Cultura

Percorsi Interculturali

Tracce di riflessione tra teologia, filosofia, letteratura, arte, scienze

Il corpo sottratto. Le istanze del Sabato

dal 23 al 25 maggio 2008
Foresteria del Monastero di Camaldoli.

Essenza del percorso nel deserto. Un uomo che, condottiero del suo organismo, percorre questa vita con un resto (di più non è pensabile) della coscienza di ciò che accade, conserva per tutta la vita il fiuto di Canaan; e che debba vedere il pa-ese soltanto prima della morte, è inverosimile. Quest’ultima previsione può avere soltanto il significato di far capire qual momento imperfetto sia la vita umana, imperfetto perché questa specie di vita potrebbe durare all’infinito e tuttavia non sarebbe altro che un istante. Mosè non arrivò a Canaan, non perché la sua vita fosse troppo breve, ma perché era una vita umana.

F. Kafka, Confessioni e diari, Mondadori 1998; 598-599

Vivere dalla prospettiva dell’apostolo il tempo che intercorre tra la sepoltura del corpo di Cristo e la sua sottrazione dal sepolcro, equivale a calarsi in quel vuoto che, nell’assenza di liturgia del giorno di sabato, trova il suo correlativo. Per chi si disponga ad attraversare il sabato, aprirsi un sentiero nel deserto e trovare l’azione capace di colmare il vuoto, smettono di essere similitudini.
Ma se è vero quanto scrive Simon Weil, che tutti i peccati sono tentativi di colmare dei vuoti, il primo dubbio che impone il sabato non è in che modo agire, ma se sia opportuno farlo: in un tempo in cui niente più aderisce alla vita, il ri-schio infatti è che ogni nostra singola azione, an-ziché ridurre, aumenti lo scollamento.
Chi varca la porta del sabato può verdersi inibita l’azione per la paura del precipizio; oppure per vivere nella sua interezza, nelle potenzialità di progresso e di errore. Dove manca la certezza del dopo, sono le cicatrici, finché il sabato non le cancelli, a dirci da dove veniamo, dove sia la so-glia del dolore e quanto sia instabile. Quando ini-ziamo a perdere memoria di noi, è il corpo di Cri-sto, lacerato, deposto e sottratto che subentra a lo-ro nel marcare i confini tra tangibilità e assenza, tra passato prossimo e presente remoto, ponendo-si a sua volta, di volta in volta, quale limite.
Se il dolore disumanizza e attenta alla dignità della persona, la conoscenza del dolore attraversa l’esperienza, attraverso quindi il riconoscimento e la conoscenza dei nostri limiti, fornisce, se non un rimedio, almeno lo strumento per meglio governarsi nel confronto col dolore a venire. Il dubbio del sabato diviene così disponibilità a ripensarsi e a riposizionarsi ogniqualvolta mutino le condizioni, a interpretare il tempo presente rimettendosi ostinatamente in discussione, ad accettare che l’azione valida qui e ora, presto non lo sarà più, che la messa in atto del vuoto consuma nel suo farsi e non diventa mai canone.
Il fatto che la domenica (non ancora o forse mai) di resurrezione, cominici con la sot-trazione del corpo, ossia sotto il segno dell’assenza, indica che il tempo del sabato non finisce. In questa ottica, quella di chi è in un tunnel e non vede la luce, attraversare il sabato prende il significato di appropriarsi della ver-gogna, della sconfitta e dello smarrimento per dimenticarsene come fa l’attore col testo; col-marlo quello di ritualizzare il vuoto e il silenzio.  E’ Edond Jabès, attraverso la voce di una delle sue creature, a raccogliere in un verso il dubbio del sabato. Ti cerco dove non ti trovo dice Yukel a Sarah, ma mentre le confida queste parole, Sarah è prossima, ma non presente, perché Yukel la sta ancora cercando. Sarah si sottrae nello stesso istante in cui si offre, e lo fa perché Yukel la cerca e continui a cercarla. Temono entrambi che, colmata la distanza fra loro, ad attenderli in realtà sia la fine del dialogo.
(Sebastiano Gatto)

I relatori

Antonio Attisani
è critico teatrale, docente e responsabile scientifico del master interdipar-timentale in “Linguaggi non verbali e della performance” presso il Dipar-timento di Filosofia di Ca’ Foscari di Venezia
Giorgio Bonaccorso
specializzato in teologia liturgica, si occupa dei riti religiosi e cristiani con particolare attenzione all’aspetto antropologico. Docente dell’Istituto di Liturgia Pastorale di S. Giustina di Padova. Ha pubblicato diversi libri

Edoardo Boncinelli
è un degli scienziati italiani di maggiore importanza. Le sue ricerche in biologia molecolare lo hanno portato a dirigere prestigiosi laboratori. E’ noto al grande pubblico per essere uno dei più importanti divulgatori scientifici del nostro paese

Claudio Cortoni
monaco camaldolese

Milo De Angelis
è tra i più importanti poeti contemporanei italiani. Numerose le sue pub-blicazioni con le maggiori case editrici. Ha tradotto Pindaro, Lucrezio e pubblicato l’opera narrativa “La corsa dei martelli”

Andrea Grillo
insegna Introduzione alla Teologia Litrugica alla Facoltà Teologica S. An-selmo di Roma e all’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova. Tra le varie sue pubblicazioni: “Tempo e Preghiera”

Gian Ruggero Manzoni
è poeta, scrittore, teorico d’arte e pittore. Ha pubblicato numerosi libri con Feltrinelli, Il Saggiatore e Scheiwiller. Insieme a V. Magrelli nel 1984 ha curato la sezione poesia della Biennale di Venezia. Ha fondato diverse riviste di letterature e arti figurative
Alberto Mesirca
chitarrista dal vasto repertorio classico. E’ passato attraverso varie espe-rienze musicali incidendo ed esibendosi in Italia e all’estero

Andrea Ponso
è una delle voci emergenti della nuova generazione di poeti, è anche redat-tore della rivista Trikster del Master di Studi Interculturali dell’Università di Padova. “La Casa”, curato da Maurizio Cucchi, è il suo primo libro di poesie

Salvatore Scafiti
pittore ed incisore, espone dal 1990 in Italia e all’estero. Ha pubblicato diversi scritti e al monastero saranno presenti alcune opere pittoriche

Foresteria Monastero
52010 Camaldoli (AR)
Tel. 0575 556013 – Fax 0575 556001

e-mail: foresteria@camaldoli.it
sito web: www.camaldoli.it
Sito web del corso

Percorsi Interculturali Leggi tutto »

All’aperto e al chiuso

Redazione del paese delle donne

La prostituzione si è spostata dalla strada alle “case al chiuso”

Sarà in libreria il prossimo 14 marzo il volume “All’aperto e al chiuso Prostituzione e tratta. I nuovi dati del fenomeno, i servizi sociali, le normative di riferimento”. Il libro raccoglie i risultati di una ricerca condotta da Parsec Consortium nel biennio 2005-2006 che ha studiato le trasformazioni del fenomeno prostituzione a livello nazionale.

Il traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, assieme al traffico di armi e di droga, è diventato uno dei principali mercati illegali su scala mondiale.
Il fenomeno ha subito in questi ultimi anni una trasformazione strutturale che ha prodotto un cambiamento radicale del rapporto tra i diversi attori sociali coinvolti e ha determinato una maggiore segmentazione interna al fenomeno.
Le modalità di esercizio della prostituzione si sono estese determinando cambiamenti dei luoghi dove viene praticata, dei rapporti sociali e delle forme di contrattualizzazione tra le vittime e gli sfruttatori.

Le organizzazioni criminali hanno sviluppato un modus vivendi accettabile per le donne coinvolte nei meccanismi di sfruttamento con l’obiettivo di “umanizzare” lo sfruttamento sessuale ed evitare conflitti incontrollabili che possono mettere in crisi la stabilità delle stesse organizzazioni. Una vera e propria “ricerca del consenso” che è diventata fattore costitutivo del rapporto di prostituzione.

Nel frattempo la prostituzione si è spostata dalla strada alle “case al chiuso”, in risposta alla repressione giudiziaria innescata dalla legge Bossi-Fini mirata contro le donne straniere che esercitano la prostituzione in strada, perché più visibili.
La prostituzione allora si mimetizza ma estende il proprio raggio di influenza su nuovi gruppi nazionali, primi tra tutti quello delle donne maghrebine e quello delle donne cinesi.

Il libro raccoglie i risultati di una ricerca condotta da Parsec Consortium nel biennio 2005-2006 che ha studiato le trasformazioni del fenomeno a livello nazionale, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e ha costruito una vera e propria “mappa sociale” del mercato romano della prostituzione che rappresenta, da solo, quasi un quinto dell’intero fenomeno nazionale.
La ricerca presenta anche le esperienze realizzate a sostegno delle vittime della tratta sessuale e le metodologie di lavoro sperimentate proprio al fine di attivare percorsi per la loro fuoriuscita dai circuiti della prostituzione.
In particolare, il Progetto Roxanne del Comune di Roma, programma di intervento che ha coinvolto le istituzioni locali, le forze dell’ordine, gli operatori della sanità, gli operatori sociali e i mediatori culturali, finalizzato al reinserimento sociale e lavorativo delle vittime della prostituzione.

Francesco Carchedi, Vittoria Tola (a cura di)

All’aperto e al chiuso
Prostituzione e tratta
I nuovi dati del fenomeno, i servizi sociali, le normative di riferimento
Ediesse, 2008

il pese delle donne, 11 marzo 2008

All’aperto e al chiuso Leggi tutto »

Vogliamo anche le rose

di Ines Valanzuolo

I diari di tre donne vissute tra gli anni sessanta/settanta nell’ultimo film di Alina Marazzi

L’anteprima dell’ ultimo film di Alina Marazzi, presentato a Roma il tre marzo, è stata accolta come un evento da ricordare e valutare in rapporto alla “miseria”del presente ma aggiungerei, soprattutto, da godere.

Sono infatti “rose” quelle che ci offre la produzione filmica sapiente ed ironica di Alina Marazzi, proprio quelle “rose” che l’abitudine alla rinuncia spesso oggi ci impedisce di chiedere.

Ci consente di ripercorrere anni di ricerca faticosa e felice, di emozioni e cambiamenti, finalmente liberati dalla retorica didattica, ideologica, religiosa, partitica, patriarcale, matriarcale, fraterna e sororale. Ci rassicura dell’esistenza di donne che si sono informate e formate, e informano e formano, su una produzione culturale di donne o su donne, considerate per il loro esistere e significare.

Con leggerezza. Italo Calvino in “Lezioni americane” a proposito della leggerezza nel linguaggio letterario dice “…nel momento in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio , devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”.

Questo ha fatto Alina col linguaggio filmico. E’ difficile parlare di quanto è accaduto tra gli anni sessanta/settanta nella vita delle donne senza rischiare di deformarlo sotto il peso dell’attualità di volta in volta osannante, revisionista, negazionista.
Servono altri metodi di conoscenza e di verifica. I diari di tre donne vissute tra gli anni sessanta /settanta, Anita, Teresa Valentina, presi dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, vengono letti con l’ausilio di materiali di repertorio dell’epoca: inchieste e dibattiti televisivi, spezzoni di film, di filmini familiari, riprese di manifestazioni, fotografie, fotoromanzi, pubblicità, musiche.

Si riesce a sorridere quando la deliziosa ragazza con sottogonne inamidate e vitino di vespa si chiede fiduciosa e trepidante quale sarà il suo futuro di sposa, amata e amante e nella magica sfera di cristallo compare il corpo nudo di una ragazza che balla su un prato circondata da ragazzi; si ride delle presuntuose e disarmanti risposte, durante inchieste e dibattiti, di uomini/patriarchi ma quando l’indicibile, l’irrapresentabile si impongono, il colore, le linee, le immagini, la musica sostituiscono efficacemente le parole ed ecco ancora la leggerezza, originale e graffiante: la sofferenza fisica, la paura, di Teresa, ragazza del sud costretta ad abortire, si racconta con piedi nudi femminili che camminano su lastre di ghiaccio.

Il Paese delle donne, 5 marzo 2008

Vogliamo anche le rose Leggi tutto »

”Alla fin fine, ammazzare mia madre mi è venuto facile”

di Ghismunda

Di parricidi, reali o metaforici, è piena la letteratura del Novecento. Di matricidi, invece, niente o quasi. Gli Edipi abbondano, le Elettre scarseggiano. Troppo sgradevole, forse, l’argomento, percepito quasi come sacrilego, indegno del rapporto più intimo, dolce e consolatorio che ci sia; e troppo irriverente verso una figura, la Madre, i cui significati affondano nel mito e assumono, nel tempo, connotazioni simbolico-religiose sempre più profonde, fino a farne oggetto di venerazione e indiscutibile amore. Ma la realtà profana, quella che si consuma tra le quattro pareti domestiche giorno dopo giorno, anno dopo anno, è spesso diversa. In particolare, la relazione tra madre e figlia è una delle più complesse e ambivalenti che esistano e l’amore, se c’è, quando c’è, può arrivare ad assumere le forme più diverse e contraddittorie, spesso compresenti: attaccamento morboso, dipendenza, oppressione, invidia, rivalità, gelosia, emulazione, ma anche tanta cura, attenzione, premure, pietà. Fino a non farcela più. Fino all’odio. E a pulsioni liberatrici inconfessabili. Raccontare tutto ciò, districare tali grumi emotivi ed esistenziali, è difficile. Ma Alice Sebold c’è riuscita. Ne “La quasi luna” eguaglia, e forse supera, il precedente successo di “Amabili resti” e scrive un romanzo impegnativo, sgradevole a tratti, sconvolgente, eppure ironico, delicato, struggente; sempre, comunque, lucidissimo, asciutto, teso. Fino all’ultima pagina.Non voglio qui raccontare come Helen, che ha 49 anni ed è l’io narrante, uccide sua madre, che ne ha 88 e che è ormai arrivata al capolinea. In fondo, come dice nell’incipit, ammazzarla le è venuto più facile di quanto avrebbe pensato (se mai l’avesse consapevolmente pensato). Preferisco parlare della struttura del racconto, che procede per flash-back, intermittenze della memoria, squarci di luce su momenti della vita passata, alternati ai gesti prima della morte inflitta, poi di ciò che ne resta, di un corpo da pulire, accudire ancora (spogliare? vestire? nascondere? recuperarne un pezzetto, per sé?). E il lettore scopre pian piano una figura totemica di madre, “malata di mente”, chiusa in casa per paura del mondo di fuori, una donna un tempo bellissima, una sorta di Garbo, di musa ispiratrice, in gioventù modella di lingerie, fasciata in sottovesti di seta, come dimostrano le foto sparse per tutta la casa, che tanto ammaliavano la sua bambina trascurata, colpevole forse di ricordarle la delusione di una vita spentasi sui binari di un’anonima routine di provincia: “A casa nostra si faceva l’elenco delle delusioni di mia madre e io me le vedevo davanti tutti i giorni come fossero appiccicate sul frigorifero, un elenco statico che la mia presenza non riusciva a mitigare”. Una presenza, quella della madre, divorante, asfissiante, al centro delle attenzioni di un marito buono e vanamente innamorato, solo, sempre più solo, che finirà coll’ “andarsene” e lasciare alla figlia tutta la pesante eredità di cure e protezione che richiedeva la moglie. Per Helen sarà una vita dura, sospesa tra senso del dovere, bisogno d’amore e desiderio spasmodico di libertà, di autonomia (un matrimonio – fallito – dei figli, un lavoro). Ma è questo il punto: riuscirà mai, Helen, a “liberarsi” dalla Madre? E noi, ci riusciamo? Qualcuno potrebbe obiettare: e perché dovremmo? Forse per non riprodurre in noi i modelli genitoriali, per non ripetere di loro quello che più detestiamo, che non accettiamo, in fatto di carattere e di relazioni umane; per non essere (non dover essere) come loro, come lei; per essere, come figlie femmine, noi stesse, uniche e libere. Ma, scrive la Sebold, “quand’è che una persona arriva a capire che nel DNA portiamo intessuti tanto il diabete o la densità ossea dei nostri consanguinei quanto le loro deformità relazionali?”. Checché se ne dica, ancora oggi per una figlia è più difficile avere una vita propria: in genere, quando c’è, è una conquista strappata con i denti e sottoposta a continui “ritorni”; è una parentesi o una fuga. Condivido in pieno queste parole della Sebold: “Oggi, nel XXI secolo, a chi viene ancora attribuito il dovere di sacrificare la propria vita per badare agli altri? Alla figlia femmina. E in questo stesso XXI secolo le conquiste raggiunte in campo medico fanno sì che gli anziani vivano sempre più a lungo, per cui la figlia femmina rischia di arrivare a settant’anni continuando ancora a occuparsi dei genitori. Mi dispiace, ma questa è una specie di prigione per chi non ha un rapporto assolutamente meraviglioso e idilliaco con la madre o il padre (e a quanti capita davvero?). Ho visto centinaia di donne portare il peso di un fardello che con i progressi della medicina e dell’antica convinzione che il ruolo di una donna sia quello della balia e della badante, non ha fatto altro che aumentare”. E quanti sensi di colpa, quanta solitudine, nelle desolate province della nostra opulenta società, accompagnano oggi questo ruolo antico? “nessuno sapeva com’era diventata la mia vita con mia madre”. Una vita destinata a non finire mai, nemmeno “dopo”, anzi, come Helen intuisce, soprattutto “dopo”:

“… non riuscivo a cancellare l’immagine di mia madre che si decomponeva strato per strato, finché anche lei non diventava tutta ossa. In quell’idea, in quella lenta muta verso un ammasso di calcio ingiallito che bisognava tenere unito per evitare il crollo, c’era qualcosa di spaventoso e di consolante a un tempo. L’idea che mia madre fosse eterna come la luna. In quella posa goffa, la realtà ineluttabile mi ha fatto venire voglia di ridere. Viva o morta che fosse, una madre, o la sua assenza, ti plasma la vita. Mi ero illusa che fosse semplice? Che il disfacimento della sua sostanza mi avrebbe restituito una me stessa vendicata? L’avevo fatta ridere facendo il giullare. Le avevo raccontato storie. Avevo sfilato come un buffone alla mercé di altri buffoni e così facendo mi ero sincerata che quella donna non si perdesse nulla, anche se aveva deciso di voltare le spalle al mondo. Sacrificando a lei tutta la mia vita, compravo in cambio dei brevi momenti per me: potevo leggere i libri che mi piacevano; potevo coltivare i fiori che volevo… Solo quando ho creduto di aver raggiunto la libertà sono riuscita a capire fino a che punto fossi imprigionata”.

Alice Sebold
La quasi luna
Edizioni e/o, 2007

La voce di Ghismunda, 27 febbraio 2008

”Alla fin fine, ammazzare mia madre mi è venuto facile” Leggi tutto »

La Voce di Pasquino

coertina del libroDa lettore conosco il patto che mi lega a tutti lettori: non annunciare mai il finale di un libro, tanto più se questo si colora di giallo anche se storico. Però posso sottolineare che gli Autori sono riusciti a trasportare nella trama del romanzo il personaggio di Salvatore Rosa con tutte le sue inquietudini e tutte le sue domande come la “storia” lo ha consegnato a noi posteri. Uno dei personaggi afferma che le domande sono più importanti delle risposte. Questa è la linea di indagine del poeta/pittore Salvatore Rosa; non si accontenta mai delle risposte che nei fatti trova. Sa bene, come nel suo quadro riprodotto in copertina, dove la Fortuna non ha la benda sugli occhi, che gli avvenimenti anche i più violenti non sono mai come appaiono, sono sempre legati da interessi, convenienze e silenzi, ecco perché è necessario riformulare le domande. Storia e romanzo si intrecciano per costruire una trama che non ha tempo. Però noi sappiamo che molti prima di noi hanno cercato nelle domande la vera chiave per capire la società, questa mi sembra una possibile lettura del libro: “La Voce di Pasquino”, l’altra, per svelare il colpevole, dovete leggerla voi.
Benito LA MANTIA – Gabriella CUCCA

La voce di Pasquino. Un’indagine di Salvatore Rosa nella Roma di papa Chigi.
Stampa Alternativa. Viterbo, 2008.

La Voce di Pasquino Leggi tutto »