Guerra

Ancora propaganda di guerra ed esaltazione della violenza sui media e tra gli intellettuali italiani

di Pasquale Pugliese

Sembrava che il dibattito italiano innescato dalla guerra russo-ucraina avesse esploso tutto il bellicismo possibile nel nostro paese e che stesse chiudendosi la stagione della caccia pubblica al “nemico interno” (in quanto “amico” del nemico esterno), come testimoniano le parole private della presidente del Consiglio Giorgia Meloni ai comici russi in cui dice, testualmente, “la verità”, ossia che “stiamo aspettando un qualsiasi negoziato affinché Ucraina e Russia fermino questo conflitto”, perché “siamo vicini al momento in cui tutti capiranno che abbiamo bisogno di una via d’uscita che possa essere accettabile per entrambi senza distruggere il diritto internazionale”. Quindi che c’è bisogno di un negoziato tra i governi russo e ucraino, come da sempre indicano i pacifisti di Europe for peace di fronte all’irrazionale retorica pubblica della “vittoria” che macina, invece, centinaia di migliaia di vite mandate al macello da entrambe le parti.

Invece non avevamo previsto la nuova ondata di bellicismo estremo, diventato presto esaltazione della vendettascatenato sui media nazionali dalla strage terrorista di Hamas del 7 ottobre e dalla rappresaglia infinita del governo israeliano (mentre scrivo siamo già ad un rapporto di uno a dieci tra vittime israeliane e vittime civili palestinesi, contandole solo dall’ultimo mese). Da un lato si riesumano le sempre verdi regole della propaganda bellica, usate non solo per convincere i recalcitranti cittadini italiani della necessità di sostenere ogni nuova guerra del “Bene”, per definizione, contro il “Male” – indipendentemente da quanto il bene faccia male schiantandosi con le bombe su vittime innocenti, spesso bambini – ma usate in funzione del gioco politico nostrano volto a indicare come amico dei nemici chiunque abbia non dico una visione complessa, anziché dicotomica, ma anche solo pietà per tutte le vittime, anziché per quelle di una parte sola. Dall’altro lato, per giustificare l’ingiustificabile, ossia il massacro in corso in Palestina ad opera di un governo “amico” che genera una catastrofe umanitaria ignorando le risoluzioni dell’ONU, “intellettuali” liberali di primo piano scrivono odi alla guerra che ricordano quelle del Futurismo: “guerra, sola igiene del mondo”.

La propaganda di guerra è un dispositivo antico quanto la guerra stessa codificato da Arthur Ponsonby, politico pacifista inglese, dopo la prima guerra mondiale, analizzando gli inganni messi in atto dalla propaganda di tutte del parti in conflitto. La storica belga Anne Morelli ne ha fatto una verifica alla luce delle guerre successive, fino all’aggressione militare Usa dell’Iraq del 2003, nelle quali i Principi elementari della propaganda di guerra (2005) risultano confermati, adattati ai diversi contesti, per convincere le opinioni pubbliche di fronte agli enormi costi umani ed economici di ogni guerra. Ecco l’elenco: 1. Non siamo noi a volere la guerra, ma siamo costretti a prepararla e a farla; 2. I nemici sono i soli responsabili della guerra; 3. Il nemico ha l’aspetto del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); 4. Noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; 5. Il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; 6. Il nemico usa armi illegali, noi rispettiamo le regole; 7. Le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; 8. Gli intellettuali e la stampa sostengono la nostra causa; 9. La nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); 10. Quelli che mettono in dubbio la propaganda sono traditori. Elementi propagandistici reiterati sui media italiani, dalla guerra in Ucraina alla guerra in Palestina, da commentatori con l’elmetto in servizio permanente effettivo, spesso ignoranti nel merito dei conflitti.

Superati solo dai veri e propri elogi della guerra tout court di commentatori come Ernesto Galli della Loggia che sul Corriere della Sera del 5 novembre 2023 non solo rivaluta gli effetti collaterali di quella ”inutile strage” (papa Benedetto XV) che fu la prima guerra mondiale, dimenticando che i principali furono la nascita di fascismo e nazismo – oltre i sedici milioni di morti causati in quattro anni – ma esalta anche le stragi delle popolazioni tedesche nelle città che furono rase al suolo dai bombardamenti dei “buoni” durante la seconda guerra mondiale: ossia “uccidere anche civili innocenti, anche donne, vecchi e bambini, di uccidere per uccidere. Cioè di commettere quelli che attualmente almeno tre o quattro trattati e convenzioni internazionali definiscono crimini di guerra” (sic!). Obsolescente/mente, stragi “a fin di bene” che giustificano oggi i crimini di guerra israeliani.

Come se, da allora in avanti, proprio per evitare il ripetersi di quei crimini (che culminarono nella bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki) non fosse stato costituito dai “Popoli della nazioni unite” un Ordinamento e un Diritto internazionali proprio per “liberare l’umanità dal flagello della guerra”. Come se l’Italia, ispirandosi alla Carta dell’ONU non si fosse data una Costituzione che tra i Principi Fondamentali prevede il “ripudio della guerra” non solo come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” ma anche come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionale”. Principi e mezzi di civiltà, dimenticati i quali, anziché “farli durare e dargli spazio” come direbbe Calvino, non rimane che la barbarie. Nella quale infatti stiamo precipitando.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 12 novembre 2023
La foto è di ArtTower da Pixabay 

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Raffaele Crocco: “La pace non dev’essere la fine di una guerra, ma la normalità”

di Laura Tussi

Quella di Raffaele Crocco è una vita spesa a costruire e montare reportage e a portare testimonianze dai vari luoghi di conflitto armato nel mondo per contribuire prima di tutto a un’informazione seria, vera, equa, giusta. Oltre a essere giornalista Rai e inviato di guerra infatti, Raffaele è anche direttore di due progetti divulgativi, Unimondo e Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, che trattano di vari temi che spaziano dalla nonviolenza ai conflitti nel mondo, senza dimenticare ovviamente l’attuale e stringente situazione in Ucraina.

Come si pongono Unimondo e Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo rispetto a queste prospettive apocalittiche, ma che possono con il tempo concretizzarsi e diventare realtà, soprattutto tramite l’escalation bellica tra le due superpotenze coinvolte nel conflitto ucraino?
Noi che siamo pacifisti e nonviolenti non parteggiamo per una parte o per un’altra, anche se cerchiamo di comprendere e studiare le motivazioni geopolitiche di entrambe. Ma ci si rende sempre più conto che la ragione non sta e non sarà mai con il potere guerrafondaio, con il militarismo a oltranza, con il reclutamento di miseri uomini per la guerra, con il continuo invio di armi in questa congiuntura bellicista e oscurantista e guerrafondaia.

È proprio da ogni singola persona, dalla gente che scende nelle piazze contro la guerra che deve partire un’emanazione di pace. Dobbiamo a tutti i costi costruire la pace. Fare convergenza di popoli, genti, minoranze con energie fisiche e emotive e creatività a oltranza per ottenere la pace tramite la nonviolenza attiva che parte da ogni singola persona – per approfondire questi concetti si legga il saggio Resistenza e Nonviolenza creativa. I cittadini dal basso in ogni angolo del pianeta possono fare la pace, parafrasando le parole di Gino Strada. È necessario una presa di posizione pacifista di tutte le popolazioni senza farsi intimorire dalle strategie belliciste, militariste, guerresche dei poteri forti.

Raffaele Crocco, come argomenti queste affermazioni sui tuoi canali divulgativi?
In realtà la risposta è più semplice di quanto sembri: la pace è la cosa più intelligente che possiamo proporre. Dobbiamo lavorare su questo, trasformando il pacifismo in atto politico, cioè nella costruzione concreta di una società che sappia misurare con esattezza e convenienza i benefici della pace. Una società che si fondi sul rispetto dei diritti umani e che in quel rispetto trovi nuove formule per la distribuzione della ricchezza, l’uso delle risorse naturali e l’applicazione dei diritti individuali e collettivi.

È una rivoluzione che va portata avanti anche sul piano culturale?
Se ci pensiamo, consideriamo normalità la guerra e questo è semplicemente stupido. È come se considerassimo normale vivere ammalati, con qualche momento eccezionale in cui siamo sani. Ora, questa idea che a molti appare irrealizzabile è invece una strada percorribile. Noi abbiamo gli strumenti e le conoscenze per rendere reale questo progetto. Allora, andiamo per gradi: la cosa magnifica sarebbe iniziare a parlare di Pace in tempo di Pace. Intendo che dovremmo smetterla di legarla sempre alla fine di una qualche guerra. Questo ci costringerebbe a usare parole nuove e diverse. Soprattutto ci porterebbe a leggere la storia in modo differente e a immaginare l’educazione, la scuola, come luoghi di costruzione della cittadinanza attiva.

Una costruzione e una costruzione lenta, inesorabile, difficile, inflessibile, quotidiana, che coinvolge tutti e ciascuno. Un agire – la pace è azione, non immobilismo o indifferenza – che trasforma “l’utopia” in concretezza. Noi sappiamo esattamente cosa fare. Sappiamo che la guerra è effetto, non causa. Vuol dire che arriva là dove diritti umani, libertà, equa distribuzione del reddito restano lettera morta.

In tutto questo il ruolo dell’informazione è fondamentale. Credo, con tutta la prudenza del caso, che lo sviluppo della rete abbia portato benefici abbattendo costi, pigrizie e creando buona informazione. Si sono moltiplicate le testate impegnate nel diffondere cultura della pace e nel dare notizie precise di ciò che accade nel Pianeta. L’informazione poi si è moltiplicata nelle occasioni pubbliche di incontro, stimolando curiosità e interesse.

Consideriamo normalità la guerra e questo è semplicemente stupido. È come se considerassimo normale vivere ammalati, , con qualche momento eccezionale in cui siamo sani

Qual è il ruolo del movimento pacifista in tutto ciò?
Altrettanto importante però è il lavoro “pratico”, creato da gruppi, associazioni e ONG pronte ad operare sul campo, sia intervenendo nelle emergenze e nella salvaguardia reale del diritto umanitario, sia operando nei territori per far crescere la cittadinanza consapevole, legando i principi del consumo responsabile, della crescita sostenibile, del rispetto dell’ambiente e dei diritti alla grande partita nella costruzione quotidiana della Pace. Nei fatti, oggi possiamo probabilmente contare su una rete operativa e consapevole molto più presente e solida di trent’anni fa. Magari è meno appariscente.

La militanza si manifesta molto meno nella partecipazione alla protesta in piazza, ma è forte e la troviamo nella piccola, ma diffusa e responsabile azione quotidiana. Abbiamo conoscenza, strumenti e voglia di cambiare le cose. È essenziale smetterla di pensare sia impossibile. È fondamentale mettersi alle spalle le grida e gli slogan di chi sguaina la spada e grida alla guerra come “inevitabile”. La storia non è non sarà dalla loro parte. Non per bontà. Semplicemente per intelligenza.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 12 maggio 2023

Foto di Kiều Trường da Pixabay

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Crisi, transizione e accumulazione

(Il fantasma di Elisabeth Sutherland)

di Gianni Giovannelli

Fury, rage madness in a wind
sweet through America

(William Blake, America, X)

Dentro l’attuale transizione – durante il passaggio, cioè, dal vecchio modo di produzione fordista all’attuale struttura economica finanziarizzata – assistiamo, in sequenza, variegata ma continua,  all’attuazione di scelte istituzionali e di decisioni imprenditoriali che concretano un progetto di accumulazione originaria, naturalmente aggiornato e contestualizzato, così da poter essere lo strumento con il quale il nuovo assetto capitalistico intende ottenere un dominio pieno e incontrastato, piegando alle proprie esigenze di profitto gli abitanti di ogni territorio. Come nel passato anche questa nuova accumulazione deve caratterizzarsi necessariamente in una acquisizione coattiva e violenta delle risorse monetarie (ma non solo monetarie) da mettere in circolazione, per impiegarle e trasformarle in (plus)valore. L’evento eccezionale consente, direbbe Carl Schmitt, l’uso dello stato di eccezione da parte dell’istituzione politica; in effetti tutti i governi, compreso quello italiano, non esitano ad invocare come inevitabili misure qualificate straordinarie  nel momento della loro introduzione, ma concepite invece fin da subito come permanenti. La moderna forma stato, in tutte le sue concrete sedimentazioni e pur con indubbie differenze, vive in simbiosi con la crisi, di essa si nutre, tanto che, quando tarda a manifestarsi o si presenta troppo tenue, viene sollecitata, provocata, stimolata, accresciuta rimuovendo i freni. Per sottomettere la moltitudine precaria e meticcia, e vincere lo scontro aperto in questa transizione, la violenza assume un ruolo strategico, il capitale non può non usarla che a piene mani; il ricorso a metodi tipici dell’accumulazione originaria non è affatto un ritorno al passato o, tanto meno, una rievocazione del fascismo inteso come riproposizione di un sistema ormai consegnato alla storia del secolo scorso. Le suggestioni nostalgiche proposte da segmenti reazionari e/o razzisti nei parlamenti europei vengono usate, in congiunzione o in contrapposizione controllata, insieme alle istanze liberal(i) volte ad ottenere trattamenti paritari nelle società civili. È dunque l’invenzione di un moderno dispotismo, assai articolato nella sua formale veste giuridico-statuale, molto simile nei suoi interventi di gestione politico-economica a breve termine. Il vecchio fordismo era un sistema dotato di una sua stabilità, a patto che si salvaguardasse la permanenza dell’aumento di produttività, per consentire l’incremento contemporaneo del salario reale e del profitto. Tuttavia, a partire dagli Anni Ottanta, si è consolidato il capitalismo cognitivo e finanziarizzato, poi evoluto in un capitalismo delle piattaforme; ma ciò ha comportato anche una instabilità strutturale, non rimuovibile con i provvedimenti di tipo fordista. È la crisi che alimenta il capitalismo, non viceversa: per questo proprio durante l’insorgere di una crisi il capitalismo si rivitalizza, cresce e non soffre.

Questo spiega la mobilità contraddittoria delle alleanze, il continuo mutamento delle ideologie rivendicate (sovranismo, monarchia, parlamentarismo, presidenzialismo e così via), la coerenza nell’incrementare la spesa militare e nell’attaccare il sistema di diritti sociali, ogni forma di residuo welfare (per quanto attenuato). Neppure vi è contraddizione fra un alto livello di sviluppo scientifico-tecnologico e l’utilizzo, dentro la transizione, di meccanismi tipici dell’accumulazione originaria, per accelerare il processo di trasformazione e/o incrementare il profitto. Anzi. Per riuscire a mettere a valore l’intera esistenza della generalità degli abitanti di un territorio è utile togliere loro ogni risorsa, sottrarre qualsiasi diversa alternativa, perfino quella di autarchica autonomia mediante piccole collettività insediate in luoghi appartati. Il capitale del XXI secolo è più feroce di quello che lo ha preceduto, non concede tregua, non tollera diserzioni  e resistenze, in nessuna forma e di nessun genere.

La duchessa di Sutherland

Il 21 gennaio 1853 uscì sul diffuso quotidiano New York Daily Tribune, espressione della linea politica antischiavista, un articolo di Karl Marx, al solito irriverente e ironico, che poneva all’attenzione del pubblico la figura della (defunta) duchessa scozzese Elisabeth Sutherland (1765-1839) e, sia pure indirettamente, del marito George, esponente del movimento Whig in cui pure si riconosceva il foglio che ospitava il pezzo (nota 1). C’era clima di crisi in quei giorni; dopo le elezioni la maggioranza si reggeva per soli sei voti, il tasso di sconto era cresciuto, i cereali scarseggiavano per via del cattivo raccolto, montava la speculazione su ferro e ghisa scozzese con crescita esponenziale del prezzo di mercato, non si placava la polemica sulla schiavitù avvicinando il tempo della ormai inevitabile guerra civile americana. Il liberalismo inglese era schierato per l’abolizione, con molta foga, senza tuttavia concedere nulla ai “liberi operai” del Regno Unito, che, in patria, subivano una costante repressione e angherie di ogni sorta. Marx non perse una ghiotta occasione per mettere i democratici europei alla berlina, rievocando quanto era accaduto, fra il 1814 e il 1820, nelle Highlands grazie alla sua duchessa, Elisabeth. L’articolo spiega come funziona in concreto il meccanismo di accumulazione originaria, dalla teoria alla pratica; e per questo rimane utilissimo anche oggi.

Pecore al posto di umani

Nel 1814 la duchessa di Sutherland ereditò i vasti territori delle isole; ci vivevano 3.000 famiglie, per un totale di circa 15.000 anime, e la terra era in uso comune, non del singolo agricoltore ma della collettività che abitava il territorio, nel suo insieme. Nessuno pativa la fame, il costo dell’affitto era modesto, sostenibile. Un illuminista scozzese, Dugald Stewart (1753-1828), calcolò che un campo coltivato nelle Highlands forniva sostentamento a un numero di persone dieci volte superiore rispetto ad uno di grandezza identica situato nelle province più ricche del Regno Unito (opere, volume 1^, capitolo XVI).

Purtroppo per gli abitanti l’agricoltura rendeva meno del pascolo alla duchessa, che, fra il 1814 e il 1820, ordinò di bruciare e distruggere i villaggi scatenando l’esercito contro chi resisteva alla deportazione e non esitando a passare i ribelli per le armi. Quindicimila Gaeli furono sostituiti da 131.000 pecore, divise in 29 allevamenti affidati a 29 famiglie (per lo più inglesi) che sostituirono le tremila indigene. I superstiti si videro assegnare seimila acri (poco meno di 15.000 ettari) abbandonati e incolti, ma non più in gestione collettiva bensì dietro pagamento di un elevato compenso per uso solo singolo. Gli esseri umani erano impoveriti, ma i profitti invece risultavano assai cresciuti, con l’aggiunta anche di una rendita fondiaria. La duchessa Elisabeth era una convinta abolizionista, sosteneva le ragioni degli antischiavisti già nei primi anni del suo secolo; evidentemente la filantropia, come ai giorni nostri, cerca beneficiati il più possibile lontani da casa propria!

Dispotismo e accumulazione primitiva

In un arco di tempo ridotto (2020-2023) si sono susseguite e accavallate tre crisi diverse, tutte con effetti e conseguenze di notevole peso per i soggetti che le hanno subite e per l’economia nel suo complesso: pandemia/sindemia, guerra russo/ucraina, banche/moneta/inflazione. Il neo-capitalismo finanziarizzato ha colto l’occasione per forzare le tappe del processo di sussunzione già avviato, attaccando ogni resistenza, ogni possibile opposizione.

L’emergenza sanitaria ha consentito, nel biennio 2020-2021, di limitare il diritto di critica e di sciopero, di accelerare ulteriormente la compressione dei salari e la precarizzazione anche mediante provvedimenti per decreto, di introdurre la delazione (intesa quale dovere civico) nelle comunità territoriali, di aggredire la sanità pubblica consegnando a quella privata ingentissimi profitti con imposizione fiscale agevolata grazie agli accordi europei sul costo del vaccino e sulle modalità di pagamento (ma anche grazie alle convenzioni nazionali sulla cura e sul costo dei farmaci). L’ingerenza dell’autorità, imposta agitando il timore del contagio, si è consolidata in un accettato autoritarismo e questo va evolvendosi in un moderno dispotismo che non ammette forme di reale opposizione o resistenza. Il governo, dentro la pandemia, poteva decidere con totale discrezionalità quel che si era autorizzati a produrre e/o vendere; in quei giorni le imprese della logistica e delle armi non subirono alcun fermo o limitazione, benché depositi e fabbriche si trovassero in località epicentro del contagio, con incremento geometrico dei profitti di quei settori merceologici. Perfino i vaccini e gli autisti furono in qualche modo “militarizzati”.

A seguire, dal febbraio 2022, la guerra in Ucraina ha consentito (e giustificato ideologicamente nella comunicazione) un formidabile attacco alle condizioni di vita dei ceti popolari. L’aumento dei costi dell’energia elettrica è stato il pretesto per una crescita incontrollata del prezzo dei generi di prima necessità, quali pane, pasta e frutta; l’incremento del costo di gestione delle autovetture private e del riscaldamento domestico ha colpito soprattutto i redditi più bassi; in generale i maggiori oneri provocati dalle sanzioni antirusse hanno comportato, per naturale conseguenza, un prelievo a strascico di risorse, sottratte ai meno abbienti, che si è poi concretato in un rilevante allargamento della forbice ricchezza/povertà e, al tempo stesso, in profitti enormi sia per i monopolisti dell’energia sia per quelli dell’industria militare, che già godevano di posizioni privilegiate. Il costo del gas era pari ad Euro 0,084 nel terzo trimestre del 2020, poi era salito ad Euro 0,285 nel terzo trimestre del 2021 (ancora anteguerra), toccando il picco di 1,247 nel dicembre 2022 (dopo l’attentato alle condotte) per poi scendere ad Euro 0,608 nell’aprile 2023 (in regime di tutela). Al termine dell’operazione complessiva (che ha consentito guadagni immensi) il prezzo dell’erogazione rimane comunque almeno sette volte superiore a quello del 2020, ma non troppo dissimile da quello di inizio guerra, segno palese di una crisi fraudolenta. Il conflitto fra Russia e Stati Uniti, trasformato dalla propaganda dei due governi in guerra patriottica, si è risolto in una generalizzata riduzione del livello medio di vita, in un impoverimento complessivo che rende più debole la resistenza dei corpi messi a valore e più forte il dominio sulle esistenze dei subordinati.

Ed ora le conseguenze dei fallimenti bancari americani si vanno legando all’inflazione già in essere durante la guerra, al minor costo del lavoro, alle fluttuazioni monetarie, esaltando uno stato di crisi i cui costi sono risolti con il vistoso ulteriore calo della spesa pubblica, con il taglio di residue forme di Welfare, con sempre più diffuse forme di prelievo che invadono ormai l’area dei trattamenti previdenziali e perfino pensionistici.

Il susseguirsi delle crisi diviene, con sempre maggiore evidenza, lo strumento necessario per attuare il disegno neocapitalistico di finanziare il costo della transizione mediante forme moderne della storica accumulazione originaria. E poiché la violenza assume un ruolo strategico in ogni passaggio di accumulazione c.d. primitiva, non può stupire la scelta di usare la guerra su larga scala territoriale (non solo in Ucraina!) e la coazione come strumento di governo (il dispotismo: quello democratico, quello teocratico, quello liberista, quello del c.d. socialcomunismo reale). In veste nuova siamo di fronte alla formazione violenta del capitale nella transizione.

La questione del salario minimo

Il recente rapporto OIL (Organizzazione Internazionale Lavoro) presentato a Roma il 22 dicembre 2022 conferma il continuo processo di riduzione del salario in Italia; fra il 2019 e il 2022 la fascia di retribuzione più bassa è passata da 9,6% a 10,5%, certificando come anche all’interno degli occupati sia in aumento la povertà. Durante la doppia crisi pandemia-guerra, per la prima volta nel XXI secolo, nel corso del 2022 la diminuzione del salario reale è registrata su scala mondiale, sia pure in piccola percentuale; in Italia l’erosione del salario è stata di 6 punti percentuali (12 punti nel periodo 2008-2022). I dati forniti dall’OCSE nel 2021 (a pandemia in corso) confermano come l’Italia sia l’unico paese europeo in cui le retribuzioni di fatto siano diminuite nel trentennio 1990-2020 (2,9%); per contro la Lituania (che però partiva da una base assai contenuta) mostra una crescita del 276%, la Grecia del 30,5% e la Spagna del 6,2%. Sono in linea i dati ISTAT: fra il 2007 e il 2020 le entrate reali dei lavoratori sono scese almeno del 10%, mentre sono cresciute le imposte a loro carico del 2% e si è invece ridotto l’importo previdenziale a carico delle imprese (4%). Con poche eccezioni nel pianeta lavorare porta meno introiti e lo sciame precario -se si tiene conto del costo necessario per esistere- si avvia verso una povertà democratica (nel senso di ugualitaria) che pone all’ordine del giorno la questione del salario minimo come argine al peggio visibile osservando l’orizzonte.

Le organizzazioni sindacali, con sempre meno iscritti, mostrano segni di evidente debolezza e di propensione al cedimento inteso come male minore (a prescindere dai crescenti episodi di patrocinio infedele o di corruzione, che, per quanto ignobili, non spiegano tuttavia quanto sta avvenendo). La contrarietà del sindacato all’introduzione di una soglia di salvaguardia a tutela di chi vive lavorando viene motivata, in modo per la verità assai poco convincente, con la necessità di non rompere il fronte dei lavoratori uniti, difendendo l’istituto del contratto collettivo ed evitando l’atomizzazione delle retribuzioni. Ma sul campo un simile progetto è rimasto senza riscontro, è apparso senza gambe per camminare, mettendo solo a nudo l’incapacità di reagire al costante attacco del moderno capitale. Significativa appare la pronunzia della Corte d’Appello di Firenze (sentenza n. 68 del 28 marzo 2023) che ha dichiarato la nullità del CCNL sottoscritto da CGIL CISL e UIL per il settore dei Servizi Fiduciari, ravvisando nei minimi retributivi accettati dalle OO.SS. la violazione del precettivo articolo 36 della Costituzione in punto di un c.d. minimo vitale. Utilizzando quale parametro di adeguatezza la soglia di povertà individuata da ISTAT  e esigenze minime di un essere umano vivente in Toscana la Corte (una Corte peraltro tradizionalmente prudente nelle sue statuizioni) ha rilevato che il corrispettivo previsto dal contratto nazionale di settore si collocasse in una fascia inaccettabile secondo i principi della nostra Carta. E’ il segnale di una crisi operativa dell’istituzione-sindacato, di una abdicazione che lascia scoperta la casella di quel ruolo che nel secondo dopoguerra era stato tradizionalmente riconosciuto dai governi occidentali.

È ben vero che il limite dell’art. 36, almeno in astratto, dovrebbe garantire a tutti, senza bisogno di una norma specifica, il salario minimo; ma si tratta in realtà di pura ipocrisia, non è pensabile che per ottenere in concreto il risultato un lavoratore sottopagato debba ingaggiare un legale e rivolgersi, senza risultati certi, a un Tribunale! Dunque si pone come un obiettivo necessario e realistico quello di rivendicare una chiara legge, di poche righe, che imponga una soglia minima inderogabile a compenso dell’ora e della giornata di lavoro effettivo (in tempi di lavoro intermittente, di prestazione da remoto, di esecuzione spesso discontinua il riferimento non può essere solo orario, ma in alternativa anche giornaliero). Non è certamente un programma rivoluzionario, ma, in una situazione di debolezza e di trincea difensiva, pare oggi anche l’unico che può trovare gambe per camminare e conquistare vasta adesione.

La povertà in aumento è una scelta lucida del potere, non un incidente di percorso.

Le crisi che caratterizzano questo terzo decennio del secolo hanno accelerato sia l’allargamento della forbice fra ricchezza e miseria sia l’incremento al momento inarrestabile della quota di soggetti costretti ad un’esistenza indigente. La fascia di povertà assoluta (629,29 Euro mensili, ISTAT, 2021) toccava già 1,9 milioni di famiglie, 5,6 milioni di persone, il 7,5% degli abitanti in quella che Giorgia Meloni chiama nazione italiana (CENSIS, 2 dicembre 2022)La povertà relativa (qui il parametro varia, possiamo collocarla intorno a 826,7 Euro) comprende 2,9 milioni di famiglie, 8,8 milioni di persone, 11,1% del paese. Entrambe crescono senza sosta, l’ISTAT valuta in 18 milioni i soggetti a rischio; il CENSIS (ultimo rapporto sulla situazione sociale in Italia) ritiene, in ragione dei dati acquisiti, che gli individui soggetti al rischio di povertà o di esclusione sociale o in condizioni di grave deprivazione sono ormai il 25,4% della popolazione (uno su quattro), e il 32,4 fra gli stranieri (uno su tre).

Contribuisce all’impoverimento complessivo il costo di un bene necessario quale è la luce elettrica per uso domestico. Le fonti statistiche ARERA evidenziano un costo pari a 18,84 Euro per KW/H nel 2016, sceso a 16,08 nel 2020, poi impennato a 46,3 Euro e a 66,01 Euro nel 2022 (crisi di guerra) per poi assestarsi nel 2023, dopo il prelievo forzato, a 23,75 Euro. Dopo il referendum lo stato, per una sorta di vendicativa ritorsione, ha deliberatamente omesso di investire sulla manutenzione della rete idrica; per conseguenza le perdite aumentano e (in piena crisi di siccità) si collocano ora ben oltre la soglia del 40% (almeno 42% secondo ISTAT) e almeno 18 milioni di residenti non hanno collegamento con la rete. L’Istituto di Statistica segnala che il 28,4% della popolazione non beve acqua di rubinetto perché “non si fida” consentendo all’industria legata a quella minerale un aumento quasi geometrico del profitto, godendo di concessioni scandalosamente a buon prezzo, senza alcuna concorrenza del pubblico. L’impoverimento genera profitto, l’impoverimento crea valore.

Casa e risparmio: il cerchio si chiude

Il rapporto Federproprietari-Censis del 12 dicembre 2022 indica una percentuale di chi vive nella casa di proprietà pari al 70,8%, mentre il 20,5% abita in locazione (la parte residua in usufrutto o per diverse ragioni senza versare corrispettivo). Fra il 2010 e il 2019 il prezzo medio degli immobili è cresciuto del 19,4%, mentre in Italia, proprio per la maggior diffusione della proprietà, è salito meno, del 16,6%. Al tempo stesso, nelle metropoli italiane (e non solo nelle metropoli) cresce la propensione all’investimento immobiliare, attirando capitale estero. Con l’inflazione, e dentro la crisi degli istituti bancari privati americani, il capitalismo contemporaneo aggredisce il risparmio di famiglia (caratteristica molto italiana, per qualità e quantità); con l’aumento dei costi di gestione delle case in concreto abitate e il contemporaneo disegno europeo di ristrutturazione energetica coattiva si prepara l’aggressione a questa ulteriore sacca di resistenza popolare.

La spesa militare – cresciuta fino a 28,7 miliardi, ovvero 1,54% del PIL – assorbe ogni investimento e lo sottrae sia alla sanità, sia alla ricerca, sia ovviamente al c.d. sociale. La crisi di guerra viene evocata per legittimare come inevitabile una scelta che invece la precede, con una continuità incontestabile fra governo Draghi e governo Meloni. La soppressione di quel che residuava del modesto reddito di cittadinanza si colloca con assoluta coerenza nel piano generale in via di attuazione.

Sussunzione formale e sussunzione reale si intrecciano, in attesa che il mosaico del dispotismo che caratterizza questo susseguirsi di crisi dentro la transizione consenta alla seconda di inglobare la prima. La rimozione di ogni sicurezza e il costante incremento dell’area di povertà (relativa e assoluta) sono la via violenta per mettere l’esistenza a valore; ancora una volta la violenza si rivela una forza produttiva. Il fantasma della duchessa Elisabeth Sutherland si aggira in Europa, anzi nel pianeta.

NOTE
1. Marx Karl, “La duchessa di Sutherland e la schiavitù”, in Opere, 2021, volume 11, pag. 511, traduzione di Elsa Fubini.

L’articolo è stato pubblicato il 2 maggio 2023 su Effimera e in contemporanea su Machina-DeriveApprodi e su El Salto tradotto in spagnolo.

Foto di RMN da wikimedia

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Noam Chomsky: “Il cambiamento può avvenire solo attraverso la protesta di massa della gente comune”

di Europe for Peace

Nel 2007, abbiamo chiesto a Chomsky di sottoscrivere la dichiarazione di Europa per la pace e di appoggiare la campagna per impedire la costruzione dello Scudo spaziale americano nella Repubblica Ceca, progetto fortemente contestato dalla stragrande maggioranza della popolazione. Chomsky ha subito aderito, citando nel suo messaggio l’appello che Russell ed Einstein avevano scritto a tutti i popoli del mondo “affinché affrontassero il fatto che siamo di fronte a una scelta rigida, terrificante e inevitabile: metteremo fine alla razza umana o l’umanità rinuncerà alla guerra?”.

Quel manifesto è il più importante documento di denuncia mai scritto sulla minaccia rappresentata dalle armi nucleari per il genere umano e ricorda che “qualsiasi accordo sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe H non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra”.

“Le minacce – ci scrisse allora Chomsky – sono sempre più gravi e l’Europa è nella posizione ideale per intraprendere la missione storica di salvare la razza umana dall’autodistruzione”.

Ma ora che l’Europa si ritrova a vivere sul proprio suolo una guerra devastante, Noam sosterrebbe ancora quell’affermazione? Gli scriviamo quindi per chiedergli se è possibile che l’Europa cambi rotta o se l’Europa è ormai così sottomessa agli USA d’aver perso definitivamente la sua possibilità di salvare la razza umana dall’autodistruzione, per citare le sue parole.

“Come ho già detto recentemente – ci risponde Chomsky – Putin ha fatto a Washington il più grande regalo che gli USA potessero immaginare. L’Europa adesso è nelle mani di Washington e, per certi versi, è ancora più pazza degli Stati Uniti. L’opportunità di una “Casa Comune Europea” indipendente è ormai perduta? Per ora temo di sì, ma i vantaggi che l’Europa può trarne sono talmente enormi che la casa comune può forse risorgere nuovamente, con un’altra vittoria come quella che avete ottenuto voi con la base USA”.

La sua affermazione che una casa comune europea potrebbe risorgere getta una nuova luce sulla situazione. Gli chiediamo allora se pensa che il cambiamento possa partire dall’alto o se potrà avvenire soltanto attraverso una protesta di massa da parte della gente comune. Quali passi fare per porre fine a uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per tutte le parti? È ancora possibile trasformare il rifiuto della guerra in un movimento di massa, anche se le vecchie forme sono fallite e la disintegrazione del tessuto sociale sembra impedire ogni azione comune?

“Concordo sul fatto che il cambiamento possa avvenire solo attraverso la protesta di massa della gente comune. Piccoli gruppi di attivisti impegnati possono lavorare per aumentare la comprensione e ispirare l’attivismo, ma sono movimenti di massa che contano. Difficile pensare a un’eccezione. Potrà accadere? Non si sa mai. Possiamo solo provarci”.

Sì, vale la pena di provarci, perché c’è ancora tempo per un’inversione radicale di rotta.

Il 2 aprile, in tutta Europa e in tutto il mondo, spegniamo allora le televisioni e i social network, spegniamo la propaganda di guerra e le informazioni manipolate. Mettiamo da parte le nostre differenze e convergiamo in una miriade di attività differenti ma con un unico obiettivo –  la pace – e con una chiara metodologia – la nonviolenza attiva –  perché la guerra non si ferma con le armi, ma con la pace.

“Sono molto contento di sapere cosa state facendo. È molto importante” ci risponde Chomsky quando lo informiamo di quest’iniziativa, perché “se c’è la volontà, è possibile evitare la catastrofe e virare verso un mondo molto migliore”.

Europa per la Pace

Il 2 aprile spegniamo le guerre e accendiamo la pace

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 2 marzo 2023 ed è disponibile anche in Spagnolo
La Foto è di Andrew RusK da Wikipedia

Noam Chomsky: “Il cambiamento può avvenire solo attraverso la protesta di massa della gente comune” Leggi tutto »

E’ tempo di dispiegare gli strumenti della ragione anziché le armi della follia

Note su un anno di guerra in Ucraina e nelle nostre menti, in dialogo con Edgar Morin

di Pasquale Pugliese

Già in tempi cosiddetti normali, è predominante
la conoscenza compartimentata e decontestualizzata.
Quando imperversa l’isteria fanatica o l’isteria di guerra,
essa diventa sovrana e provoca l’odio di ogni conoscenza complessa
e di ogni contestualizzazione.

(Edgar Morin, Di guerra in guerra)

Per fare riflessioni dotate di senso in occasione di questo primo anno dall’invasione russa dell’Ucraina, tra le tante pubblicazioni uscite, suggerisco anche la lettura di un libretto tanto denso quanto essenziale, ossia di “Di guerra in guerra” (Raffaello Cortina, 2023), che raccoglie le riflessioni di Edgar Morin sulla guerra, il quale nella sua lunga vita (101 anni e una chiarezza di analisi e visione inarrivabili dalla maggior parte degli “analisti” che da dodici mesi ripetono su tutti i media il mantra del circolo vizioso più armi-più guerra-più armi) ha partecipato attivamente alla resistenza contro il nazifascismo ed ha osservato con sguardo lucido le tante guerre che da allora hanno tragicamente contrassegnato il mondo contemporaneo. E’ una lettura che aiuta a uscire da alcuni dei principali vizi interpretativi della nuova guerra in corso in Europa, che continuano a determinare irresponsabili scelte politiche e militari da parte dei governi europei e statunitense per rispondere all’ingiustificabile invasione russa: l’isteria di guerra, il presentismo decontestualizzante, l’illusione della vittoria. Sono questioni che più volte abbiamo messo a fuoco nei mesi passati – dall’interno del movimento per la pace – ma che è necessario rilanciare, anche con l’autorevole legittimazione fornita dal grande filosofo francese.

L’isteria di guerra ha come scopo la necessità di instillare la guerra nelle menti, ha come effetto la semina dell’odio per la parte avversa, necessaria e legittimare l’uso crescente della violenza contro i “nemici” passando anche attraverso l’identificazione dei popoli con i rispettivi governi. E’ la caratteristica culturale che attraversa tutti i fronti di tutte le guerre ed è alimentata dalle rispettive propagande di guerra. Anche da quella dalla parte giusta del conflitto: Morin ricorda, a questo proposito, i bombardamenti a tappeto degli Alleati sulle città tedesche, per esempio su Dresda rasa al suolo, e le atomiche USA su Hiroshima e Nagasaki, che colpivano scientemente la popolazione civile, come “crimini di guerra sistemici”, prima legittimati dalla propaganda e poi rimossi dalla coscienza dei vincitori. “Ogni guerra, per sua natura” – scrive Morin – “per l’isteria alimentata dai governanti e dai media, per la propaganda unilaterale e spesso menzognera, comporta una criminalità che va al di là dell’azione strettamente militare”. E’ quanto rilevava per esempio il politico pacifista inglese Arthur Ponsonby dopo la prima guerra mondiale analizzando le “bugie in tempo di guerra” diffuse dalla propaganda di tutti i governi in conflitto. La storica belga Anne Morelli ha recuperato quel testo e ne ha fatto un una verifica alla luce delle guerre successive, fino all’aggressione militare USA dell’Iraq del 2003, nelle quali tutti i “Principi elementari della propaganda di guerra” (Ediesse, 2005) risultano confermati, ripetuti e adattati ai diversi contesti, per convincere le opinioni pubbliche tendenzialmente pacifiste dei rispettivi paesi (come quella italiana nella guerra in corso). Le guerre hanno degli enormi costi sia umani che economici e per esse bisogna essere disponibili a uccidere, a morire e ad aumentare le spese militari a discapito di quelle civili e sociali: per questo è necessario mettere in campo gli specifici meccanismi comunicativi di persuasione, che si ripropongono, guerra dopo guerra, attraverso sistemi mediatici sempre più sofisticati, pervasivi e persuasivi. Ecco l’elenco dei dieci principi elementari di propaganda di guerra, riproposti ossessivamente anche nell’ultimo anno – oltre che sui media russi – con le relative variazioni sul tema, anche sui democratici media occidentali: non siamo noi a volere la guerra (ma siamo costretti a prepararla e, se necessario, a farla); i nemici sono i soli responsabili della guerra; il nemico ha l’aspetto del demonio o del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; il nemico usa armi illegali (noi rispettiamo le regole); le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; gli intellettuali, gli artisti (i giornalisti) sostengono la nostra causa; la nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); quelli che mettono in dubbio la propaganda sono dei traditori. Quante volte abbiamo sentito – e sentiamo ancora – queste formule, diversamente e ripetutamente declinate, invece di analisi capaci di entrare ed affrontare con consapevolezza e responsabilità l’estrema complessità e pericolosità della tragedia della guerra in corso?

Il presentismo, l’assenza di contestualizzazione e di visione prospettica, narra la guerra come se si svolgesse attraverso istantanee che non hanno né con-cause passate né con-seguenze future: un eterno presente, rispetto al quale si disconoscono anche le più elementari regole del pensiero complesso, dall’equilibrio delicato del sistema delle relazioni internazionali – “il battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un uragano in Texas” (Edward Lorenz) – alle dinamiche di escalation dei conflitti – “condotta delle operazioni belliche caratterizzata da un aumento progressivo e graduale nell’impiego delle armi e nell’estenione delle misure militari, sotto il controllo dell’autorità politica” (enciclopedia Treccani). “La guerra fra l’invasore e l’invaso” – annota ancora Edgar Morin – “non si può isolare dai suoi antecedenti e dai suoi contesti storici e geopolitici, né, a fortiori, dalle relazioni tra Stati Uniti e Russia”. Per comprendere le ragioni di quanto avvenuto a partire dal 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina e in questo anno che ci separa da quella data – consapevoli che “è una debolezza intellettuale estremamente diffusa pensare che la spiegazione sia una giustificazione” (Edgar Morin, Twitter, 21 marzo 2022)  è necessario tornare indietro non solo al 2014, quando avvenne la cosiddetta rivoluzione del Maidan (o colpo di stato, a seconda della prospettiva), con le conseguenti occupazione della Crimea da parte della Russia e ribellione e repressione delle repubbliche separatiste russofone e russofile da parte del governo ucraino, ma ancora indietro all’implosione del sistema di relazioni internazionali con la fine della “guerra fredda”, di cui il conflitto in corso è un ulteriore effetto. Quando – grazie alla saldatura dei movimenti pacifisti occidentali con i movimenti per la democrazia dei paesi dell’Est e il disarmo unilaterale voluto dal presidente Michail Gorbacëv (morto, sostanzialmente dimenticato da tutti, sei mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina) – furono abbattuti muro di Berlino e “cortina di ferro” ed ebbe termine la lunga guerra fredda, ma non fu costituto quell’ordine globale fondato sulla cooperazione e l’interdipendenza egualitaria e pacifica che Gorbacëv aveva teorizzato e attivamente promosso, per un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali. Le conseguenze della fine della guerra fredda, nonostante generassero enormi rivolgimenti che hanno dato un nuovo assetto all’Europa, non essendo esito di una vittoria militare – anzi, sfuggendo al paradigma bellico come motore della storia – non sono state sancite da alcuna Conferenza di pace ma solo da accordi verbali, man mano, nel tempo disattesi. Il 6 febbraio del 1992, già premio Nobel per la pace ma ormai estromesso dal potere del suo paese, su La Stampa di Torino Gorbacëv scriverà: “Il presidente George Bush ha ripetuto che gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda. Vorrei rispondere così: rimanendo per anni nel clima della guerra fredda, tutti hanno perduto. E oggi, quando il mondo ha saputo liberarsi di quel clima, tutti hanno vinto”. E invece le speranze di Gorbacëv sono state tradite e la fine di quella guerra non ha costruito visioni e strategie di pace ma una narrazione di “vittoria” di una parte che ha costruito strategie di nuove guerre, calde e fredde: “di fatto, negli anni Novanta cominciò una dialettica infernale in cui ciascuno dei due partner si sentì minacciato e si fece minaccioso”, sintetizza Morin. E, nel nuovo secolo, dopo le aggressioni USA di Afghanistan e Iraq siamo all’aggressione russa dell’Ucraina.n questo quadro l’illusione di poter perseguire la “vittoria” militare, anziché la pace, all’interno di un contesto dominato dall’arsenale nucleare dei “due imperialismi” (Morin) che si fronteggiano in Ucraina, porta con sé la fine della ragione oltre che potenzialmente dell’umanità. ”Nel 1945 è iniziata una nuova era con la minaccia di morte dell’umanità” – scrive Morin – “minaccia che è continuamente accresciuta dalla proliferazione di armi nucleari, dalla loro sofisticazione e dal loro possibile utilizzo qualora l’escalation continui ad aggravare e ad amplificare la guerra d’Ucraina”. Gravissimo rischio che stiamo correndo come mai prima d’ora, del quale siamo stati avvisati anche poche settimane fa dagli scienziati atomici che hanno posizionato le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse a soli 90 secondi dalla mezzanotte nucleare – mentre nella fase del disarmo voluto da Gorbacëv avevamo raggiunto la maggiore distanza di sicurezza mai rilevata nell’epoca nucleare – e pochi giorni fa dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres: “siamo al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare che potrebbe iniziare per caso o per scelta. Il cosiddetto uso “tattico” delle armi nucleari è assurdo. I paesi dotati di armi nucleari devono rinunciare all’uso di queste armi irragionevoli, sempre e ovunque” (Twitter, 8 febbraio 2023). Invece la rinuncia alle armi nucleari, come la rinuncia all’uso della guerra per la “risoluzione delle controversie internazionali” – sancita solennemente dalla Costituzione italiana – come la ricerca negoziale della pace sono stati banditi dal discorso pubblico sulla guerra che, ormai, parla esclusivamente di “vittoria”. Ossia dell’illusione di vittoria (perfino il Capo di stato maggiore statunitense, generale Mark Milley ha ammesso che “nessuno può vincere la guerra”) rincorrendo la quale, attraverso la continua intensificazione, da entrambe le parti, dell’invio e dell’uso di armi sempre più distruttive, l’esito inevitabile sarà la sconfitta totale non solo di ucraini e russi, ma – almeno – di tutta l’Europa. “Più la guerra si aggrava, più la pace è difficile e più è urgente. Evitiamo una guerra mondiale. Sarebbe peggio della precedente”, conclude Edgar Morin. Per farlo, come indica la maggioranza dei cittadini italiani che ribadiscono – sondaggio dopo sondaggio – la contrarietà all’ingaggio militare del nostro paese, ignorati da quasi tutti i partiti che siedono in parlamento (con grave danno per la democrazia, come si è visto anche con il crollo di partecipazione alle ultime elezioni) è necessario attingere ai saperi della nonviolenza e dei facitori di pace. Quelli che da sempre indicano e praticano le vie alternative alla guerra per affrontare i conflitti. Dispiegando finalmente gli strumenti della ragione, anziché le armi della follia.

L’articolo è stato pubblicato sul sito di Pasquale Pugliese il 19 febbraio 2023

Foto di Natalie da Pixabay 

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