Gianni Giovannelli

DISTRAZIONI DI MASSA

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di Gianni Giovannelli

Quando uno schiavo non prende
coscienza del significato e del
perché delle catene che ne
fanno uno schiavo, se gliele togli
ti accuserà di furto.

(Ugo Duse, 1926-1997, musicologo comunista)

La relazione sull’evasione fiscale e contributiva è parte integrante del NADEF (la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza), testo che deve obbligatoriamente essere presentato entro la data del 27 settembre, ogni anno. Il professor Alessandro Santoro, professore ordinario di scienza delle finanze presso la Bicocca e consigliere retribuito del MEF, aveva provveduto al deposito in termini, già il 19 settembre. Ma l’ineffabile Mario Draghi, come suo costume, della scadenza se ne è allegramente infischiato, rendendo nota solo la cosiddetta “previsione tendenziale”, congelando il resto, senza dare spiegazioni. Tale decisione, unilaterale e illegittima, ha provocato qualche timido malessere in una sparuta pattuglia di parlamentari, ma è stata accettata dalla larga maggioranza, silenziosa e genuflessa, incapace di resistere alla prepotenza del Presidente nominato dagli americani (dunque infallibile quando agisce ex cathedra). La nota di aggiornamento fu pertanto rivelata, insieme al testo completo del NADEF, solo il 5 novembre, da Giorgetti, nuovo ministro posto a capo del MEF con il beneplacito di Draghi.   La “previsione tendenziale” era naturalmente ottimistica ed encomiastica; la relazione, a consuntivo, un po’ meno. Il problema sta nell’oggettività dei numeri. Mentre l’evasione verificata, in termini assoluti, mostrava un sia pur minimo calo, toccava il massimo storico la quota in cui sono accorpate (per la verità senza una convincente giustificazione) le prestazioni autonome e i guadagni delle imprese: 68,7% per un totale di 27,65 miliardi nel corso dell’anno 2020. Come noto il numero complessivo di autonomi e imprenditori è alquanto più basso di quello dei lavoratori subordinati, ma il raffronto con l’evasione di questi ultimi è impietoso: 4,6 miliardi (in lieve crescita pure questo, era a 4,4). Una lettura di questi dati sembrerebbe suggerire una stretta repressiva contro i maggiori responsabili del mancato introito, ovvero le imprese, destinando a questo obiettivo la gran parte delle risorse. Invece entrambi i governi, quello uscente e quello appena insediato, hanno annunciato di voler destinare proprio alle imprese la gran parte delle risorse disponibili, negando invece l’utilità di introdurre una soglia salariale minima di garanzia per i lavoratori sottopagati; quindi ai 27,65 miliardi evasi (somma quasi pari allo stanziamento della manovra ultima approvata in consiglio dei ministri, 30 miliardi, da reperire con tagli alla spesa pubblica e uso dell’accantonato disponibile) si aggiungerà un premio alle imprese responsabili dell’evasione, senza alcun programma impositivo per recuperare i giganteschi profitti (quelli che vengono chiamati extraprofitti con definizione impropria atta a nascondere frodi e saccheggi consentiti dal dispotismo finanziario).

Le partite Iva

La nota di aggiornamento al DEF, approvata dal ministro Giorgetti, si pone peraltro in contrasto logico-politico con uno dei punti programmatici della Lega salviniana, l’estensione della flat tax al 15% (esente da IVA ma senza spese detraibili) da quota 65.000 euro (lordi) a 100.000 (trattabili o scaglionati, comunque almeno 85.000). Secondo la relazione il massimo storico di 27,65 miliardi sarebbe stato raggiunto a causa, dunque per colpa, dei lavoratori autonomi, i quali avrebbero omesso di dichiarare una parte di introiti per non superare il tetto attuale (65.000 euro) e subire un pesante aumento dell’imposizione. Hanno calcolato, infatti, che superando di un solo euro la soglia in cui opera la flat tax il singolo lavoratore autonomo si sarebbe visto addebitare circa 5.000 euro in più dall’Agenzia delle Entrate. Probabile, in effetti, che chi si sia trovato in quella condizione abbia ceduto alla tentazione di sottrarsi a un balzello irragionevole. Ma non convince molto che, in questa miscela fra imprese e lavoro autonomo, il picco di evasione sia riconducibile alle partite IVA con fatturato al confine del limite fissato dal regime forfettario; sembra piuttosto una considerazione politica volta a contrastare l’incremento dell’area a imposizione agevolata, un argomento in favore delle società di capitale, per struttura più adatte dei singoli soggetti fisici a mettere in opera meccanismi elusivi. Di certo, nello scontro assai acceso interno alla compagine di governo (a prescindere dall’esattezza di un rilievo presuntivo non accompagnato da riferimenti oggettivi), l’uso di una simile imputazione conduce per la via più rapida al prevalere di una linea in continuità con la gestione Draghi piuttosto che a un cambio di passo in senso nazional-populista. Il regime forfettario fu varato dal Conte 1, ovvero dalla maggioranza gialloverde, per iniziativa soprattutto della Lega, con una fiera opposizione non solo del PD (paladino delle macro-imprese) ma pure di LEU (per mera inguaribile ottusità). Il tetto di 65.000 euro (ma non tutti si collocano al tetto, il grosso sta sotto), applicando il 15%, porta a un ricavo di 55.250 euro, eroso tuttavia dalle spese, tutte non detraibili, legate all’attività svolta (box o ufficio o coworking, auto, cellulare, attrezzi) o sociali (materiali, sanità, assicurazioni, gestione separata INPS); stiamo dunque parlando di un’area caratterizzata da un forte rischio d’impresa e da orari pesanti (si pensi agli autisti), a fronte di un reddito netto mensile effettivo fra i 2 e i 3 mila euro, senza TFR. Concentrare la guerra contro questa ultima fascia residuale che sfugge agli estremi della forbice significa consegnare alla destra estrema (quella oltre Meloni) la loro rabbia, con la conseguenza di indebolire ulteriormente il fronte già logorato e diviso della maggioranza popolare (non populista) che subisce la violenza del liberismo, la prepotenza della scelta dispotica. L’incremento di evasione da 4,4 a 4,6 miliardi nel bacino subordinato va qualificata per quello che è: una disperata forma di resilienza, in un tempo di attacco al reddito della parte debole, da difendere e proteggere con la massima omertà, contro la polizia fiscale di destra e di sinistra. Con i lavoratori autonomi in regime forfettario va costruito invece un percorso di ricomposizione dell’unità, perché, a prescindere dal nominalismo, sono una componente indispensabile del possibile antagonismo, avversari oggettivi del dispotismo liberista (se e quando prenderanno coscienza delle catene).
L’avversario da colpire sono le imprese, in particolare quelle dell’energia, delle armi, della comunicazione, della farmaceutica; quelle che usano la guerra e la pandemia per moltiplicare i profitti allargando la forbice fra ricchi e poveri. L’evasione fiscale più rilevante, non esaminata nelle relazioni allegate al NADEF annuale, avviene legalmente, con il trasferimento della sede legale in Olanda o in Irlanda, con il pagamento dei vaccini europei in Svizzera, soprattutto con l’esproprio sistematico del comune (aria, mare, sottosuolo, sapere) da parte del c.d. privato. Un programma sovversivo non propone redistribuzione della ricchezza ma riappropriazione di quanto il liberismo dispotico ha rubato alle moltitudini.

Le menzogne di regime: il reddito di cittadinanza

Sono stati resi noti dalla Guardia di Finanza i dati complessivi relativi all’attività svolta nel quinquennio; e, quasi contestualmente la Banca d’Italia ha pubblicato il report UIF (Unità di Informazione Finanziaria), elaborato sulla base delle Segnalazioni di Operazioni Sospette ricevute. Il quadro emerso non è per nulla contraddittorio, sembra anzi integrarsi a conferma.
Le frodi accertate dal 2019 ad oggi nell’erogazione del reddito di cittadinanza ammontano a 288,7 milioni di Euro, ovvero una quota complessiva pari ad 1% delle somma complessiva impiegata (circa 25 miliardi). I soggetti accusati degli illeciti sono 29.194 (9731 per ogni anno); ogni criminale ha ottenuto, in media, un bottino di circa 300 Euro mensili, rischiando assai quanto a sanzioni, per giunta con poche possibilità di passarla liscia, posto che si tratta di verifiche incrociate cui è quasi impossibile sfuggire. In buona sostanza si tratta, in genere, di comunicazione in cui la dichiarazione risulta difforme rispetto all’ISEE o al DSU (Dichiarazione Sostitutiva Unica), ad opera per lo più di soggetti marginalizzati (pregiudicati, immigrati precari, tossicodipendenti); per giunta il controllo sull’utilizzo concreto di queste somme apre un sipario inquietante (di complicità fra mafia e istituzioni) visto che viaggiano mediante contratti di locazione fittizi e sovrafatturazione commerciale, strumenti più in uso fra i ricchi che fra i poveri (ma la rete di imbiancatori naturalmente non viene perseguita).
Su queste anomalie del tutto marginali (ripetiamo: 1%) la macchina della propaganda neoliberista ha sferrato un attacco mediatico di grandi proporzioni, arruolando economisti, giornalisti, opinionisti, con lo scopo dichiarato di eliminare questo ammortizzatore sociale, percepito come una sorta di concorrenza sleale da chi esige manodopera reclutata dai caporali e scandalosamente sottopagata. Le sanzioni a carico di chi accede al reddito di cittadinanza senza averne diritto sono più severe di quelle previste per chi omette le coperture contributive e spunta salari da fame giocando sul bisogno crescente dei poveri.
La marginalità delle anomalie legate all’erogazione del reddito di cittadinanza emerge chiarissima esaminando proprio i dati forniti dalla Guardia di Finanza. Nel periodo 2017-2021 (cinque anni) l’evasione e la frode nel settore degli appalti ammonta a 34 miliardi di Euro; riparametrati nel triennio (per un raffronto con quella del reddito di cittadinanza) sono 20,4 miliardi contro 288,7 milioni ! L’imputazione del totale è divisa in gran parte (30 miliardi su 34) fra appalti truccati (11 miliardi), corruzione (ovvero mazzette: 1 miliardo) e responsabili amministrativi di danno erariale (19 miliardi). Anche riparametrate al triennio le sole mazzette ammontano a 600.000 Euro, più del doppio delle frodi sul reddito di cittadinanza!
Clamoroso poi è l’esito di un raffronto condotto sui soggetti responsabili, che nel settore degli appalti riguarda 18.952 persone in cinque anni, dunque 11.371 nel triennio, contro i 29.154 nell’area del reddito di cittadinanza. Ciascun soggetto (in media naturalmente) nel settore appalti ha ricavato 10.964 Euro mensili per i tre anni di riferimento; dunque un singolo evasore nel settore appalti incassa in un mese quello che prende in tre anni un destinatario senza titolo del reddito di cittadinanza.
Ma la propaganda di regime tace sugli appalti e si scatena sull’ammortizzatore sociale, con il preciso disegno di non perseguire le grandi frodi e togliere a tutti i disagiati anche quel poco che ha consentito loro di sopravvivere durante questa lunga crisi.
I dati della Guardia di Finanza trovano conferma in quelli elaborati da UIF (Unità di Informazione Finanziaria) per Banca d’Italia, nell’analisi diretta e coordinata dal suo responsabile, dottor Claudio Clemente.
La menzogna viene distribuita al pubblico come verità e in qualche modo lo diventa, grazie all’arroganza del potere. E così matura la distrazione di massa, per far dimenticare guerra, inquinamento, attacco al risparmio, sfruttamento. E’ una forma moderna di guerra asimmetrica di classe condotta da chi detiene le chiavi del potere contro i sudditi.

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ALLE CINQUE DELLA SERA

(Lamento per Giuliano De Seta)

Fonte della foto: www.infoaut.org

di Gianni Giovannelli

Son cussì disgrazià che pianzo tanto,
Né so se gò dirito ai sfoghi e al pianto.

Giacomo Ca’ Zorzi Noventa
(Versi e poesie, pag. 173)
Milano, Edizioni di Comunità, 1956

Alle cinque della sera, in un reparto della piccola fabbrica metalmeccanica BC Service, nel cuore del laborioso nord-est, a Noventa di Piave, è morto Giuliano De Seta, diciotto anni appena compiuti, ultimo anno all’Istituto Tecnico Leonardo Da Vinci (Portogruaro). Per poter conseguire il diploma il giovane studente doveva, necessariamente, documentare qualche centinaio di ore di prestazione gratuita nell’ambito del programma di alternanza scuola-lavoro; e così, alle cinque della sera, mentre stava eseguendo le tassative disposizioni ministeriali, Giuliano De Seta ha perso la vita, schiacciato da una lastra d’acciaio, solo, senza scampo. Lo demas era muerte y solo muerte a las cinco de la tarde.

La cosiddetta alternanza fu introdotta con una legge chiamata “buona scuola”, la 107/2015, commi da 33 a 45, quando ministro in carica era Stefania Giannini, in quota “tecnica” legata al gruppo parlamentare del senatore Monti, durante il governo Renzi. Il comma 36 escludeva qualsiasi onere per la finanza pubblica e assegnava al dirigente scolastico la responsabilità di individuare le imprese presso le quali il lavoro gratuito obbligatorio si sarebbe in concreto materializzato, anche con riferimento ai problemi della sicurezza.  Le linee guida attualmente in vigore sono quelle contenute nel decreto ministeriale n. 774 del 4.9.2019, a firma di Marco Bussetti, indipendente di area leghista, quando era in carica il governo gialloverde guidato da Conte e Salvini; si applica altresì la Carta dei diritti e dei doveri degli studenti varata con il decreto interministeriale 3.11.2017 n. 195. Non è stato reso noto, nell’immediatezza, con chiarezza e trasparenza, il testo della convenzione fra scuola e impresa che si riferisce all’assegnazione di Giuliano De Seta presso B.C. Service s.r.l.; sappiamo solo – lo ha riferito la dirigente scolastica Anna Maria Zago – che questa società collaborava da tempo con l’ITIS Leonardo Da Vinci. Ancora ignote sono invece le generalità del tutor interno e del tutor esterno, soggetti che secondo l’articolo 4 delle linee guida avrebbero dovuto interagire costantemente fra loro e tenere sotto controllo l’attività svolta. Ma alle cinque della sera, in quel drammatico venerdì 16 settembre, non c’erano, mentre la muerte puso huevos en la herida. Ci pare davvero difficile rinchiudere questo terribile accaduto nel recinto della fatalità, della semplice disgrazia imprevista e imprevedibile. Il quadro che caratterizza la vicenda è quello di responsabilità plurime, di comportamenti tollerati dalle istituzioni dello stato, concretando quella che con suggestiva immagine venne qualificata complicità ambientale. Da molti anni, troppi ormai, l’impunità sostanziale accompagna ogni morte sul lavoro, sia per esposizione all’amianto, sia per consapevole rimozione dei dispositivi di sicurezza, sia, come in questo caso, per una mal concepita, e mal eseguita, alternanza di studi e lavoro. Chi ha imposto l’alternanza come obbligatoria al fine di conseguire il diploma ha costruito una fitta ragnatela di regole ben difficilmente applicabili (anche, ma non solo, per mancanza di fondi), volutamente dimenticando un idoneo conseguente apparato di sanzioni. Non è questione di invocare un giustizialismo inutile e insensato, come presumibilmente suggerirà la critica interessata dei giuristi ingaggiati dalle associazioni datoriali o da pseudo-sindacalisti foraggiati; è piuttosto la constatazione di come si sia consolidata nel tempo una cultura giuridica e legislativa di appoggio a chi reprime le lotte dei precari nella logistica o le proteste contro il TAV in Val di Susa, ma al tempo stesso reticente nel contrasto di inquinamenti, omicidi sul lavoro, riciclaggi, bancarotte. Per i primi compare sempre più frequentemente l’addebito di associazione per delinquere, per gli altri la conclusione, per una ragione o per l’altra, è l’impunità.

Noventa di Piave è il borgo in cui nacque uno dei più importanti poeti dialettali del secolo scorso, Giacomo Ca’ Zorzi. Amava la sua terra e per questo volle firmarsi “Noventa”. Era un convinto cattolico liberale, antifascista nel ventennio, legato a Croce e a Gobetti; non certo un comunista, ma ugualmente sensibile e attento a quel che avveniva nei ceti popolari. Giuliano, nato in una famiglia di lavoratori emigrati dalla Calabria, viveva a Ceggia, un paese in cui negli anni Sessanta aveva messo radici Potere Operaio. Questa morte, alle cinque della sera, in un piccolo triangolo di territorio veneto capace di lotte sociali e sottomissioni, pronto sempre a lavorare senza risparmio nella speranza di migliorare il destino della collettività, ci deve far riflettere. Magari potrebbe diventare un grimaldello per superare questa bonaccia di apatica rassegnazione in cui siamo caduti, per riaprire una porta sul futuro.

Giovanni Cagnassi, cronista per La Nuova di Venezia e Mestre, il 17 settembre, commentando l’incidente ha così descritto B.C. Service s.r.l.: “una di quelle aziende specializzate e poco sindacalizzate che sono la spina dorsale dell’economia del territorio e di una zona industriale molto attiva”. L’articolo rende bene il contesto, ci fa comprendere le ragioni profonde della complicità ambientale in cui si radica il consenso e non trova ostacoli una organizzazione neoliberista che in poco conto tiene la vita umana. I genitori della vittima vanno rispettati, nella loro identità e nel loro dolore; e anche nel loro procedere prudentemente, senza proclami. Al tempo stesso vanno sostenuti, evitando ogni strumentalizzazione, quando dicono: “Non ce la sentiamo di esprimerci finché la magistratura non avrà accertato l’esatta dinamica dei fatti. Però, è ovvio, vogliamo sapere la verità su come sia stato possibile che la vita di nostro figlio finisse in questo modo”.

Non credo sia possibile condividere tanta fiducia negli accertamenti della magistratura, a fronte di una inaccettabile incapacità, nella gran parte dei casi, di pervenire rapidamente all’individuazione dei responsabili. E penso sia bene invece esprimersi subito, qui e ora, incalzando senza sosta, perché la “verità”, in casi come questo, è per sua natura ribelle, se non anche rivoluzionaria. E allora potremmo procedere alla redazione di un testo in cui si chiede, ora, che sia reso di pubblica conoscenza il testo della convenzione (deve farlo Anna Maria Zago che dirige l’ITIS Da Vinci di Portogruaro) e che diano subito la loro versione, previa identificazione, i due tutor. I genitori hanno riferito al giornalista del Corriere Andrea Priante (18 settembre, pagina 23) che Giuliano aveva lavorato come operaio presso la B.C. Service s.r.l. nei mesi di luglio e agosto con un regolare contratto di apprendistato. Lascia perplessi un contratto di apprendistato di due soli mesi, fra l’altro risolto proprio quando ebbe poi inizio lo stage di alternanza. Che senso abbia poi un breve stage di alternanza dopo due mesi di lavoro è un bel mistero; certamente va acquisita anche tutta la documentazione relativa a questo contratto (dall’aria assai poco regolare se la descrizione risultasse esatta) e la direttrice Anna Maria Zago (con i due tutor) dovrebbe sentirsi tenuta a spiegare come le due prestazioni siano state ritenute compatibili. L’assegnazione ad un’impresa metalmeccanica rientra fra quelle a rischio elevato secondo le norme che regolano l’alternanza; dunque era necessario un congruo periodo di formazione in presenza, con una idonea informazione sui rischi. Lo svolgimento dell’attività lavorativa gratuita prima dell’inizio dell’anno scolastico induce qualche dubbioso sospetto.

Vogliamo provare ad intervenire con appelli e proteste? Questo Lamento per Giuliano De Seta, archiviata la malinconica campagna elettorale, potrebbe essere un modo per ritrovarci.

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ESTERNO NOTTE di Marco Bellocchio. Riflessioni

di Gianni Giovannelli

Tutta la molteplicità del mondo,
la sua illusionistica corposità,
è un intreccio di enigmi.
Ma l’enigma si formula
contraddittoriamente.
Ogni coppia di contrari
è un enigma,
il cui scioglimento è l’unità.

Giorgio Colli
(La nascita della filosofia)
Milano, Adelphi

Sei episodi divisi in due parti, circa cinque ore complessive, pochissimo pubblico in sala in entrambe le proiezioni da me scelte, per due volte nel primo pomeriggio festivo, senza mai annoiarmi, attento e coinvolto. Non so se sia stato così per il debito emotivo che mi lega a questo ultraottantenne giovanissimo regista, fin da quando, ragazzo, ero rimasto affascinato dalla rabbiosa intelligenza dei suoi pugni in tasca (1965); forse anche, ma di certo non solo.

Il fatto
Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro hanno segnato profondamente un tempo, e contribuito a modificare il rapporto di forza fra operai e capitale, a preparare la transizione autoritaria; la vicenda complessiva si caratterizza per essere, contestualmente, un intreccio di enigmi e un fatto storico, nella sua materiale – ma a ben vedere solo apparente – semplicità. Le lunghe polemiche, mai sopite in 44 anni, ruotano intorno a due quesiti, posti dai contendenti in contraddizione fra loro: se le BR debbano ritenersi o meno un’organizzazione davvero genuina (qualunque sia il significato di un simile aggettivo) e se ci si trovi o meno di fronte ad un complotto di natura politico-militare. Un falso sillogismo mai rilevato come tale: l’adesione alle Brigate Rosse di 2 o 3 mila veterocomunisti non esclude affatto, almeno sul piano logico astratto, l’intervento autonomo di un apparato statale capace di cogliere l’occasione per propri fini. Eppure il falso sillogismo ha fino ad oggi dominato ogni discussione sul caso Moro.

Il film
Marco Bellocchio ci costringe ora a cambiare prospettiva, muove da un angolo di visuale diverso, inusuale, spiazzante. L’azione armata è solo un frammento della vicenda, il punto di partenza, il fatto che costituisce presupposto necessario degli eventi successivi. Ma solo l’esame dell’intero affaire Moro (per usare l’efficace titolo del volume di Leonardo Sciascia) consente di sciogliere l’intreccio degli enigmi, portandoli a unità. Con l’intuito e la formidabile potenza dell’opera d’arte il regista pone al centro della scena non gli autori materiali del sequestro ma l’apparato di potere: ministri, poliziotti, preti, agenti segreti, psichiatri, faccendieri, militari, massoni della P2. I colloqui fra l’agente americano Pieczenik, inviato sotto copertura a Roma per seguire gli sviluppi del sequestro, e il ministro Cossiga, in una meravigliosa terrazza romana, rendono l’atmosfera di quelle giornate. I due costruiscono una doppia strategia, con Moro vivo e con Moro morto, giusto per non lasciare nulla al caso; ma entrambi hanno ben chiaro che il destino del prigioniero è segnato in modo irreversibile. Paolo VI, amico di vecchia data dello statista democristiano, decide, con molte dubbiose perplessità, di chiedere il rilascio utilizzando lo sterco del diavolo; in poche ore raccoglie banconote pulite per oltre dieci miliardi, una somma mai pagata da nessuno in precedenza, accatastata su un tavolo nelle stanze del Vaticano, pronta per essere versata alle Brigate Rosse. Ma i vertici delle Forze Armate remano contro, i comunisti rilanciano la strategia della fermezza, Andreotti tesse abilmente il reticolo di un rifiuto. Ogni spiraglio di trattativa viene, dentro il palazzo del potere, immediatamente richiuso senza lasciare al sequestrato alcuna possibilità di scampo: con diverso scopo e con diverse finalità i più lo volevano ammazzato, con poche eccezioni dentro una minoranza ormai rassegnata all’inevitabile epilogo. Anche il Pontefice finisce con il rassegnarsi e rinunzia al sogno di pagare un riscatto; la famiglia Moro comprende di poter solo attendere la fine, decisa e sostanzialmente pianificata: una condanna a morte ratificata dalle istituzioni.

Protagonisti e comparse
I militanti delle Brigate Rosse appaiono comprimari quasi irrilevanti, espropriati del loro destino. In una piazza della capitale si svolge l’animata discussione fra due colombe (Morucci e Faranda) favorevoli alla liberazione e due falchi (Moretti e Braghetti) decisi ad uccidere. E mentre si svolge questo surreale alterco i quattro subiscono, senza versare nulla, impassibili, la pressante richiesta di monete da parte di un tossico che voleva raggranellare il necessario per la sua dose; come se non bastasse, poco dopo, una donna viene scippata da due ladri in moto che le rubano la borsa, grida, senza sapere di chiedere, inutilmente, aiuto alla direzione strategica del partito armato! Le immagini sono qui più forti di qualsiasi ricostruzione storica o critica: quella dei quattro brigatisti è una pazzia amletica in cui affiora un metodo, ma al tempo stesso rimane indifferente rispetto alla realtà della popolazione metropolitana, sganciata da rapporti sociali veri. Comunque lo ritengo un passaggio di bellissimo cinema.

L’epilogo
Un doppio funerale costituisce il grottesco epilogo. Una sepoltura strettamente privata, con la presenza dei pochi congiunti nella tomba di famiglia; una cerimonia pubblica con le autorità schierate, disertata dai congiunti, senza la salma, con il trionfo dell’ipocrisia di regime. Le esequie di stato senza il corpo segnano l’atto fondativo delle larghe intese, inizia il percorso di transizione che consentirà, cancellando le conquiste del movimento, di varare l’odierno stato autoritario e di imporre l’ordine nuovo del capitalismo finanziarizzato. Più per intuito artistico che non per ragionamento politico osservava, quasi nell’immediatezza dei fatti, Leonardo Sciascia (1978, Sellerio): ma se lo scopo delle Brigate Rosse è quello di interrompere il processo di attrazione, il movimento di congiunzione che si svolge fra Partito Comunista e Democrazia Cristiana come mai non si accorgono del sortire ad effetto opposto delle loro azioni, cioè che quel processo riceve dalle loro azioni parvenza di necessità e accelerazione? In una lettera dal carcere lo stesso Aldo Moro mostra di avere ben chiaro il quadro della fermezza, del fronte di chi lo vuole morto: il governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata. Per un paradosso della storia l’artefice dell’ingresso comunista in maggioranza deve essere ucciso per consentire la riuscita del suo progetto, con la piena adesione del PCI anche alla Nato. Nei sei episodi, mentre si svolge il dramma, la popolazione di Roma vive la propria vita di tutti i giorni, andava maturando la rassegnata indifferenza che ora abbiamo tutti davanti agli occhi; tornano in mente i versi di Trilussa sul venir meno del credere: nun se fida più della campana perché conosce quello che la sona.

Il sugo della vicenda
Bellocchio rimuove dal centro della scena la ragione di mille inutili polemiche su cui si attardano in troppi, ovvero se già in Via Fani il nucleo delle Brigate Rosse abbia potuto contare su un appoggio esterno, o, ancora, se la struttura, politica e militare, dell’organizzazione armata possa considerarsi genuina. Nel film ciò che rileva è il fatto non le modalità tecniche che lo hanno reso possibile, quali che esse siano.
Ci sono state due commissioni d’inchiesta, si sono svolti molti processi e si è stampata una montagna di volumi. Esiste una verità di stato, affidata al memoriale costruito dalla leggendaria suor Teresilla Barillà, firmato dal pentito Morucci con editing del giornalista democristiano Remigio Cavedon, confermato quale versione corrispondente al vero da Moretti. Mancano all’esame i pizzini di polizia, numerosi rapporti degli informatori, le relazioni dei servizi segreti; questo rende difficile allo storico la ricostruzione dettagliata, esauriente, convincente.
Ove con il bizzarro aggettivo genuine si intenda affermare che le Brigate Rosse erano una struttura reale, con qualche migliaio di militanti, in gran parte formatisi durante le lotte di massa, allora non ci sono dubbi che sia così. Ove si intenda invece negare l’uso di infiltrati nel gruppo si va invece contro il buon senso e l’evidenza. D’altro canto dove mai i servizi segreti e l’apparato repressivo avrebbero dovuto piazzare i propri informatori, se non dentro formazioni armate? Alcuni sono noti, altri sono ancora coperti dal silenzio di stato. Ma i nomi noti abbracciano l’intera vita dell’organizzazione: Marco Pisetta risale al periodo 1970/72 (arresti a Milano in Via Delfico e in Via Boiardo), Frate Mitra Girotto agì nel 1974 consentendo la cattura di Curcio e Franceschini (ma non solo), nel 1979 furono le informazioni a segnare la sorte di Morucci e Faranda (troppo lungo sarebbe descrivere il come anche se interessante), e il 4 aprile 1981 cadde in trappola anche Mario Moretti, ingannato da Renato Longo che aveva ricevuto 60 milioni (a rate) dal capo della mobile di Pavia, Ettore Filippi, poi vicesindaco di centrosinistra. L’esistenza reale di una formazione armata non impedisce affatto che possano infilarsi fra i militanti spie di regime; questo avviene anzi sempre, quasi senza eccezioni. E non consente neppure di escludere condizionamenti, azioni di disturbo, abili provocazioni, interferenze in genere. Quel che conta nell’Affaire Moro non è l’azione militare, ma il dopo. E nel dopo il ruolo dei rapitori è stato secondario, la sequenza l’hanno imposta, come veri protagonisti, coloro che stavano a palazzo.

A volte il caso
Non c’è dubbio che, comunque siano andate le cose, l’agguato di Via Fani mostri nella preparazione molte falle. Eppure è riuscito. Che ciò sia dovuto a casuale buona sorte oppure al supporto di due professionisti a bordo di una moto (come ritengono alcuni) poco cambia nel risultato finale: bene ha fatto, io credo, il regista ad attenersi all’accaduto sostanziale, evitando digressioni inquinanti.
La prima guerra mondiale è legata all’attentato che nel 1914 costò la vita all’arciduca Ferdinando e alla moglie Sofia. Un assassinio riuscito nonostante una preparazione assai sgangherata. Dragutin Dimitrievic aveva assoldato e armato una pattuglia di nazionalisti socialisteggianti, che provenivano da due (genuine) strutture armate: Crna Ruka (mano nera) e Narodna Opbrana (difesa del popolo).
Il capo del governo, Nicola Pasic, fu avvisato da un informatore, tale Voijslavtankosi, ma ritenne di non adottare misure particolari in prevenzione; in guerra si schierò contro l’Austria Ungheria. L’attentato ebbe corso.
Per un errore di tiro, al passaggio dell’auto imperiale, fu ferito un attendente, il pilota accelerò portando l’arciduca salvo al municipio. Gavrilo Princip non riuscì ad intervenire come aveva in animo, rinunciò sconfortato al progetto e si diresse verso l’osteria. Ma il diavolo ci mise lo zampino. L’arciduca, dopo aver rimproverato i funzionari del municipio per la cattiva gestione della sicurezza, volle ad ogni costo risalire in macchina per andare a prendere il suo collaboratore ferito. C’era folla, la vettura procedeva lentamente, fermandosi ogni tanto; durante una di queste brevi soste Gavrilo Princip si trovò accanto l’arciduca. E, salito sul predellino, sparò con la sua Browning M 1910 calibro 7,65 uccidendo l’erede al trono insieme alla consorte: il progetto sgangherato di sette sprovveduti, per una serie di accadimenti imprevedibili, ebbe successo, per geometrica potenza del caso! Dopo le confessioni dei congiurati il governo imperiale chiese l’estradizione degli attentatori e il rifiuto serbo aprì la via alla grande guerra, come speravano i gestori del dopo cogliendo al volo una ghiotta occasione.
Paolo Mieli ha scritto: ritengo che in merito all’Affaire Moro si sappia sostanzialmente tutto quel che si deve sapere. Dal suo punto di vista ha ragione. E’ un affidabile funzionario di quello stesso apparato che ha determinato davvero, con lucida consapevolezza e con geometrica potenza, la sorte dell’esponente politico democristiano. Un regista geniale, Marco Bellocchio, ha sciolto l’intreccio di enigmi, con la semplicità dell’arte.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera l’11 luglio 2022

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“Guido Bianchini, ritratto di un maestro dell’operaismo” – Presentazione del libro: i video degli interventi – Padova 10 maggio 2022

di Gianni Giovannelli

Padova 10 maggio 2022, ore 17. Siamo nell’Aula N, a Scienze Politiche, in Via del Santo; non è una piccola sala, negli anni della rivolta si erano tenute qui molte appassionate assemblee di movimento, era un laboratorio del pensiero politico operaista.
A dispetto di ogni timore che segnava il tempo dell’attesa, la sala si è riempita in fretta. I posti a sedere se li sono presi, giustamente, i compagni più anziani, un po’ per la fatica degli anni, un po’ anche per nascondere l‘emozione di essere tornati sul luogo del delitto, dopo il 7 aprile, dopo la repressione, dopo la restaurazione nel tempo delle larghe intese. Esaurite le sedie crocchi di ragazze e di ragazzi hanno occupato, a terra, i corridoi.
Finalmente più generazioni hanno trovato il modo di ritrovarsi, di riunirsi: brutto segnale per il potere!
L’incontro era stato programmato per presentare il volume dedicato alla figura di Guido Bianchini (1926-1998), uno degli esponenti più significativi dell’operaismo italiano, per oltre vent’anni al lavoro presso l’università patavina, con il solo intervallo della detenzione e della latitanza, con il rientro dopo l’assoluzione, dopo il naufragio delle accuse mosse nei suoi confronti dal pubblico ministero del teorema, Pietro Tomas de Torquemada Calogero. Di questo magistrato inquirente, in pensione dal 2015, dopo la promozione al vertice della procura generale veneziana, nessun ricordo è rimasto a memoria del suo insuccesso e del suo zelo repressivo. Anche in questo è stato sconfitto, dimenticato. La sala era invece piena di vecchi e giovani perché ben più viva è la figura della sua vittima, che  nonostante l’assoluzione mai volle vestire i panni dell’innocente. Di pervicace contrasto al potere Guido volle anzi sempre essere colpevole, e questo ce lo mantiene caro.
Il libro, edito da Derive Approdi, nella collana tascabile Input , contiene le poche pagine a stampa pubblicate da Bianchini in vita, alcune interviste finora inedite e di straordinario interesse, una ventina di testimonianze scritte per l’occasione da chi lo ha conosciuto: sono tasselli di una storia che ci appartiene.
Offriamo qui l’insieme degli interventi che si sono susseguiti nel corso di una bella giornata, sotto la guida attenta di Alisa Del Re, felice di essere tornata in Aula N, nella sua facoltà, a ricordare l’amico insieme ai partecipanti, in un clima di autentica suggestiva commozione. Buona visione.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 14 giugno 2022

“Guido Bianchini, ritratto di un maestro dell’operaismo” – Presentazione del libro: i video degli interventi – Padova 10 maggio 2022 Leggi tutto »

Enrico Letta: il cavaliere dalla nobile coscienza

di Gianni Giovannelli

E se la Nato chiama
ditele che ripassi:
lo sanno pure i sassi:
non ci si crede più.                                                        

(Marcia della Pace Perugia-Assisi, 1961:
Franco Fortini e Fausto Amodei, camminando)      

Nel 1854, a New York, fu pubblicato un opuscolo di Marx (Il cavaliere dalla nobile coscienza), dedicato alla figura di Lord Palmerston, rimasto vent’anni Segretario per la Guerra nelle file dei conservatori e successivamente, per altri vent’anni, a capo della politica estera, ma ora quale esponente dei progressisti. Ogni volta trovava il modo di presentarsi come il rappresentante di una novità politica, come l’unica possibile soluzione per risolvere le crisi di governo. Un giudizio rimaneva sempre fermo nel suo agire, ovvero l’anonima nullità del Parlamento. Almeno così riteneva Marx in questa salace ma puntualissima invettiva.
Lo scritto mi è tornato alla memoria leggendo il recente intervento, concesso in esclusiva da Enrico Letta al quotidiano Il Foglio: per almeno due graffianti annotazioni. La prima: quando è incapace di tenere testa a un avversario forte ne improvvisa uno debole. La seconda: a forza di adulazioni e di seduzioni quell’Alcina riusciva a trasformare tutti i suoi nemici in giullari. D’accordo. Enrico Letta non è certo Palmerston (che non si sarebbe mai fatto fregare il posto di comando da un birbante toscano di provincia); ma attenzione a non sottovalutarlo, quando gli altri son tutti ciechi pure un orbo vede lontano.
Enrico Letta è assai abile nel sedurre, e non si sente per nulla in imbarazzo nell’adulare; questo non significa affatto che non sia pronto a colpire, occorrendo alle spalle. Giuseppe Conte, buon incassatore, è diventato assai più guardingo, dopo aver subito, insieme a complimenti eccessivi, uno sgambetto inatteso nel corso delle elezioni per la presidenza della Repubblica; il sempre sorridente Roberto Speranza farebbe bene, pure lui, ad evitare distrazioni, dopo il troppo caloroso abbraccio del segretario PD durante la caricatura di congresso organizzata a Roma da Articolo 1. Più che una fusione si profila la resa incondizionata del manipolo di ex dissidenti, con prevedibili risse per agguantare i pochi seggi disponibili alle prossime elezioni nazionali. Letta non esita a lodare, elogia perfino Giorgia Meloni, giusto per non trascurare nulla. Attenti: la maga Alcina (Palmerston/Letta) è assai lesta nel trasformare gli ammaliati in piante o animali, anche quando magari sembra accontentarsi di renderli vocianti giullari della Nato.
Enrico Letta evita gli avversari che potrebbero infastidirlo, ostacolando il corso da lui prefissato degli eventi; preferisce dunque sostituirli con altri più deboli, da lui appositamente scelti o, quando occorre, perfino creati dal nulla.  In genere sono personaggi grigi e inutili, resi famosi per 15 minuti e ricacciati in archivio a fine spettacolo. Quando la pandemia occupava le prime pagine Letta vestiva i panni del paladino della scienza, attaccando con foga qualche ingenuo malcapitato, chiamato a ricoprire il ruolo dell’oscurantista o del negazionista. Negli ultimi due mesi ha scoperto, come Palmerston, di poter utilizzare una nobile coscienza e si è fatto cavaliere della libertà, della resistenza popolare, della guerra di liberazione dal dispotismo russo; alla testa delle truppe governative mobilitate dal maresciallo Draghi va stanando i renitenti alla leva, ignobili pacifisti al soldo del tiranno Putin e dei suoi alleati.

Le sette unioni e il programma di restaurazione

Enrico Letta evoca, in apertura del suo saggio, nientemeno che un nuovo ordine europeo contro il dispotismo putiniano, un nuovo ordine che secondo lui dovrebbe sorgere dalla guerra e dalla pandemia, appoggiato a sette pilastri. Il primo pilastro viene individuato in una politica estera comune, fondata sul piano di sanzioni messo a punto da Mario Draghi e da Janet Yellen, entrambi membri del Gruppo dei TrentaMa si guarda bene dallo spiegare quali misure andrebbero in concreto adottate per evitare l’inflazione galoppante e la crisi economica connessa all’aumento dei costi energetici, alla strategia delle sanzioni. In realtà i 27 paesi dell’Unione sono profondamente divisi proprio sul come affrontare le conseguenze di guerre e ritorsioni, sia sul piano di un welfare adeguato sia sulla spinosa questione del deficit. Il secondo pilastro si presenta ancora più fragile e sconsiderato del primo. Si tratterebbe di confederare all’Unione Europea dei 27 (ormai orfani del Regno Unito, divenuto quasi ostile) Ucraina, Moldavia (con o senza i contrabbandieri della Transnistria ?), Georgia (con o senza Abkhazia e Ossezia ?), e a maggior ragione, sussurra il Letta, tutti i paesi balcanici (dunque Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia, Kossovo, Bosnia, ma a questo punto perché non la confinante Turchia con il suo pezzo di Cipro ?). Già esiste un diritto di veto che impone ai 27 l’unanimità; figuriamoci se una simile Confederazione, piena zeppa di litigi antichi, sarebbe in grado di organizzare il cambiamento climatico, oltre a garantire la pace! Questa è una consapevole esposizione fraudolenta, comunque è un disegno non realizzabile. Il terzo pilastro riguarda l’accoglienza. Sostiene Letta che la vecchia contrapposizione frontale in tema di rifugiati si sarebbe ribaltata per poter soccorrere chi fugge dalla guerra, sottolineando in particolare lo sforzo del governo polacco. Ma non è affatto così; il trattamento riservato dal governo polacco ai diversi che premevano alla frontiera bielorussa, respinti e bastonati, non lascia dubbi. Rimane viva nella vecchia Europa, a est come a ovest, la xenofobia razzista, l’aiuto umanitario non vale per tutti, l’accordo momentaneo connesso alla guerra non può diventare regola. Anche Visegrad possiede diritto di veto. Il quarto pilastro, la politica energetica, si concreta in una generica petizione di principio, senza indicazione puntuale di passaggi operativi, di investimenti (e di profitti). Propone di moltiplicare le fonti di energia rinnovabili, ma al tempo stesso tace, senza prendere posizione, sulle continue pressioni per introdurre il nucleare, a dispetto dell’esito referendario italiano e delle normative tedesche vicine all’entrata in vigore. Di fatto il governo italiano cerca rifornimenti fossili (gas e petrolio) in altri e diversi paesi (che peraltro neppure applicano sanzioni e commerciano con la Russia), senza alcun progetto energetico comprensibile e chiaro, lasciando di fatto ogni ricaduta sulle spalle dei meno abbienti. Chi ci guadagna? Per ora le banche, non certo i precari. Il quinto pilastro lascia pochi dubbi, posto che tratta esplicitamente della sicurezza militare. Il buon Letta riconosce che già nel lontano 1954 il tentativo di costruire la Comunità Europea della Difesa si era concluso con un naufragio, e da allora nessuno ne aveva più parlato, lasciando in sostanza ogni decisione alle strutture sovranazionali della Nato. Ora vorrebbe che Italia, Spagna, Francia e Germania promuovessero un esercito europeo, autonomo dai singoli Stati; ma al tempo stesso non può non essere consapevole che si tratta di una pura astrazione, senza gambe per camminare. È solo un alibi per giustificare il cedimento alle pretese delle grandi imprese che producono armi e le vogliono vendere! Peraltro questi quattro paesi sono profondamente divisi al loro interno, tutti con una evidente mancanza di consenso delle popolazioni verso i singoli esecutivi che le governano, reggendo a fatica solo grazie alla mancanza di alternative possibili. La navigazione a vista consente di sopravvivere, non di pianificare. Il sesto e il settimo pilastro (welfare e salute) indicati dal leader del PD lasciano il lettore sconcertato, per l’ovvietà delle premesse e per la totale carenza di reali prospettive.  Si afferma: una democrazia che funziona ha una forte dimensione sociale: è lo spazio della redistribuzione, della solidarietà e della tutela dei diritti. In astratto la proposizione si presenta sensata. Ma il governo Draghi non pare affatto intenzionato a percorrere questa via; si guarda anzi bene dal contrastare la speculazione in atto, mediante inflazione, o perfino in qualche caso stagflazione, accettando piuttosto l’allargamento costante della forbice fra ricchezza e povertà. L’erosione di salari reali e pensioni prosegue senza sosta, al tempo stesso incrementando la spesa militare, ritenuta inderogabile fino al punto di rischiare la caduta del governo. Con un ribaltamento dei ruoli che lascia esterrefatti, sia sul fronte del valore catastale revisionato (dire che non comporta aggravi fiscali è una presa in giro), sia sul fronte delle bollette, la sinistra sostiene a spada tratta i prelievi in danno delle masse popolari, mentre la destra chiede un incremento della spesa sociale, anche sforando i limiti del pareggio di bilancio; davvero il mondo va alla rovescia, con Ferrara e Sesto San Giovanni capisaldi elettorali di Salvini! Quanto alla sanità, a prescindere da vuote affermazioni di circostanza, il cavaliere dalla nobile coscienza farebbe bene a spiegare la ragione che spinge lui, e il suo amico Mario Draghi, a non mettere in cantiere poche rapide norme che consentano, in questa fase di crisi economica e sociale, un virtuoso prelievo fiscale sulla quota di profitti giganteschi realizzati dalle società farmaceutiche durante la pandemia, consentendo invece loro di costruire, con la connivenza dei vertici europei, percorsi monetari sostanzialmente fraudolenti, che si traducono in benefici fiscali scandalosi. Un muratore subisce il prelievo minimo del 23% sul suo magro salario e Pfizer paga (ma all’estero) il 7% su un profitto già ampiamente tagliato grazie ad astute detrazioni. Lasciando da parte ogni rilievo sull’opportunità o meno di inviare armi dirette (magari per sentieri traversi) verso territori nei quali si spara (Ucraina compresa, senza escludere gli altri luoghi), chi ci guadagna e quanto? I prodotti bellici esportati dall’Italia, spesso per dubbi motivi di sicurezza occultati nelle spedizioni, sono fiscalmente tracciati? Contanti o bonifici?
Di questo si dovrebbe discutere in un Parlamento che non sia l’anonima nullità cara a Lord Palmerston o il pilota automatico elaborato dal primo ministro Draghi, questa sarebbe democrazia trasparente. Invece va di moda l’aria fritta di cui scriveva, inascoltato, Ernesto Rossi, un galantuomo che si starà rivoltando nella tomba di fronte a quel che oggi sono diventati i radicali italiani. Come notava nel XVII secolo il nostro maggior scrittore di cose militari, Raimondo Montecuccoli: E’ il danaro quello spirito universale che per tutto infondendosi l’anima e  ‘l move; è virtualmente ogni cosa, lo stromento degli stromenti, che ha la forza d’incantar lo spirito de’ più savi e l’impeto de’ più feroci. Qual meraviglia dunque se producendo gli effetti mirabili di cui son piene le storie, richiesto tal’uno (n.d.r.: si trattava di Gian Giacomo Trivulzio) delle cose necessarie alla guerra egli rispondesse tre esser quelle: danaro, danaro, danaro.

Quale Europa?

Dopo aver indicato i sette punti programmatici Enrico Letta chiude il suo saggio politico-economico con inquietanti proposte di riforma della struttura comunitaria. Nel 2020 le sanzioni europee alla Bielorussia, dopo le contestate elezioni presidenziali, furono bloccate dal veto di Cipro, unico dei 27 paesi ad opporsi; il leader del PD si dichiara indignato per questo imprevisto incidente di percorso e coglie la palla al balzo chiedendo la rimozione del diritto di veto in capo ad ogni singolo stato, ravvisando in tale istituto l’elemento principe della debolezza europea.
Le cose naturalmente non stanno proprio così. La Turchia, come noto, occupa da anni una parte dell’isola, dopo averla invasa con le armi, senza provocare l’indignazione dell’occidente democratico. Ora intende mettere le mani sul petrolio dei giacimenti ciprioti, e ha più volte dato corso a veri e propri colpi di mano, a cannoni spianati per avvertimento. Cipro, paese piccolo e poco armato, chiese ripetutamente, ma invano, sanzioni economiche dissuasive nei confronti di Erdogan; l’Unione Europea ha sempre fatto (è il caso di dirlo) orecchie da mercante. Evidentemente non c’erano ragioni di irritare il governo turco, considerando l’adesione alla Nato e una certa cointeressenza occidentale negli affari petroliferi.
Cipro allora pose un’alternativa: non si opponeva alle sanzioni contro la Bielorussia a patto che l’Unione Europea sanzionasse pure la Turchia, sperando così di essere lasciati in pace (da Erdogan, non da Lukaschenko). Ma il cavaliere dalla nobile coscienza è disponibile a prendere provvedimenti contro russi e alleati dei russi, non certo nei confronti di un paese amico (dell’America) quale è la Turchia. Chi aderisce alla Nato ha diritto di invadere e bombardare (come fece D’Alema devastando Belgrado); anzi quello non fu neppure un bombardamento, forse al più una operazione di polizia internazionale (tra ex compagni si tende ad usare il medesimo vocabolario).
Per ironia del destino la Conferenza sul futuro dell’Europa si chiude il 9 maggio, la stessa data scelta da Putin per dichiarare liberato il Donbass; probabilmente sono tutti un po’ troppo ottimisti. Certamente la strada indicata da Enrico Letta, ovvero di procedere ad una revisione dell’assetto istituzionale europeo, favorendo l’alleanza dei più forti e cancellando l’autonomia dei più deboli, si presenta assai pericolosa per la pace futura. Il leader del PD vorrebbe in questo modo rafforzare l’Unione, ma non comprende che, ove mai fosse ascoltato, in questo modo la distruggerà. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra sentono che il loro dominio vacilla; per mantenerlo debbono modificare l’equilibrio del vecchio continente, completare il tragitto iniziato con la Brexit. L’Unione indebolita e divisa può diventare un alleato fedele; l’Europa rafforzata e capace di agire in modo autonomo può diventare invece un concorrente.
Enrico Letta riconosce che un mutamento è in atto, che secondo previsioni entro il 2050 la quota occidentale del PIL globale scenderà dal 60% al 26%; ma pretende di fermare il corso della storia, ripristinando l’egemonia bianca occidentale con uno scontro generale diretto ad impedire l’arrivo dei barbari. Si tratta di una strategia che non ha mai avuto molta fortuna nel corso dei secoli; soprattutto quando a condurre le operazioni sono governi che non possono contare sul consenso sociale dei loro governati, ma rimangono faticosamente in sella solo inventando continui artifizi e raggiri.

Meglio uscire dalla Nato.

Proporre oggi di uscire dalla Nato è certamente più una petizione di principio, che una strada rivendicativa realmente percorribile. Non c’è dubbio che i rapporti di forza attuali non consentono di raggiungere davvero questo obiettivo. Ma è anche vero che non ci sono serie alternative a questa doverosa affermazione costituente, se non quella di una malinconica resa, accettando tutto quanto le circostanze ci vanno imponendo. E una testimonianza programmatica ribelle tutto è fuor che una resa. E’ invece la base su cui costruire nuove coalizioni.
Guardiamo le figure che oggi rappresentano il potere. Il democratico Joe Robinette Biden fu nominato senatore del Delaware nel 1972, a soli 29 anni; ha mantenuto il seggio fino al 2008, costruendo un potere dinastico proprio nello Stato che è il notorio paradiso fiscale degli USA. Suo figlio Beau (morto prematuramente per un tumore) di quello Stato fu il procuratore distrettuale, ovvero colui che dirigeva l’azione penale; l’altro figlio, Hunter, dal 2014 al 2019, rimase continuativamente membro della struttura direttiva di Burisma, compagnia importante nel settore del gas. Biden senior divenne vicepresidente con Obama, per essere poi eletto presidente dopo la parentesi Trump.
Burisma nacque nel 2002, per iniziativa di due imprenditori ucraini; uno morì in un incidente d’auto, l’altro, Mikola Lisin, fu l’artefice del successo di questa struttura imprenditoriale. Spostata già nel 2006 la sede legale originaria a Cipro, per ovvie ragioni fiscali, Burisma acquisì il controllo (69,47%) di Sunrise Energy Resources, impresa americana del settore energetico con sede (naturalmente!) in Delaware; e Sunrise, a sua volta, acquistò nel 2008 due società ucraine del gas, Esko Pivnic e Pari. L’operazione continuò con la cessione quasi contestuale dell’affare a un cartello composto da quattro società panamensi ed una americana, poi con il controllo di tre importanti imprese energetiche ucraine. Nell’apparato dirigente di Burisma ritroviamo pure Alexander Kwasniewski, per 10 anni presidente socialdemocratico della Polonia (ex POUP prima della caduta del muro), ora uomo d’affari buon amico degli americani. Burisma ha infine ottenuto ben 20 licenze per idrocarburi proprio nelle terre contese del Donbass; sono giacimenti in buona parte inesplorati ma ricchissimi, rappresentano secondo le stime oltre l’80% del potenziale gas/petrolio ucraino, nel centro del conflitto attualmente in corso. Dopo l’elezione (per nulla scontata) alla presidenza, Zelenskij ricevette le pressioni di Trump per colpire Biden e di Biden per colpire Trump; è un riflesso condizionato, gli USA non riescono mai ad evitare di intromettersi negli affari interni di altri paesi, quando intravedono potenza e denaro. Questa è una guerra per conquistare il controllo dei giacimenti, dunque il compromesso è possibile, trattandosi di soldi.
A questa guerra partecipa, interessato, il cavaliere dalla nobile coscienza, Enrico Letta, e con lui sta Mario Draghi. Se preferite è Enrico Letta a stare con Mario Draghi, poco cambia, questione di gerarchie fra sottufficiali. Il loro legame con gli americani è assai più solido di quello che hanno con l’Europa; più esattamente lavorano per costruire l’alleanza di un’America forte con un’Europa indebolita. Mario Draghi è un esponente di spicco del Gruppo dei Trenta, viene dalla finanza, agisce sul prelievo e sulla distribuzione; Enrico Letta è fin dal 2015 un membro della celebre Trilateral, viene dalla politica. Nel 1991, venticinquenne, fu eletto capo dei Giovani Democristiani Europei, poi divenne deputato europeo nel gruppo liberale di ALDE (con gli spagnoli di Ciudadanos, per capirci), a seguire fu nominato ministro in più governi, e ora è il leader del PD. La sua Trilateral, creatura di Rockfeller e di Chase Manhattan Bank, è un pensatoio operativo globale; al vertice europeo vi è l’inossidabile Trichet, scelto dopo i risultati ottenuti guidando la BCE nella stagione del contenimento della spesa pubblica. In Italia Trilateral può contare fra gli altri su Giampiero Massolo (prima ai servizi segreti ora in Fincantieri), su Tronchetti Provera, su Carlo Messina (Banca Intesa), su Monica Maggioni (RAI).  Trilateral condiziona, in quota americana, l’informazione, la comunicazione, la finanza, l’industria (civile e militare) di tutta Italia.
Quest’uomo si presenta sempre come una novità, lascia intendere che abbia appena iniziato la sua vera carriera; rappresenta invece il tramonto, vuole solo prolungare per un tempo indefinito il mondo in cui è nato e in cui si è formato. Vuole la Nato e vuole la supremazia americana; questo è il suo vero programma, ed è il programma di Draghi.
La Nato è il principale strumento di questa imposizione violenta, militare, e al tempo stesso insensata. Nacque nel 1949, fra i fondatori compare il colonialista fascista Antonio de Oliveira Salazar, dittatore del Portogallo; evidentemente la democrazia non costituiva requisito indispensabile per l’adesione all’apparato militare. È dunque un falso storico affermare che la caratteristica originaria e originale della Nato sia la difesa della libertà, dell’autonomia dei popoli, della democrazia. La Nato difendeva i territori delle colonie francesi, portoghesi, inglesi, belghe, olandesi e non certo i movimenti di liberazione nazionale nei territori occupati. La Nato stringeva alleanza con il fascismo di Salazar contro il blocco sovietico, nel tempo della guerra fredda. Ora è un patto militare che piega l’Unione Europea alle esigenze americane. Ma i popoli europei non hanno niente da guadagnare e molto da perdere in questa prospettiva. Meglio sarebbe starne fuori.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 2 maggio 2022

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