire che stanno studiando qui, sono cresciute qui, pensano, parlano, agiscono come qualsiasi altra ragazza o ragazzo italiani. Eppure, anche se durante le gare sportive tifano Italia e vivono questo Paese come casa loro, vengono trattati da stranieri, da cittadini di serie B. In qualsiasi momento, per qualsiasi bizza burocratica o perché la fabbrica dove il padre o loro lavorano chiude e si perdono così occupazione e permesso di soggiorno, possono essere presi e “rispediti al loro Paese”. Ma loro quel Paese là non lo conoscono, perché si sentono e sono italiani.

Votare SI l’8 e 9 giugno per abrogare quella norma è, quindi, un voto contro l’idea di avere una democrazia monca. Votare SI significa ristabilire giustizia e senso di cittadinanza ad un Paese che pratica un aphartheid subdolo e vigliacco. Il SI è un primo passo per stabilire il principio che la cittadinanza non è un privilegio, ma un sentire comune e condiviso. Soprattutto, deve essere il modo per iniziare a far tacere gli imbecilli che continuano a giocare con le paure e le fragilità di molti. Ancora oggi si sentono slogan che invitano a votare No o a non andare a votare per “impedire ai clandestini di diventare italiani”. Una menzogna clamorosa, raccontata come verità.
Se è vero che una bugia raccontata dieci volte può diventare, grazie alla propaganda, una verità, è altrettanto vero che un’idiozia raccontata cento volte resta una misera idiozia.


L’aricolo è stato pubblicato su Unimondo il 26 maggio 2025

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La strage delle innocenti

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Solo nel 2023, in Italia, 121 donne sono state uccise, ma quella fisica non è l’unica tipo di violenza che gli uomini commettono da secoli contro le donne.
La violenza di genere sfocia negli ambiti più disparati – psicologico, emotivo, economico, lavorativo e non solo – e lascia segni profondi nel corpo e nell’anima.

Attraverso la voce di numerosi professionisti che ogni giorno si battono contro la violenza di genere, questo saggio si pone come vero e proprio kit di sopravvivenza per tutte le donne.
Attraverso le testimonianze di avvocati, criminologi, psicologi e tanti altri esperti è possibile riconoscere i segnali di abuso e, quindi, correre ai ripari.
Un libro non solo per le donne, ma soprattutto per gli uomini: che scendano in guerra, al fianco di mogli, madri, figlie, sorelle e amiche, contro il patriarcato e il maschilismo, per costruire una società davvero libera.

Autore

Gian Ettore Gassani, è un avvocato matrimonialista con studi a Milano e Roma, ha patrocinato in numerosi processi di grande rilievo, presidente nazionale dell’Ami – Associazione degli avvocati matrimonialisti italiani – esperto di Diritto delle relazioni familiari, Diritto penale della famiglia e Diritto di famiglia internazionale.

Gian Ettore Gassani – La strage delle innocenti. Diarkos, 2024

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A Reggio Emilia

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