pace

Dalla “guerra” al virus al virus della guerra: critica della ragione bellica

di Pasquale Pugliese

Chiunque voglia sinceramente la verità
è sempre spaventosamente forte

Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore

Quando nel 2020, insieme alla pandemia, ha cominciato a dilagare il paradigma bellico per narrare l’impegno collettivo per salvare le vite, svolgendo una critica alla banalizzazione della realtà che questo comportava ed ai suoi rischi, scrivevo – tra le altre cose – che il continuo far ricorso al paradigma della guerra, allo sforzo bellico di chi è in “trincea” contro il virus, rimanda alla “ri/costruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare”. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel “ripudio” costituzionale, faceva che sì che – fino a quel momento – veri interventi militari in giro per il pianeta fossero ossimoricamente definiti “missioni di pace”, la guerra – associata ossessivamente all’impegno di chi salva vite umane, invece di ucciderle – era tornata ad essere rivalutata come metafora di valore, anziché di disonore (queste riflessioni oggi si trovano in Disarmare il virus della violenza, 2021). Da lì ad un anno, questo paradigma avrebbe modellato la realtà, inverandosi nella nomina di un generale di corpo d’armata a Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, portando con sé notevoli implicazioni culturali e politiche nella ridefinizione dell’immaginario collettivo, che oggi si stanno manifestando in tutta la loro potenza di fuoco all’interno del passaggio repentino dalla “guerra” al virus al virus della guerra guerreggiata, in cui la “necessità” del coinvolgimento italiano – non in un processo di mediazione e interposizione tra le parti, ma attraverso l’invio di armi a sostegno di una parte (dopo un decennio di vendita all’altra, ndr) – è diffusa ossessivamente nella narrazione pubblica e confermata nelle scelte politiche. Eliminando qualunque possibilità di analisi più complessa dello schierarsi sull’attenti con l’elmetto in testa. 

Il paradigma della logica binaria

Definisce il problema, con la consueta lucidità, anche la politologa Nadia Urbinati nell’editoriale sul quotidiano Domani del 5 marzo del 2022, mettendo a fuoco la logica binaria nella quale siamo fortemente indotti, strutturalmente insita nel paradigma bellico. “Il paradigma della logica binaria ammette una sola direzione di marcia” – scrive Urbinati – “E come ogni approccio monotematico tende ad estremizzare. Crea un ambiente retorico che non lascia (non deve lasciare) spazio al dubbio; che non favorisce un’analisi degli eventi, ma solo reazioni emotive a quegli eventi che trangugiamo come fossero vino buono; che scoraggia la formazione di opinioni interlocutorie e capaci di presentarsi per quel che sono, ovvero punti di vista aperti alla contestazione e alla revisione. Le opinioni che sono confezionate dal rullo compressore del paradigma binario si impongono a noi come fatti granitici e oggettivi – impermeabili al giudizio critico. In questo clima si promuove non la conoscenza degli eventi ma una religiosa adesione. Non si facilita la simpatetica disposizione verso le sofferenze umane, ma si alimenta l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia”.

Il martellamento sull’unica risposta possibile

E’ montata, infatti, con incredibile velocità sui mezzi d’informazione del nostro paese e nelle scelte politiche – quasi unanimi – il martellamento sul dovere di partecipazione attiva alla guerra, attraverso l’invio di armi all’Ucraina (dopo averne venduto per almeno un decennio anche alla Russia, in violazione della legge 185/90 oltre che della Costituzione) come unica risposta possibile, con il corollario dell’esplicita accusa di “filoputinismo” a chi provi ad esercitare minimamente il pensiero critico contro questa nuova banalizzazione della ragione, con una virulenza inimmaginabile solo qualche anno fa, prima della dilagante retorica bellica degli ultimi due anni che ha colonizzato l’immaginario. “Oggi”, osserva il collettivo Wu Ming, “in molte dichiarazioni, in molti titoli di giornale, basterebbe rimpiazzare «Putin» con «il Covid» per vedere che tra le due retoriche belliche c’è piena continuità”. Anche le importanti manifestazioni spontanee per la pace e per la solidarietà con il popolo ucraino sono state “interpretate” non solo in Italia ma da tutti i governi europei, e dai rispettivi parlamenti (quasi senza eccezione) – come in una perfetta distopia orwelliana: “guerra è pace”- come un mandato per indossare mimetica ed elmetto ed entrare di fatto in guerra, aggiungendo ad un incendio altro materiale imfiammabile. Parimenti, come sempre succede in questi casi, l’informazione si è trasformata in propaganda bellica, alimentando un clima di odio anche nei confronti della cultura russa tout court – dal quale è stato incredibilmente travolto perfino Dostoevskij, non al bar ma in una prestigiosa istituzione universitaria – e di accusa di fraternizzazione con il nemico per chi dissente da queste scelte e prova ad articolare un ragionamento un po’ meno banale e più aderente al mandato costituzionale… [segue qui

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 9 marzo 2022

Pacifismo: un’altra prospettiva?

Pace

di Laura Tussi

La pace è da sempre aspirazione centrale dell’uomo.
Con la Pace tutto è possibile, tutto si può realizzare. Con la guerra conta solo la vittoria militare. Tutti noi camminatori delle vie della pace e della nonviolenza ci incontriamo nelle marce, nelle manifestazioni e nei cortei semplicemente per dire no alla guerra. 
Cosa hanno creato e animato i movimenti per la pace nei momenti e negli appuntamenti di massa? ma anche nell’impegno della quotidianità, nelle attività fuori dal clamore e dall’attenzione dei media?
Molteplici narrazioni per riportare sulla scena i protagonisti in carne e ossa, le loro motivazioni e i loro sentimenti, i loro saperi e le loro culture politiche, la loro spontaneità. 

Un’altra prospettiva?
La pace è da sempre aspirazione centrale dell’uomo.
Con la pace tutto è possibile, tutto si può realizzare. Con la guerra conta solo la vittoria militare.
Tutto si fa per la pace, tutto ad essa si sacrifica.
“Prima di tutto la pace” era un diffuso slogan negli anni ‘80 del Novecento.
Per troppo lungo tempo, subculture e politiche prevalenti hanno pensato che la Pace è raggiungibile solo con la guerra. Che la pace altro non fosse che assenza di guerra e il luogo di preparazione della prossima inevitabile guerra.
Solo in tempi recenti si comincia a pensare la pace diversamente: molto di più che assenza di guerra e certo indiscutibilmente assenza di conflitti armati. Solo in tempi recenti si comincia a pensare la pace per via alternativa a quella classica delle armi, come l’arbitrato, i negoziati, il diritto internazionale. E solo in tempi recenti si è pensato a elidere il potere di fare la guerra al sovrano di turno. Chi ha deciso la politica coloniale italiana? La conquista della Libia? Chi la prima guerra mondiale? Chi la seconda? Per secoli il pensiero, la politica, i miti, i riti convergevano sul fatto che la guerra fosse l’unico strumento e unica via per la pace. 

La vera rivoluzione è quando comincia un pensiero alternativo.
Fino ad oggi l’Europa non ha ancora vissuto un periodo di pace duraturo, basti pensare ai conflitti in ex Jugoslavia e nelle nazioni dell’est Europeo, contando anche le cosiddette “missioni di pace” che altro non sono che azioni mirate a sostenere i privilegi predatori di alcune nazioni su altre.
E non molti sanno che il progetto  dell’unione dell’Europa nella pace non con le armi, ma come soluzione per niente guerrafondaia fu propugnata in primis dal pensiero pacifista.
Si pensi al congresso della pace di Parigi del 1849 quello presieduto da Vittorio Hugo, quello che pose l’accento sulla necessità dell’educazione alla pace. Non fu il mondo pacifista a rivendicare che decisioni sulla guerra fossero assunte dai parlamenti e non già dai sovrani e dai governi? E chi pensò al diritto e alle organizzazioni internazionali adeguate per costruire la pace?
Fu un pioniere del pacifismo quale Immanuel Kant.
Poteva nascere l’ONU senza questo pensiero? Il termine pacifismo è stato introdotto tra l’ottocento e il novecento.

Il pacifismo ha una sua storia.
Il pacifismo ha una sua storia e questo deve essere continuamente precisato.
Esso assume il significato di pensiero e pratiche, teorie e movimenti tesi a prevenire e contrastare la guerra, le culture guerresche e violente e i guerrafondai. E a elaborare e sostenere vie alternative per la soluzione di conflitti e di controversie internazionali. 

Un movimento plurale. 
Più forte e incisivo quando è stato capace di essere autonomo e coerente e quando ha coltivato e prodotto idee forti, illuminanti, alterità di pensiero, pratiche coerenti.

È un arcipelago. 
Un pacifismo di teorici, un pacifismo politico e non di partito, un pacifismo dei movimenti, un pacifismo spontaneo delle persone, un pacifismo delle classi sociali. È però poco studiato nella sua pluralità e complessità. Nella sua influenza, nelle sue contraddizioni e risultati.
Forse si pensa che poi comunque le guerre ci sono state, che i pacifisti hanno sempre perso, che non hanno ottenuto nulla. Forse perché l’utopia della pace è rimasta tale? Non è esattamente così.
Si accennava alla semina del pacifismo che ha prodotto raccolti. In alcune fasi il pacifismo è riuscito a condizionare l’azione di leaders politici e governi. Durante gli anni più duri della guerra fredda è riconosciuto che la mobilitazione di massa ha contribuito ad evitare l’uso dell’atomica

Il pacifismo oggi.
E il premio Nobel per la pace del 2017 alla campagna Ican per il trattato di proibizione delle armi nucleari? Autentico e imprescindibile e grande contributo per il disarmo nucleare mondiale che ha coinvolto migliaia di attivisti e centinaia di associazioni in tutto il mondo. Di recente ai movimenti pacifisti è anche ascrivibile in Italia la legge 185/1990 che finalmente ha posto qualche vincolo alla esportazione di armi e è dei pacifisti il merito alla campagna internazionale per la messa al bando delle mine Nobel per la pace del 1997.
E senza l’imponente movimento del 2003 il governo italiano non avrebbe coinvolto pienamente e ancora maggiormente il nostro paese nella guerra di Bush all’Iraq dell’ex amico Saddam? Si possono cancellare gli enormi contributi del pacifismo per controbattere alla glorificazione della guerra, per smentire la convinzione della sua fatalità, per un sapere di Pace? Cenni per dire che l’influenza del pacifismo è ancora tutta da studiare.
Perché quanti si sono opposti alla prima guerra mondiale, con prezzi salatissimi non devono essere considerati soggetti di storia? Il cammino è lungo e tortuoso ma è frequentato.
“È ancora lunga la strada perché la guerra diventi un tabù come l’incesto – afferma padre Alex Zanotelli – ma vi è chi la percorre”. Se pensiamo alle numerose guerre in corso nel mondo dal dopo guerra fredda non rimane altro che prendere atto della sconfitta del pacifismo. Ma sarebbero conclusioni affrettate e errate oltretutto perché non tengono conto dell’enorme sproporzione di mezzi tra pacifismo e guerrafondai. Il pacifismo. Un impegno da non dimenticare, per il futuro e per la storia, se la storia è selezione delle cose da ricordare, per la memoria e il futuro.

L’articolo è stato Pubblicato su Unimondo il 24 Settembre 2021

Tutti gli articoli di Laura Tussi sono anche sul sito PeaceLink.it.
 

La storia viene scritta anche dai “guerrieri”

Pace, un altro modo di guardare il mondo. La guerra vince. Su cosa? Sulla “non guerra” o, meglio, sulla pace. Vince nel nostro vocabolario affollato di parole come “schieramento”, “militante”, “battaglia”. Vince nella memoria collettiva che dimentica i gesti di tregua e trattiene solo quelli di sopraffazione. Vince perché, nel pieno di una terribile crisi economica, stiamo per comprare 90 cacciabombardieri alla modica cifra di quasi 12 miliardi di euro. …