Politica

Contro la riforma delle pensioni e l’ideologia del lavoro

di Tous Dehors
Traduzione di Marco Calabria per Comune-info

A forza di sentirlo, quel ritornello, potremmo rischiare quasi di finire per crederci: la giovinezza è precarietà. A scuola, all’università o nella formazione professionale, al lavoro, negli stage, nel lavoro interinale o nei contratti a tempo determinato, nelle tane per topi che ci fanno da alloggio, nel nostro stesso status sociale, nelle nostre identità, nell’amore, in tutto, dovunque e per tutto, saremmo “precari”. Vale a dire, mai veramente completi, mai veramente stabili, ci mancherebbe sempre qualcosa. Una rivoluzione, forse? I nostri genitori e nonni ci compatiscono ma intanto un po’ ci disprezzano, i sindacati e i partiti di sinistra generalmente ci ignorano, salvo poi magari prometterci un impossibile ritorno ai Gloriosi Trenta (gli anni della grande crescita economica, quelli tra il 1945 e il 1975, ndt).

Tutta questa bella gente, che pretende di rappresentarci, parla al nostro posto e decreta a suo piacimento ciò che ipoteticamente sarebbe bene per noi, cioè il diventare finalmente adulti ragionevoli. Ma quello che ci viene offerto è di accontentarci di essere sfruttati come le precedenti generazioni. E oggi, ci viene chiesto di metterci in movimento perché così, in tempi lontani, quando saremo vecchi e sfiniti, potremo vivere nel paradiso terrestre dei “salari differiti” che chiamano pensione. Salari che peraltro per noi varranno sicuramente meno di un salario minimo.

L’idea di felicità comune per la generazione dei nostri genitori e nonni poggiava sulle fondamenta di una crescita economica che non abbiamo mai conosciuto. Dal punto di vista antropologico, si traduceva nella figura del buon cittadino lavoratore-consumatore: un mutuo di 20 anni per “diventare proprietario di una casa”, un prestito al consumo per sperimentare la “libertà” di guidare un’auto, uno o due bambini, una parvenza di carriera in un lavoro di merda, un voto nell’urna, di tanto in tanto, ma senza crederci troppo.

Oggi sappiamo tutti fino a che punto questo sogno sia sempre stato un miraggio. Sappiamo anche quanto sia costato in compromessi politici di cui stiamo ancora pagando il prezzo. Non c’è bisogno di ricordare come questa società poggiasse, e poggia ancora, da un lato, sul più immondo sfruttamento del lavoro da parte del capitale, dall’altro su un sovrasfruttamento delle risorse della terra, i cui effetti cominciano appena a farsi sentire e continueranno a farlo in misura crescente.

Per la nostra generazione va tutto male, eppure non cambia nulla. Con l’inflazione e l’aumento generalizzato dei prezzi, inoltre, molti di noi sono scesi al di sotto della soglia di povertà. Eppure ancora niente. “Il lavoro non piace più”, si sente dire dappertutto. Forse però bisognerebbe aggiungere che non piaceva nemmeno prima. “Fottetevi!”. È questo, in sostanza, il messaggio per i nuovi arrivati ​​nel mercato del lavoro da vent’anni a questa parte. Quello che spudoratamente si impone nel nostro tempo è la sofferenza sul lavoro, diventata uno degli indicatori principali delle trasformazioni sociali della società contemporanea. Del resto, noi già non lavoriamo, non facciamo carriera. Al massimo troviamo un lavoretto, passiamo inosservati, ci danniamo l’anima per trovare qualche aggancio.

La nostra generazione non ha mai creduto nell’emancipazione attraverso il lavoro. Per noi, al contrario, ciò che struttura un mondo felice non è il salario, non sono la sacralità della proprietà privata e il regno degli interessi meschini. È la cooperazione, sono le relazioni gioiose, l’aiuto reciproco e lo scambio, l’amicizia e la voglia di prendersi cura delle persone che ci sono care, ma è anche il poter dare risposte a tutto quel cumulo di problemi che abbiamo ereditato e che ci spinge alla necessità di trovare soluzioni all’impazzimento di un mondo sull’orlo del precipizio. Tutto questo è una cosa da capogiro, siamo d’accordo.

L’epidemia di Covid 19 ci ha costretti all’isolamento. Sì, è vero, in un certo senso, siamo spesso inchiodati ai nostri schermi, isolati, prigionieri degli algoritmi. Siamo fragili, manipolabili, sfruttabili. Eppure, oggi c’è tutto un campo antagonista al potere dell’economia e dell’autoritarismo governativo che cerca di trovare la via per fare irruzione in questa epoca. Siamo dalla parte degli scioperi, dei blocchi, dei sabotaggi e del superamento dei limiti imposti. Ci sentiamo vicini a tutte e a tutti coloro che, ovunque nel mondo, cercano di rialzare la testa ribellandosi al regno della disuguaglianza e dell’ingiustizia.

Oggi, per diversi motivi, stiamo correndo il rischio che la riforma delle pensioni appaia come la madre di tutte le lotte quando non è niente altro che un sintomo, tra gli altri, di una dittatura dell’economia che cerca di imporre il suo dominio totale sulle nostre vite. In primo luogo perché permette di evocare, ancora una volta, l’indescrivibile “movimento sociale alla francese”, sebbene ormai quasi nessuno creda alla pertinenza delle forme di lotta che utilizza, tranne forse alcune roccaforti sindacali (1. RATP, SNCF, energie, educazione nazionale). Forme che, d’altra parte, sono state largamente superate dalla forza della rivolta immediata dei Gilet Gialli. E poi, perché, riducendo il conflitto a queste roccaforti sindacali, diventiamo tutti spettatori di un conflitto in cui non contiamo niente. Infatti, come è accaduto giovedì 19 gennaio, in questo tipo di movimento appariamo come una massa amorfa, che serve solo a far numero, ed è dunque buona solo per essere contata, per spiegare il rapporto di forza tra le centrali sindacali e il governo.

Di più, sono almeno 40 anni che il repertorio d’azione del movimento sociale classico è stato superato dalle ristrutturazioni contemporanee dell’economia (globalizzazione dei flussi di capitale, de-industrializzazione, terziarizzazione dell’economia, gestione da parte degli algoritmi, ecc.). Oggi, costretto sulla difensiva, il classico movimento sociale alla francese, irrigidito nel suo repertorio d’azione, finisce per bloccare una ristrutturazione antagonista delle lotte basata su una matassa di situazioni sociali, ovviamente diverse, ma che in ultima analisi puntano a una messa in discussione di massa dell’attuale sistema economico.

Tuttavia, mentre una rabbia diffusa si predispone a convergere intorno al rifiuto della riforma delle pensioni, questa occasione è troppo ghiotta per non coglierla come trampolino di lancio. Lo sciopero, inoltre, è sempre l’opportunità per uno stop. Il tempo dello sciopero è spesso anche quello di una riflessione collettiva sulle proprie condizioni di vita, sui mondi che desideriamo. Ed è anche un momento propizio per l’elaborazione di nuove strategie di lotta. Come farvi irruzione? Come aumentare l’intensità? Come evitare di farsi cooptare da tutti quei politici ambiziosi? Tante domande urgenti a cui dovremo rispondere nelle prossime settimane.

Il campo che chiede l’abolizione del capitalismo è sempre più numeroso, soprattutto tra le giovani generazioni. Però è ancora intrappolato in una critica astratta al mostro economico e non trova forme autonome per venire alla luce. Di conseguenza, questo campo antagonista alla dittatura dell’economia sulla vita appare solo in modo sordo e quasi invisibile in un rifiuto sempre più marcato dell’ideologia del lavoro. I sintomi di questo rifiuto diffuso sono numerosi. Lo vediamo, anno dopo anno, nelle statistiche della sofferenza sul lavoro, nell’ansia e nella depressione che si diffondono, ma anche nel fatto che molti di noi si adattano a un “lavoretto” solo con la prospettiva di ottenere uno stipendio, cioè senza altra motivazione che quella della pura sopravvivenza. In altre parole, quasi nessuno si aspetta più emancipazione dal lavoro. Tranne, forse, chi controlla gli altri e gli rovina la vita: la classe dei manager. Per lo più, tuttavia, loro non ingannano più nessuno. Lo testimoniano anche tutti gli influencer che inondano i social con i loro video di elogio dell’investimento: nell’ideologia del capitale l’immagine di chi fa soldi investendo in borsa, in criptovalute o nel settore immobiliario ha ormai sostituito quella dell’onesto lavoratore.

Questo rifiuto del lavoro è senza dubbio ancora massicciamente passivo e le sue rare occasioni di apparizione pubblica sono quelle di chi “se lo può permettere”, come gli studenti delle maggiori scuole di ingegneria che dicono di volersi “distinguere”, o i dirigenti in crisi esistenziale che si reinventano artigiani o neo-ruralisti. Quando partecipiamo a un movimento come quello delle pensioni, spetta però solo a noi restituire a questo rifiuto l’ostilità che lo configura. Pensiamo che l’irruzione sulla piazza pubblica di questa ostilità comune alle tante diverse voci che la sentono possa essere un modo per andare oltre il contesto sindacale e aprire la porta a ogni tipo di nuove pratiche di riappropriazione, tanto nella lotta come nella vita quotidiana, sia in questo movimento che in quelli degli anni a venire.

Nota
1. Amministrazione autonoma dei trasporti parigini e Società nazionale delle ferrovie francesi

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 1° aprile 2023
Qui trovate l’editoriale collettivo di Tous Dehors nella versione originale in francese

Milano capitale del XXI secolo o metropoli che si avvia al tramonto?

Seminario a cura di Effimera

Milano capitale del XXI secolo o metropoli che si avvia al tramonto?
Tenutosi il 4 marzo 2023
Presso la Casa della cultura di Milano

Parte I

Interventi di: S. Lucarelli, V. Agnoletto, T. Palidda L. Perini, Ultima Generazione.

Durata 2:29:01

Parte II

Introduce e coordina Gianni Giovannelli

Interventi di: Elena e Selam (Spazio di Mutuo Soccorso), L. Trada, E. Braga,  A. Fumagalli, G. Lerro.

Durata 2:50:59

Il fallimento della banca dell’innovazione e l’enigma delle grandi dimissioni

di Christian Marazzi

Non solo start-up

A un primo livello d’analisi, il fallimento della Silicon Valley Bank (la «banca dell’economia globale dell’innovazione») appare come una tipica crisi da bank run, da corsa agli sportelli causata dal panico dei depositanti, per lo più «startupper» nel settore digitale, per recuperare quanta più possibile liquidità da una banca, la loro, sull’orlo del crac. «Per capire – scrive Paolo Mastrolilli su «la Repubblica» di domenica 12 marzo, riassumendo la narrazione generale – bisogna partire dall’origine della crisi. Prima del Covid, alla fine del 2019, i depositi presso la Svb erano triplicati, da 62 a 189 miliardi di dollari, grazie all’esplosione delle start-up tecnologiche. La banca aveva investito larga parte di questi fondi in obbligazioni del Tesoro, che fruttavano in media l’1,79%. Quando nel marzo scorso la Federal Reserve aveva iniziato ad alzare i tassi per frenare l’inflazione, aveva provocato due effetti molto negativi: primo, il valore dei bond nel portafoglio di Svb era sceso, creando significative perdite sulla carta; secondo, le compagnie tecnologiche che costituivano il grosso della sua clientela si erano trovate in difficoltà, iniziando i prelievi». Durante i giorni che precedono il venerdì nero (10 marzo), si è tentato un salvataggio coinvolgendo la Goldman Sachs, che consisteva nel cercare di colmare la differenza tra la liquidità raccolta dalla vendita dei Buoni del Tesoro detenuti dalla banca e la domanda di liquidità dei depositanti. «Il salvataggio però non è stato gestito bene, si è sparsa la voce del buco, le compagnie di venture capital hanno consigliato ai clienti di ritirare i fondi e solo giovedì la banca ha dovuto fronteggiare richieste per 42 miliardi»[1].

Già a questo livello, si possono enucleare alcune questioni che andranno approfondite in seguito.

In primo luogo, il ruolo della banca centrale, con la sua politica monetaria anti-inflativa, in particolare la rapidità con la quale lo scorso anno ha perseguito l’aumento dei tassi di interesse. Come ricorda Kenneth Rogoff, i rialzi dei tassi d’interesse «agiscono in due modi. Sono una manna per le banche (e i loro profitti) perché permettono di alzare i tassi sui prestiti. Ma sono una disgrazia perché le aziende investono meno e il flusso di denaro rallenta»[2]. Cosa rendeva la Svb particolarmente vulnerabile? Secondo Peter Coy, del «New York Times», «uno dei motivi è che molti dei suoi prestiti sono nel settore tecnologico che, come sappiamo da qualche mese, sta andando male. Un’altra ragione, forse più importante, è che si basa fortemente su depositi di istituzioni piuttosto che sui depositi di individui. Le persone che gestiscono aziende high tech, fondi di investimento, hedge funds o società di criptovalute[3], sono sempre alla ricerca del rendimento più alto che possono guadagnare; quindi sono veloci a togliere denaro da una banca e metterlo, ad esempio, in un fondo del mercato monetario. Inoltre, le istituzioni si affretteranno a ritirare i loro soldi da una banca se pensano che potrebbe fallire, o perché temono che altri tirino fuori i loro soldi»[4]. C’è inerzia nel reagire quando i depositanti sono individui, mentre uno degli effetti della digitalizzazione è che accelera la velocità di disintermediazione da parte delle aziende che (re)agiscono in tempo reale alle minime oscillazioni finanziarie.

In secondo luogo, l’effetto dell’aumento dei tassi di interesse sui Treasury bonds, i Titoli di Stato acquistati dalle banche e detenuti «in pancia» come riserve sicure («massimamente liquide») per effettuare le operazioni di credito e di investimento ben oltre il volume di depositi. Essendo a reddito fisso, quando i rendimenti sui Buoni del Tesoro aumentano, necessariamente il loro valore diminuisce[5]. Così, quando li si vende per procurarsi liquidità, si incassa un bel po’ meno di quanto erano costati in origine[6].

Come ha scritto Paul Krugman, la Svb ha parcheggiato gran parte dei suoi enormi depositi «in attività estremamente sicure, principalmente obbligazioni a lungo termine emesse dal governo degli Stati Uniti e da agenzie sostenute dal governo. Per un po’ ha fatto soldi perché, in un mondo a bassi tassi d’interesse le obbligazioni a lungo termine pagano tassi di interesse più elevati rispetto alle attività a breve termine, compresi i depositi bancari». Però, quando i tassi di interessi a breve termine sono aumentati, addirittura oltre quelli a lungo termine[7], lo spread da cui dipendevano i profitti di Svb sono scomparsi, oltretutto trascinando verso il basso il valore delle obbligazioni, il che ha causato grandi perdite di capitale. «E questo, ovviamente, è esattamente ciò che è successo quando la Fed ha alzato i tassi di interesse per combattere l’inflazione»[8].

Si noti che il 96% dei depositi di Svb non è coperto dalla garanzia di rimborso della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), che assicura depositi fino a 250 mila dollari. Il ministro del Tesoro, Janet Yellen, si è affrettata a rassicurare i mercati dicendo che (per evitare un’altra Lehman Brothers) stanno cercando una soluzione per raccogliere fondi con cui rimborsare anche i depositi non assicurati. Non si tratta, così si sostiene, di un salvataggio della banca e dei suoi azionisti con i soldi dei contribuenti (come fu nel 2008), ma del salvataggio dei depositanti che, un po’ ingenuamente, hanno messo tutti i loro soldi in una sola banca e ora, da buoni liberisti libertari, si aspettano di essere salvati dallo Stato (secondo il «Wall Street Journal», ma anche secondo altri analisti, si tratta comunque di un «de facto bailout»[9]). Definire l’intervento dello Stato non è una questione di poco conto, è in gioco la soglia di «azzardo morale» (moral hazard) che legittimerà il prossimo ciclo speculativo e, anche, la soglia di sopportabilità sociale e civile di un sistema politico-finanziario che mentre si inalbera contro l’indebitamento «troppo elevato» degli studenti, per dire, rivendica la protezione pubblica degli interessi finanziari privati. Vale sempre il vecchio adagio: «privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite».

A partire da lunedì 13 tutti i depositi, assicurati e no, sono disponibili. Inoltre, la banca centrale mette a disposizione uno sportello di liquidità per aiutare le banche, in particolare le banche regionali, a rispondere alle richieste dei clienti in caso di fuga. Nel frattempo, in Inghilterra, la Svb Uk è stata acquistata (per una sterlina) dalla Hsbc.

In terzo luogo, benché la Svb sia una banca focalizzata prevalentemente sul settore digitale, le condizioni esterne che hanno contribuito a portarla al fallimento valgono per molti altri settori. Nel maggio del 2018 Trump, anche su pressione di banche come la stessa Svb, aveva alzato da 50 a 250 miliardi di attivo il tetto per le banche considerate troppo grandi per fallire (too big to fail), tornando indietro rispetto al Dodd Frank Act emanato dopo la grande crisi del 2008. In questo modo la stragrande maggioranza delle banche Usa ha potuto operare senza grandi controlli da parte della Fed e il fallimento della Svb è il risultato di questa politica di eccessiva deregulation[10]. Il calo in borsa tra il 20 e il 70% di First Republic e Western Alliance, il fallimento della Signature Bank, dopo la chiusura di Silvergate (entrambe società di criptovalute), sono solo esempi degli effetti collaterali della deregulation liberista trumpiana. La stessa politica monetaria restrittiva della Fed sta mettendo sotto pressione molti altri settori, come ad esempio l’edilizia commerciale dove sono in circolazione 60 miliardi di prestiti a tasso fisso che andranno rifinanziati a breve a condizioni più costose, e 140 miliardi di mutui a tassi variabili che maturano tra due anni[11].

Un aspetto per il momento poco commentato è che la Svb negli ultimi anni ha lavorato con 1.550 aziende tecnologiche che stanno sviluppando progetti di energia solare, di idrogeno e stoccaggio di batterie. «La Silicon Valley Bank era per molti versi una banca climatica», ha dichiarato Kiran Bhatraju, amministratore delegato di Arcadia, una delle più grandi comunità d’energia solare del paese. I progetti solari comunitari sembrano essere particolarmente colpiti dalla crisi. La Svb aveva diretto o partecipato al 62% degli accordi di finanziamento per progetti solari comunitari, che sono progetti su piccola scala che servono aree residenziali a basso reddito. Il crollo della Svb minaccia di far deragliare quella che era una parte in rapida crescita del settore del capitale di rischio (venture capital). Più di 28 miliardi di dollari sono stati investiti in start-up di tecnologia climatica nel 2022, in forte aumento rispetto all’anno precedente. Molte delle aziende che con la crisi della Svb stanno ridimensionando le loro operazioni, se non semplicemente chiudendo, erano pronte a sfruttare i crediti d’imposta inclusi nell’Inflation Reduction Act, la legislazione federale sul clima firmata da Biden lo scorso anno[12].

La Fed contro la classe operaia

Il fallimento della Svb, se da una parte si iscrive nella crisi del settore dell’high tech digitale con l’ondata di licenziamenti che da mesi ormai attraversa l’intero settore (vedi il «Diario» di gennaio); se, d’altra parte, si spiega per alcune specificità della banca stessa (monocoltura, il suo essere prevalentemente una banca di gestione e investimento dei depositi dei suoi clienti); se, ancora, sconta le conseguenze della deregolamentazione eccessiva di trumpiana memoria, che ha abbassato non poco il livello di guardia delle autorità di vigilanza; se, infine, non sembra paragonabile alla crisi sistemica della Lehman Brothers del 2008 e ai suoi effetti macroeconomici globali, nondimeno evidenzia un serio problema per quanto attiene la strategia monetaria della Fed come di tutte le banche centrali.

La reazione dei mercati tra lunedì 13 e martedì 14 non permette di capire la portata della crisi, la sua profondità e estensione. Per questo occorreranno ancora alcuni giorni. Di sicuro la paura del contagio, così come le rassicurazioni delle autorità monetarie e politiche, contribuiscono ad acuire la volatilità dei mercati, peraltro già alquanto volatili prima dello scoppio della crisi.

Una cosa è però apparsa chiara sin da subito: i mercati e gli investitori dimostrano di volere che la banca centrale freni, addirittura congeli la sua politica restrittiva basata sugli aumenti dei tassi già previsti per i prossimi mesi, ribaditi con fermezza da Joe Powell solo cinque giorni prima del crack della Svb. Si dava per certo un prossimo aumento dei tassi dello 0,5%, ma la corsa degli investitori agli acquisti dei Buoni del Tesoro a due anni ha fatto precipitare il rendimento sotto il 4% in un solo giorno (avevano superato il 5% esattamente una settimana fa, lasciando presagire una recessione imminente), un calo record mai visto dal 1987.

Nei mesi scorsi, i mercati finanziari auspicavano che l’economia entrasse in recessione, perché in tal caso le autorità monetarie abbassano i tassi di interesse per frenarne gli effetti e la durata. La riduzione dei tassi d’interesse, cioè del costo del denaro, per i mercati finanziari significa la ripresa degli investimenti speculativi, e quindi delle rendite finanziarie.

Il fatto è che la recessione non è scoppiata, c’è stato anzi un forte aumento dell’occupazione, un aumento medio del potere d’acquisto e della capacità di indebitamento dei consumatori americani[13], il tutto accompagnato da un processo disinflazionistico (pare che Powell abbia pronunciato la parola disinflazione ben undici volte nella sua conferenza stampa d’inizio febbraio)[14].

Per i mercati questi dati sono la prova che la spinta espansiva convive con un’inflazione in declino, e quindi c’è margine per una riduzione dei tassi d’interesse. Per la Fed, invece, gli stessi dati positivi sono la dimostrazione di una possibile rincorsa salari-prezzi che compromette la battaglia contro l’inflazione. Pochi giorni dopo aver parlato di disinflazione, ecco cosa dice lo stesso Powell: «Dovremo fare più aumenti dei tassi e poi dovremo guardarci attorno a vedere se ne abbiamo fatti abbastanza» (Economic Club, Washington, 7 febbraio).

Ora, come è stato dimostrato da più parti, non solo la crescita dei salari è rallentata, ma laddove vi è stato un aumento è perché sono aumentate le ore settimanali di lavoro (un chiaro aumento del plusvalore assoluto)[15]. Negli ultimi due anni i salari sono cresciuti più lentamente dell’inflazione e i salari reali aggregati sono di fatto diminuiti. Secondo il «Washington Post», la quota attuale dei redditi da lavoro sul Pil, scesa al 56%, è tornata al livello del 2014.

Bisogna quindi escludere categoricamente il rischio di una «spirale prezzi-salari» in stile anni Settanta, mentre bisognerebbe parlare di una «spirale prezzo-prezzo», «in cui i prezzi finali sono aumentati più degli aumenti dei prezzi dei fattori di produzione». A dirlo è Lael Brainard, già vice presidente della Fed, ora nominata da Biden a capo del National Economic Council (inflazione da profitti, insomma: vedi il «Diario» di dicembre 2022).

C’è quindi da chiedersi perché la Fed non abbia dato segni di cedimento con la sua politica monetaria anti-inflativa, perlomeno fino alla crisi della Silicon Valley Bank dello scorso 10 marzo. Nel momento in cui scrivo la Fed non si è espressa su cosa farà con i tassi di interesse nei prossimi mesi. È possibile che, per calmare («stabilizzare») i mercati, decida di aumentarli di un solo 0,25%, piuttosto che di mezzo punto percentuale come era programmato. Vedremo.

Si può sostenere che il problema di fondo della politica della Fed è che è monetarista, tutta incentrata sull’offerta di moneta, e non, come dovrebbe essere, sull’andamento della domanda di moneta. Si può aggiungere che si tratta di una politica basata su modelli econometrici che si ispirano alla «curva di Phillips», secondo cui esiste una relazione inversa tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione, e quindi, dato che oggi la disoccupazione è ai suoi minimi storici, i prezzi non possono che crescere. Tutto vero, salvo che la Fed, perlomeno dai tempi in cui Janet Yellen era presidente, si è dotata di una rete di sensori sul territorio che le permette di «avere il polso» del paese reale, molto più di quanto si creda.

Forse la risposta sta nel fatto che nell’ultimo anno (2022) vi è stato un forte aumento del numero di scioperi e di interruzioni del lavoro. «L’anno scorso ha visto un aumento del 52% del numero di interruzioni del lavoro rispetto all’anno precedente, con il 60% in più di lavoratori che hanno partecipato alle interruzioni». Se confrontato con la statistica delle lotte nel periodo fordista, si può avanzare l’ipotesi che nel 2022 si sia innescato un ciclo di lotte operaie che sembrava definitivamente irripetibile a partire dagli anni Ottanta[16], gli anni della controrivoluzione liberista.

Si aggiunga che per la Fed gli oltre dieci milioni di posizioni aperte delle aziende (vacancies), che non trovano i dipendenti per riempirle, è la prova che il mercato del lavoro è troppo stretto e preme sui costi delle imprese[17]. Le «grandi dimissioni» sono un fenomeno che sfugge a tutti i modelli econometrici della Fed (e non solo), un «enigma» che, come le lotte operaie per migliori condizioni di vita, va combattuto, estirpato. Anche a costo di andare contro il capitale.

NOTE

[1] Per una ricostruzione dettagliata del processo che ha portato al fallimento della Svb, vedi il «Financial Times» del 13 marzo: «Problems at tech sector lender built for years before collapse. SVB absorbed big risk with only modest potential pay-off so as to boost short-term profit». Vedi anche Alessandro Graziani, Svb, il crack che Vigilanza e agenzie di rating non hanno visto arrivare, «Il Sole 24 Ore», 13 marzo 2023.
[2] Kenneth Rogoff, Il panico si è già diffuso. Altri fallimenti non sono esclusi, «la Repubblica», 13 marzo 2023.
[3] Solo la Circle aveva qualcosa come 3,3 miliardi di depositi presso la Svb.
[4] Peter Coy, How to Understand the Problems at Silicon Valley Bank, «NYT», 10 marzo 2023. Si veda anche Huw van Steenis, History can instruct us on the fallout from SVB’s collapse, «FT», 13 marzo 2023.
[5] Se un’obbligazione del Tesoro vale 100 e assicura un reddito di 5, il rendimento sarà pari al 5%. Se la stessa obbligazione perde valore e da 100 scende a 90, per continuare a garantire un reddito di 5 il tasso di rendimento aumenterà al 5,5%. Infatti, 5.55% di 90 da un reddito pari 5.
[6] Le minusvalenze implicite nel portafoglio titoli avevano praticamente azzerato il capitale di Svb già a fine 2022, ma né le Autorità di Vigilanza né le agenzie di rating, che hanno mantenuto il giudizio di investment grade fino al giorno del default, hanno visto arrivare il fallimento della sedicesima banca americana. La storia si ripete.
[7] Si noti che quando Jay Powell, presidente della Fed, martedì 7 se ne è uscito dicendo che la Fed avrebbe continuato a tenere alti i tassi di interesse per combattere l’inflazione, i rendimenti (i tassi) sui Treasury a breve (due anni) sono balzati oltre il 5%, mentre i rendimenti sui Treasury a lungo termine (10 anni) non si sono praticamente mossi. L’inversione della curva dei rendimenti (così si dice quando i rendimenti a breve termine superano quelli a lungo), in cui costa di più prendere a prestito nel breve termine che non nel lungo, di solito significa che nel prossimo anno o due si entrerà in recessione. Dal 1900 ci sono stati 28 casi di inversione della curva dei rendimenti e 22 di questi episodi sono stati seguiti da una recessione (vedi Gillian Tett, The markets go down the rabbit hole, «FT», 10 marzo 2023).
[8] P. Krugman, Silicon Valley Bank is not Lehman, «NYT», 13 marzo 2023.
[9] Vedi Jeanna Smialek – Alan Rapperport, Was This a Bailout? Skeptics Descend on Silicon Valley Response, «NYT», 1 13 marzo 2023. Si veda anche Branko Marcetic, Silicon Valley Bank’s collapse shows little has changed for big banks since 2008, «Jacobin», 13 marzo 2023.[10] Vedi Davide Serra, Start-up e cripto torneranno con i piedi per terra, «la Repubblica», 13 marzo 2023.
[11] Si veda a questo proposito Paolo Mastrolilli, La crisi di Blackstone la grande bolla immobiliare e i fantasmi del 2008, «la Repubblica A&F», 13 marzo 2023, p. 7.
[12] Vedi David Gelles, Silicon Valley Bank Collapse Threatens Climate Start-Ups, «FT», 12 marzo 2023.
[13] Quando si parla di crescita dei consumi occorre sempre distinguere tra consumi produttivi (salari) e improduttivi (rendite parassitarie, profitti e sovraprofitti). Negli ultimi due anni sono soprattutto questi ultimi che sono particolarmente cresciuti.[14] Riprendo qui di seguito un articolo molto documentato di Nicola Capelluto, Enigma inflazione, apparso su «Lotta comunista» nel mese di febbraio 2023.
[15] L’aumento degli affitti pesa per metà dell’inflazione totale degli ultimi mesi e assorbe buona parte degli incrementi salariali.[16] Vedi Alex N. Press, Strikes were up significantly last year, «Jacobin», 2 febbraio 2023. I numeri esatti: 272 interruzioni del lavoro nel 2021 sono cresciute a 424 nel 2022. Quel numero consiste di 417 scioperi e sette serrate. Mentre circa 140.000 lavoratori hanno preso parte a un’interruzione del lavoro nel 2021, 224.000 lavoratori hanno fatto lo stesso l’anno scorso. Gli anni Cinquanta hanno avuto una media di 352 grandi interruzioni di lavoro all’anno che coinvolgono 1,6 milioni di lavoratori. Incredibilmente, l’intero periodo di tempo dal 1950 al 1970 ha avuto in media oltre 300 grandi interruzioni di lavoro all’anno (quasi una al giorno!) che coinvolgono oltre 1,4 milioni di lavoratori all’anno. Tuttavia, gli anni 2010 avevano solo una media di circa 15 all’anno che coinvolgeva 150.000 lavoratori. L’enorme calo nel 1980 è avvenuto nell’era del fallito sciopero Patco [Professional Air Traffic Controllers Organization], che ha portato al termine «Sindrome Patco», che descrive la paura dei sindacati di scioperare e perdere.
[17] Salvo poi disperarsi quando mezzo milione di salariati è assorbito in un mese, perché questo per la Fed significa un aumento della pressione sui consumi.

Articolo apparso anche su Machina – Traduzione in spagnolo dal periodico El Salto

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 16 marzo 2023
Foto di Tumisu da Pixabay

Un anno dopo sull’orlo dell’abisso: adesso mettere in campo i saperi della nonviolenza

di Pasquale Pugliese

Dall’invasione militare russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 ad oggi è in corso una doppia guerra: quella combattuta sul territorio ucraino, di fatto tra due superpotenze nucleari, e quella mediatica che si svolge all’interno di entrambi i fronti, che Edgar Morin chiama “isteria di guerra”. La guerra sul terreno è ormai un “aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso”, com’è stata efficacemente definita dal filosofo Jürgen Habermas (la Repubblica, 19 febbraio 2023), evocando forse il libro “I sonnambuli” dello storico Christopher Clark che racconta come le case regnanti del 1914 portarono il mondo dentro l’abisso della “grande guerra” muovendosi come sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere l’orrore nel quale stavano facendo precipitare l’umanità. Ma l’abisso sul cui orlo ci troviamo adesso è quello incomparabilmente più devastante della guerra nucleare, rispetto al quale i governi e i popoli sono stati ripetutamente avvisati. Per esempio dall’Associazione degli scienziati atomici che il 24 gennaio scorso hanno spostato le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse a soli 90 secondi dalla mezzanotte, situazione di pericolo mai raggiunta prima; oppure dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres: “siamo al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare che potrebbe iniziare per caso o per scelta” (Twitter, 8 febbraio 2023).

Nonostante questo scenario apocalittico, durante questo anno non sono stati messi in campo, né dai confliggenti né dalle terze parti – che è cosa più grave – gli strumenti della ragione per risolvere il conflitto attraverso il negoziato, ma le armi della follia che hanno versato – e versano ancora – benzina sul fuoco in una “santa barbara” nucleare. Lo stessa parola “pace” nel discorso pubblico è stata sostituita dalla parola “vittoria”. Ossia dall’illusione della vittoria, come è stato autorevolmente dichiarato dal Capo di stato maggiore USA Mark Milley, “nessuno può vincere la guerra” (Il sole 24 ore, 16 febbraio 2023), e dal Capo di stato maggiore italiano Giuseppe Cavo Dragone, “non esiste una soluzione militare” (Il secolo XIX, 24 febbraio 2023). Ma le decisioni dei governi, anziché fondarsi sull’etica della responsabilità, che è il principio della politica nell’era atomica, sulla quale sono fondati la Carta dell’ONU, la Costituzione italiana, il Manifesto Einstein-Russell – come definito dal filosofo Hans Jonas: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità di vita futura sulla terra” (Il principio responsabilità) – si fonda ancora sull’etica antica delle intenzioni, alimentando lo “scarto prometeico” (Günther Anders) – la distanza – tra le parole pronunciate, le azioni realizzate e la consapevolezza delle loro possibili conseguenze apocalittiche.

La rinuncia all’etica della responsabilità porta con sé la rimozione di tutti i saperi della nonviolenza, necessari per affrontare e risolvere ragionevolmente questo conflitto con “mezzi pacifici” (Carta ONU, Art. 2), come tutte le “controversie internazionali” (Costituzione italiana, Art. 11). E’ stato rimosso, per esempio, il sapere dei mediatori, i quali sanno che se i conflitti degenerano in violenza armata e sono lasciati a se stessi (o, peggio, alimentati da coloro che inviano armi) ad ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo che – trattandosi in questo caso di potenze atomiche – può portare alla distruzione di tutti, a cominciare dal martoriato popolo ucraino. Se non intervengono soggetti terzi a mediare tra le parti, anziché a spingere sull’incremento del conflitto. Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che “occhio per occhio, il mondo diventa cieco”.

E poi nella vulgata binaria – resistenza o resa – che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di lotte nonviolente e resistenze disarmate, anche di fronte al nazifascimo. Saperi che non mancavano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male faceva un appello per lo studio della resistenza disarmata del popolo danese all’occupazione nazista in tutte le facoltà di scienze politiche del mondo “per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”. Unica resistenza in Europa, quella danese, capace di salvare dai campi di sterminio la quasi totalità dei cittadini di origine ebraica.

E poi sono stati rimossi i saperi dei movimenti per la pace che, almeno dalla guerra nei Balcani, propongono all’UE e ai governi italiani la costituzione dei Corpi civili europei di pace – secondo il progetto che già nel 1995 Alex Langer aveva avanzato al Parlamento europeo – e mettono in campo esperienze di interventi civili di pace gestiti dal basso. Per esempio, con un esperimento di storia controfattuale potremmo immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se nelle regioni del Donbass, a partire dal 2014, invece di far arrivare armi e armati a entrambe le parti, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale per fare interposizione, mediazione, riconciliazione tra le comunità, presidiando sul terreno l’applicazione degli accordi di Minsk, che invece sono stati puntualmente disattesi preparando così l’escalation successiva della guerra. Ma ai pacifisti viene chiesto “dove sono?” dopo l’escalation bellica, mai ascoltati prima, quando propongono strumenti pacifici per prevenire le guerre e manutenere la pace.

E ancora i saperi degli obiettori di coscienza che in migliaia disertano in Russia, in Ucraina e in Bielorussia non solo l’obbligo di imbracciare le armi – e per questo sono perseguitati dai rispettivi governi – ma anche di fare propria la logica dell’odio per il “nemico” che viene ossessivamente propagandata da ciascuna delle parti in guerra. E’ quanto hanno spiegato anche le attiviste pacifiste ucraina, russa e bielorussa ospitate in Italia recentemente dal Movimento Nonviolento: “in tempo di pace” – ha ricordato la giovane ucraina Kateryna Lanko – “sei considerato un buon cittadino se non uccidi, invece in tempo di guerra chi si rifiuta di combattere è considerato traditore della patria e condannato alla prigione. Sono qui a chiedere il vostro supporto, insieme alle mie colleghe attiviste, per difendere e promuovere il diritto all’obiezione di coscienza come via concreta alla pace e cercare tutte le vie possibili per dimostrare che anche oggi la nonviolenza è possibile.”(azionenonviolenta.it, 2 marzo)

Infine, ricordiamo che quello in corso in Ucraina – come documenta l’Uppsala Conflict Data Program del Dipartimento sulla pace e i conflitti dell’Università di Uppsala – è solo uno del 170 settanta conflitti armati – a bassa, media e alta intensità (di cui 54 guerre) – in corso in questo momento sul pianeta. Si tratta degli effetti a catena della crisi sistemica globale – climatica, idrica, energetica, alimentare, pandemica – che sta avviluppando il pianeta, per cui o mettiamo in campo i saperi della nonviolenza per affrontare e gestire questa moltiplicazione dei conflitti senza l’uso della violenza, oppure non ne usciremo vivi.

[Testo della relazione al seminario Un anno di guerra è troppo. La pace è la vittoria di cui abbiamo bisogno svolto il 24 febbraio 2023 a Reggio Emilia. Un estratto della quale, con qualche aggiunta (e cofirmato con Giorgio Beretta), è stata pubblicata su il Fatto Quotidiano, vedi qui]

Pubblicato su Annotazioni. Per la nonviolenza e il disarmo, militare e culturale, 11 marzo 2023

In difesa dei diritti umani

di Arianna Ballotta

LA PROMOZIONE DEI DIRITTI UMANI, DELL’UGUALIANZA E DELLA GIUSTIZIA SOCIALE SONO LA NOSTRA MISSIONE

Il lavoro in difesa dei diritti umani e civili dipende interamente dagli sforzi di cittadini di buona volontà. La cittadinanza attiva, infatti, è la presa di coscienza di semplici cittadini in merito ai propri diritti ed ai propri doveri nei più disparati ambiti della società civile.

Consapevolezza, rispetto, attivismo: questo è ciò in cui la Coalizione Italiana contro la Pena di Morte Onlus (COALIT) crede e per cui opera sin dal 1997.

COALIT è composta interamente da volontari qualificati che da oltre 20 anni si occupano di informare e formare i cittadini italiani e stranieri sulle tematiche dei diritti umani e civili nel mondo, ed in particolare sull’applicazione della pena di morte, alla quale ci opponiamo incondizionatamente, in quanto pena irrevocabile, crudele, disumana, degradante ed applicata in modo iniquo e sproporzionato in particolare nei confronti delle fasce più deboli ed emarginate della società.

Siamo particolarmente attenti alla situazione negli Stati Uniti d’America, in quanto unica democrazia occidentale che ancora applica la pena capitale come strumento di giustizia, nonostante si tratti di una pratica ormai superata ed abolita, legalmente o de facto, in oltre due terzi dei Paesi del mondo.

Collaboriamo a diverso titolo con diverse organizzazioni ed associazioni, in Italia ed in vari Paesi del mondo, affinché sia possibile la piena realizzazione dei diritti umani, politici, civili, economici, sociali e culturali di ogni individuo, ed organizziamo regolarmente, sia in Italia che all’estero, campagne informative e formative ovunque vi siano cittadini di buona volontà disposti ad ascoltare e a collaborare.

Organizziamo anche viaggi all’estero (principalmente USA) nell’ambito dei quali la nostra attività consiste principalmente in:

  • visite con detenuti nel braccio della morte e non, incontri con i loro legali al fine di esaminare i loro casi ed aiutare, per quanto possibile, ed incontri con le loro famiglie.
  • Seminari informativi e formativi (all’interno di istituti scolastici di ogni ordine e grado, università pubbliche e private, enti religiosi, enti pubblici e privati che ne fanno richiesta ed associazioni di vario genere) sulla pena di morte ed il rispetto dei diritti umani, portando la visione europea ed internazionale su questi temi, informando sulle nostre attività e sulle nostre esperienze in carcere.
  • Programmazione di campagne con le associazioni partner che si occupano della difesa dei diritti umani in loco, senza dimenticare la preziosa collaborazione con le associazioni dei famigliari delle vittime di crimini violenti che sono contrarie alla pena capitale.
  • Toccare con mano la realtà della pena di morte negli USA, come altrove, ed affrontare e capire le mille sfaccettature di quello che consideriamo un retaggio di inciviltà medievale ci permette non solo di dare un volto ai detenuti che ci impegniamo ad aiutare, ma anche a perseguire la nostra visione di un mondo senza pena capitale e nel quale vengano rispettati il diritto alla vita e la dignità di ogni individuo.

Portiamo nel mondo, in sostanza, una visione di cui siamo orgogliosi, ossia la visione di un’Europa apertamente abolizionista al punto che qualsiasi Paese chieda di far parte dell’Unione ha l’obbligo di abrogare il ricorso alla pena capitale. E si va persino oltre, vietando addirittura il commercio di sostanze che potrebbero essere utilizzate per porre fine alla vita di persone condannate a morte.

Così facendo, oltre a lottare apertamente contro una pena inaccettabile in primis per ragioni etiche e morali, difendiamo altresì strenuamente il principio sacrosanto della finalità rieducativa della pena, così come previsto dalla nostra Carta fondamentale secondo cui, all’art. 27 comma terzo, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al 2 senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. 

Se anche voi la pensate come noi, aiutateci a realizzare il prossimo viaggio negli USA!

Per scelta dei soci fondatori noi membri del direttivo di COALIT siamo tutti volontari e non percepiamo – né mai percepiremo – alcunché per gli incarichi quotidiani che svolgiamo sul territorio nazionale ed all’estero. Fino a qualche anno fa, riuscivamo anche ad autofinanziare tutti i nostri singoli viaggi e le nostre campagne. Oggi, purtroppo, la crisi dovuta alla mancanza di lavoro, alla situazione economica nel nostro Paese, alla mancanza di finanziamenti locali, regionali o statali, oltre alle conseguenze della pandemia e della vicina guerra, ci impongono, nostro malgrado, di chiedere aiuto perché non riusciamo a sostenere più progetti cosi impegnativi con le sole nostre forze. Nasce quindi la necessità di raccogliere fondi per continuare a raggiungere efficacemente i risultati che in tanti anni di lavoro ci hanno portato a raggiungere piccoli grandi esiti positivi nell’educare alla legalità, alla prevenzione del crimine, al rispetto dei diritti umani e civili e su quanto si possa e debba fare per restare umani in una società violenta.

Abbiamo avviato una campagna di raccolta fondi il cui link è il seguente:

https://www.gofundme.com/f/peace-justice-prisoners-rights-human-rights

Date un’occhiata e considerate l’idea, attraverso il vostro aiuto, di contribuire alla costruzione di una società migliore e meno violenta, più consapevole e più inclusiva, degna davvero di essere definita civile.

Ogni piccola donazione ci aiuterà ad avvicinarci al nostro obiettivo di sensibilizzare gli uomini al rispetto, alla nonviolenza e soprattutto al “restare umani”.

Arianna Ballotta
Presidente
Coalizione Italiana contro la Pena di Morte Onlus
https://www.facebook.com/coalit