paesi in guerra

Discorso di Roger Waters al Consiglio di Sicurezza dell’ONU

di  
traduzione di Anna Polo

Roger Waters, cofondatore dei Pink Floyd, è intervenuto alla riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) tenutasi mercoledì 8 febbraio 2023 a New York.

Signora/Signor Presidente, Eccellenze, Signore e Signori.

Mi sento profondamente onorato di avere questa singolare opportunità di rivolgermi oggi alle vostre Eccellenze. Grazie alla vostra pazienza, cercherò di esprimere quelli che ritengo essere i sentimenti di innumerevoli nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo, sia qui a New York che oltreoceano. Li inviterò in queste sale sacre per dire la loro.

Siamo qui per considerare le possibilità di pace nell’Ucraina dilaniata dalla guerra, soprattutto alla luce del crescente volume di armi che arrivano in questo infelice Paese. Ogni mattina, quando mi siedo al mio computer, penso ai nostri fratelli e sorelle, in Ucraina e altrove, che senza alcuna colpa si trovano in circostanze terribili e spesso mortali. Laggiù, in Ucraina, possono essere soldati che affrontano un’altra giornata mortale al fronte, o madri o padri che si pongono l’atroce domanda di come possono sfamare i figli, o civili che sanno che oggi la luce si spegnerà di sicuro, come accade sempre nelle zone di guerra, che non c’è acqua corrente, che non c’è carburante per la stufa, che non ci sono coperte, ma solo filo spinato e torri di guardia e muri e ostilità. Oppure possono trovarsi in gravi difficoltà qui, in una città grande e ricca come New York. Forse, in qualche modo, per quanto abbiano lavorato duramente per tutta la vita, hanno perso l’equilibrio sul ponte scivoloso e inclinato della nave capitalista neoliberista che chiamiamo vita in città e sono caduti in mare, finendo per annegare. Forse si sono ammalati, o forse hanno contratto un prestito studentesco, forse hanno saltato un pagamento, i margini sono sottili, chi lo sa, ma ora vivono per strada sotto un mucchio di cartone, forse anche in vista di questo edificio delle Nazioni Unite. In ogni caso, ovunque si trovino, in tutto il mondo, zone di guerra o meno, insieme costituiscono una maggioranza, una maggioranza senza voce. Oggi cercherò di parlare per loro.

Noi popoli vogliamo vivere. Vogliamo vivere in pace, in condizioni di parità che ci diano la possibilità reale di prenderci cura di noi stessi e dei nostri cari. Siamo grandi lavoratori e siamo pronti a lavorare sodo. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è una giusta opportunità dopo cinquecento anni di imperialismo, colonialismo e schiavitù.

In ogni caso, vi prego di aiutarci.

Per aiutarci dovrete considerare la nostra situazione e per farlo dovrete distogliere per un attimo lo sguardo, mettendo momentaneamente da parte i vostri obiettivi. A proposito, quali sono i vostri obiettivi? E qui forse rivolgo le mie domande più ai cinque membri permanenti di questo Consiglio. Quali sono i vostri obiettivi? Cosa c’è nella pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno? Maggiori profitti per le industrie belliche? Più potere a livello globale? Una fetta più grande della torta globale? La Madre Terra è una torta da divorare? Una fetta più grande della torta non significa forse che ne resterà meno per tutti gli altri? E se oggi, in questo luogo di sicurezza, guardassimo in un’altra direzione, per esempio alla nostra capacità di empatia, di metterci nei panni degli altri, come, per esempio, in questo momento, nei panni di quel ragazzo dall’altra parte di questa stanza, o anche nei panni della maggioranza senza voce, ammesso che abbia dei panni con cui coprirsi?

La maggioranza senza voce è preoccupata che le vostre guerre, sì, le vostre guerre, perché queste guerre perpetue non sono una nostra scelta, che le vostre guerre distruggeranno il pianeta che è la nostra casa, e insieme a ogni altro essere vivente saremo sacrificati sull’altare di due cose, i profitti della guerra per riempire le tasche di pochi, pochissimi, e la marcia egemonica di qualche impero o altro verso il dominio mondiale unipolare. Per favore, rassicurateci che questa non è la vostra visione, perché non c’è alcun risultato positivo su questa strada. Quella strada porta solo al disastro, tutti hanno un pulsante rosso nella loro valigetta e più andiamo avanti, più le dita pruriginose si avvicinano a quel pulsante rosso e più ci avviciniamo tutti all’Armageddon. Guardate dall’altra parte della stanza, a questo livello siamo tutti nella stessa situazione.

Torniamo all’Ucraina. L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa è stata illegale. La condanno nei termini più forti possibili. Non si può dire però che non ci sia stata una provocazione dietro a questa invasione, quindi condanno anche i provocatori nei termini più forti possibili. Ecco, mi sono tolto il pensiero.

Quando ieri ho scritto questo discorso, ho incluso un’osservazione sul fatto che il potere di veto in questo Consiglio si trova solo nelle mani dei suoi membri permanenti. Temevo che ciò fosse antidemocratico e rendesse impotente questo Consiglio, come una bocca senza denti… Stamattina ho avuto una rivelazione… SENZA DENTI! Forse per certi versi è una buona cosa… Forse posso aprire la mia grande bocca a nome di chi non ha voce senza che mi venga staccata la testa a morsi… Che bello! Stamattina ho letto sul giornale che un diplomatico anonimo ha detto: “Roger Waters parla al Consiglio di Sicurezza? E poi chi arriverà? Mr Bean! Ah! Ah! Ah!” Per chi non lo sapesse, Mr Bean è un personaggio inetto di una serie televisiva comica inglese. Quindi il diplomatico anonimo è un inglese! Ah! Ah! Ah! Anche a lei, signore!

Ok, credo sia giunto il momento di presentare mia madre, Mary Duncan Waters, che ha avuto una grande influenza su di me; era una maestra, dico era perché è morta da quindici anni. Anche mio padre, Eric Fletcher Waters, ha avuto una grande influenza su di me; anche lui è morto, è stato ucciso il 18 febbraio 1944 ad Aprilia, vicino alla testa di ponte di Anzio, in Italia, quando avevo solo cinque mesi, quindi ne so qualcosa di guerra e di perdite. Comunque, torniamo a mia madre. Quando avevo circa tredici anni stavo lottando con qualche problema adolescenziale o altro cercando di decidere cosa fare, non importa cosa fosse, non riesco comunque a ricordarlo, ma mia madre mi fece sedere e mi disse: “Ascolta, ti troverai di fronte a molti problemi difficili nel corso della tua vita e quando lo farai ecco il mio consiglio: Leggi, leggi, leggi, scopri tutto quello che puoi su qualunque cosa, guardala da tutti i lati, da tutte le angolazioni, ascolta tutte le opinioni, specialmente quelle con cui non sei d’accordo, fai una ricerca approfondita, quando l’avrai fatto avrai concluso tutto il lavoro pesante e la parte successiva sarà facile. Ok mamma, qual è la parte più facile? Oh, la parte più facile è che devi solo fare la cosa giusta”. Hmm!

Parlare di fare la cosa giusta mi porta ai diritti umani.

Noi, il popolo, vogliamo diritti umani universali per tutti i nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo, indipendentemente dalla loro etnia, religione o nazionalità. Per essere chiari, ciò include, ma non si limita, al diritto alla vita e alla proprietà secondo la legge, per esempio per gli ucraini e per i palestinesi. Sì, lasciatevelo dire. E ovviamente per tutti gli altri. Uno dei problemi delle guerre è che in una zona di guerra o in qualsiasi altro luogo in cui la popolazione vive sotto occupazione militare, non c’è ricorso alla legge, non ci sono diritti umani.

Oggi ci occupiamo della possibilità di pace in Ucraina, con particolare riferimento all’invio di armi al regime di Kiev da parte di terzi.

Non ho più molto tempo, quindi,

Cos’hanno da dire i milioni di persone senza voce?

Dicono:

Grazie per averci ascoltato oggi

Siamo i molti che non partecipano ai profitti dell’industria bellica.

Non alleviamo volontariamente i nostri figli e le nostre figlie

per fornire carne da macello ai vostri cannoni.

Secondo noi

L’unica linea d’azione sensata oggi

è chiedere un immediato cessate il fuoco in Ucraina.

Senza se, senza ma e senza e.

Non una sola altra vita ucraina o russa deve essere sacrificata.

Non una.

Sono tutte preziose ai nostri occhi.

È quindi giunto il momento di dire la verità al potere. Vi ricordate tutti la storia del re nudo? Certo che sì. Ebbene, i leader dei vostri rispettivi imperi sono, in un modo o nell’altro, nudi davanti a noi. Abbiamo un messaggio per loro. È un messaggio da parte di tutti i rifugiati in tutti i campi, un messaggio da tutte le baraccopoli e le favelas, un messaggio da parte di tutti i senzatetto, in tutte le strade fredde, da tutti i terremoti e le alluvioni sulla terra. È anche un messaggio da parte di tutte le persone che non muoiono di fame, ma che si chiedono come fare perché la miseria che guadagnano possa coprire il costo di un tetto sopra la testa e del cibo per le loro famiglie. La mia madrepatria, l’Inghilterra, grazie a Dio, non è più un Impero, ma in quel Paese ora c’è un nuovo tormentone: “Mangiare o riscaldarsi?” Non si possono fare entrambe le cose. È un grido che riecheggia in tutta Europa.

A quanto pare, l’unica cosa che le potenze pensano che possiamo permetterci è la guerra perpetua. Una follia…

Quindi, da parte dei circa quattro miliardi di fratelli e sorelle di questa maggioranza senza voce che, insieme ai milioni del movimento internazionale contro la guerra, rappresentano un enorme collegio elettorale, diciamo basta! Chiediamo un cambiamento.

Presidente Biden, Presidente Putin, Presidente Zelensky,

USA, NATO, RUSSIA, L’UE, TUTTI VOI.

PER FAVORE, CAMBIATE ROTTA ORA,

ACCETTATE UN CESSATE IL FUOCO IN UCRAINA OGGI STESSO.

Questo, ovviamente, sarà solo il punto di partenza, ma tutto si estrapola da quel punto di partenza. Immaginate il sospiro di sollievo collettivo a livello mondiale. L’esplosione di gioia. L’unione internazionale delle voci che cantano in armonia un inno alla pace! John Lennon che agita il pugno dalla tomba. Finalmente siamo stati ascoltati nei corridoi del potere. I bulli nel cortile della scuola hanno accettato di smettere di giocare con il pericolo atomico. Alla fine non moriremo tutti in un olocausto, o almeno non oggi. Le potenze sono state convinte ad abbandonare la corsa agli armamenti e la guerra perpetua come loro modus operandi. Possiamo smettere di sperperare tutte le nostre preziose risorse nella guerra. Possiamo nutrire i nostri figli, possiamo tenerli al caldo. Potremmo persino imparare a cooperare con tutti i nostri fratelli e sorelle e persino salvare il nostro bellissimo pianeta dalla distruzione. Non sarebbe bello?

Eccellenze,

vi ringrazio per la vostra pazienza.

Roger Waters

Foto di Jethro da Wikipedia

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 9 febbraio 2023

L’articolo originale in lingua inglese lo trovate qui

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Zelensky al festival di Sanremo: spegniamo la TV, spegniamo la propaganda di guerra!

Jose Antonio – Opera propria

di Europe for Peace

L’invito a Sanremo di Volodymyr Zelensky indigna la maggioranza degli italiani. Portare la guerra in una manifestazione artistica cosi importante è solo propaganda. Il presidente ucraino sembra diventato il testimonial di una continua raccolta fondi per gli armamenti. Al contrario la musica, l’arte e la cultura dovrebbero essere veicolo di pace e non di guerra!

Al di la dell’opinione che ognuno ha sulla guerra in Ucraina, questo invito al festival di Sanremo assomiglia a un’operazione di marketing, a una pubblicità alle industrie delle armi.

I soldi che siamo obbligati a pagare per il canone RAI non devono essere usati a favore degli interessi di una minoranza o per imporre un’idea, ma per creare un’informazione che rispetti la diversità delle opinioni e dei punti di vista. Sappiamo dai numerosi sondaggi fatti negli ultimi mesi che la maggioranza degli italiani vuole una risoluzione diplomatica e immediata del conflitto e non buttare benzina sul fuoco inviando armi.

Liberiamo Sanremo dalla guerra! Invitiamo cantanti e partecipanti a dare un chiaro segno di dissenso e invitiamo tutto il pubblico da casa a spegnere la TV la sera in cui Zelensky parlerà dal palco dell’Ariston.

La nonviolenza si esprime con il vuoto, con la non partecipazione e la non collaborazione con la violenza e l’arroganza.

Spegniamo la TV, spegniamo la propaganda di guerra!

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 22 gennaio 2023

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Il futuro della guerra

di Guido Viale

Le guerre non bisognerebbe mai iniziarle. Una volta “scoppiate”, bisognerebbe adoperarsi per farle cessare il più presto possibile. Ma soprattutto bisognerebbe evitare tutte le iniziative che possono portare al loro “scoppio”. Non per una astratta pretesa di armonia tra i popoli, ma per evitare il costo che le guerre comportano sia per chi le “vince” che per chi le “perde” – se parliamo di popoli e non di governi – sia in termini di distruzione degli habitat che di danni agli uomini e alle donne che ci vivono.

Questo non vuol dire rinunciare a difendersi, anche con le armi, ma convenire sul fatto che tra le opzioni possibili non c’è solo la guerra e nient’altro che la guerra. Prima, durante e oltre la guerra ci sono tregua, diplomazia, mediazione, costruzione di alternative politiche e sociali, difesa delle vite e delle condizioni di esistenza delle popolazioni, convivenza tra etnie, lingue e “culture” diverse. L’autodifesa armata del Rojava ha il suo presupposto nel confederalismo democratico promosso da Ocalan. Nessuna di quelle esigenze è stata invece rispettata dalle parti coinvolte nella guerra in Ucraina.

Putin non pensava a una guerra quando ha invaso l’Ucraina. Pensava a una soluzione come quella che oltre cinquant’anni prima era riuscita a Breznev in Cecoslovacchia: molti carri armati, poco sangue e un cambio di regime imposto con la forza per arrestare e riequilibrare la marcia verso est della Nato. La resistenza dell’Ucraina, del suo esercito e delle sue milizie lo ha costretto a cambiare i piani: non a ritirarsi e chiedere scusa, ma a ripiegare su una vera guerra, a cui con tutta evidenza non era preparato. La sua devastante vittoria in Cecenia gli aveva fatto credere di poter risolvere la questione con un altro massacro.

Dall’altro lato del fronte si è puntato fin dall’inizio sulla temporanea superiorità ucraina, supportata dal sostegno politico, ma soprattutto militare, della Nato, degli Usa e dell’Unione Europea, per sferrare un colpo decisivo. Ben sapendo che questo avrebbe innescato un confitto molto lungo, che nelle dichiarazioni iniziali di Biden (poi corrette) avrebbe dovuto portare alla destituzione di Putin o addirittura alla dissoluzione della Federazione Russa.

Non si è messo in conto quanto una guerra prolungata e combattuta con sempre più uomini e armi (fino al limite della minaccia e del sempre possibile ricorso a quelle nucleari) sarebbe costata alle popolazioni dell’Ucraina e alla gioventù della Federazione Russa mobilitata a partire dalle sue periferie. La mobilitazione di entrambe le parti (e dei loro fan, soprattutto in Occidente) ha offuscato finora lo sguardo sulla devastazione del territorio, a est e a ovest del fronte e sul futuro di quel Paese. Ancora oggi si pensa – qualcuno pensa, e si mette in viaggio per prenotarne una quota – al business della ricostruzione, mentre la distruzione dell’Ucraina è ancora in pieno corso. E questo senza mettere in conto il suo indebitamento presente e futuro, pagabile solo in parte con la svendita delle sue risorse. E immemori del passato, si progetta di farne pagare i danni alla Russia, come a Versailles, dopo la Prima Guerra Mondiale, si era pensato di farli pagare alla Germania…

L’ostinazione della Russia non ha provocato, come forse sperava Putin, una crisi dell’Unione Europea e meno che mai la sua “nazificazione”, come ritiene il generale Mini, ma i regimi dispotici di molti suoi membri ne sono stati rafforzati, grazie soprattutto alla militarizzazione imposta dalla Nato. Un dominio in cui è facile entrare, ma da cui molto difficile uscire, o anche solo disobbedirgli, come insegna la sorte toccata ad Aldo Moro. Ma che il più democratico regime europeo abbia scambiato la sua adesione alla Nato con la consegna dei dissidenti curdi al tiranno Erdogan è cosa da non sottovalutare.

La guerra in Ucraina è un esito scontato dell’allargamento passato, in corso e futuro della Nato, un processo di cui l’Ucraina è una componente essenziale: il come e il quando erano (in parte) ignoti. Ma l’Ucraina era già membro di fatto della Nato, con le esercitazioni congiunte (“L’abbaiare ai confini della Russia”), il suo potenziamento bellico e il ruolo affidato, dopo Maidan, alle sue milizie (naziste? Sì) nel fare una vera e propria guerra alle aspirazioni autonomistiche delle sue province orientali.

È vero che nel confronto tra Ucraina e Federazione Russa non contano solo le armi, la loro potenza, la loro precisione, la loro quantità. Conta anche il “fattore umano”: il fatto che molti dei combattenti ucraini considerino ora una questione vitale la riconquista dei territori sottratti – anche se avevano fatto ben poco per fermare il bombardamento di otto anni del Donbass e la discriminazione dei loro concittadini russofoni – mentre uno spirito analogo non anima certo i coscritti a forza delle forze armate russe. Ma fino a che punto si potrà evitare di mettere in conto anche il “fattore disumano”: le centinaia di migliaia (ormai) di morti da entrambe le parti, la distruzione, in gran parte irreversibile, dei territori contesi, a qualsiasi delle due parti rimangano poi in mano. E un futuro non di prosperità (che l’Unione Europea non fornisce più nemmeno ai suoi membri), ma di miseria, di debiti, di rancore e di soggezione.

L’Ucraina non uscirà da questa guerra, se mai ne uscirà, più democratica e “denazificata”, ma più autoritaria e militarizzata, come già è ora e con partiti di opposizione e sindacati fuorilegge, scioperi proibiti, informazione controllata, giornalisti indipendenti perseguitati, servizi segreti e ambasciate straniere onnipotenti.

Quanto alla Russia, l’esito perseguito, se è la caduta di Putin, non consegnerà il potere a un’élite più conciliante e aperta, bensì a figure ancora più feroci e guerrafondaie. Se è la dissoluzione della Federazione, essa lascerà il campo a una “grande Libia”, con le nazioni del dissolto impero contese tra le potenze vicine e lontane, e anche ubique, come il mai dissolto Isis. Qualcuno ha forse pensato di poter parare il colpo senza adoperarsi da subito per la pace? E non sarebbe forse l’Unione Europea l’attore più adatto a proporre una mediazione, se non fosse anch’essa parte del conflitto? Ma non si può mediare partecipando alla guerra: questo, almeno, bisognerebbe saperlo.

L’articolo è stato pubblicato su COMUNEinfo l’8 gennaio 2023

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L’economia della guerra permanente 

di Andrea Fumagalli

Nel messaggio che Mario Draghi ha rilasciato il giorno prima del summit europeo di Versailles, l’11 marzo scorso, si affermava: “L’Europa e l’Italia non sono in una fase di “economia di guerra”, ma il “futuro preoccupa” e “bisogna prepararsi”.
In realtà siamo già in un’economia di guerra. Tale termine implica l’adozione di “misure di politiche economiche al fine di adeguare il sistema economico nazionale alle esigenze che derivano dalla partecipazione dello Stato ad un evento bellico”.
La definizione citata fa ovviamente riferimento ad un reale stato di guerra militare, con morti, bombardamenti, profughi, ecc. – come sta avvenendo in questi giorni in molte città dell’Ucraina.
Ma negli ultimi decenni la metafora della guerra si è estesa e la logica economica sottostante è diventata parte della nostra vita, sino al punto di poter affermare che viviamo in un’economia di guerra: un’economia di guerra, che, senza andare troppo indietro nella storia, ha cominciato a diffondersi quando è entrato in crisi il paradigma fordista e il dualismo tra i blocchi Usa-Urss. La guerra economica, come la guerra sanitaria, è oramai una costante, mentre il ricorso alla guerra militare, pur cresciuto all’indomani del crollo dell’URSS e dello scioglimento del patto di Varsavia, è un’ultima ratio.
La logica tuttavia è più o meno la stessa. Guerra è sinonimo di distruzione e a ogni distruzione segue una ricostruzione, cioè si devono creare le condizioni per una nuova accumulazione capitalistica. Se la guerra può prescindere dal capitalismo, il capitalismo non può fare a meno dalla guerra. La guerra, la moneta e lo Stato sono forze ontologiche, cioè costitutive e costituenti, del capitalismo e le guerre (e non La guerra) sono da intendersi come il principio di organizzazione della società (Eric Alliez, M. Lazzarato,  Guerres et capital, Ed. Amsterdam, Paris, 2016).
Le sanzioni dei paesi Nato (Turchia esclusa), e non solo, sono la risposta di guerra economica all’invasione dell’esercito russo ai danni dell’Ucraina. Oltre a colpire il settore energetico, i trasporti, il commercio e la ricchezza privata di numerosi individui legati al governo di Mosca, la strategia sembra quella di estromettere la Russia dal sistema dei pagamenti internazionali.
Lo strumento principale è il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), che regola i pagamenti transfrontalieri che passano per il sistema bancario. Gli ordini di pagamento sono trasmessi tramite un consorzio internazionale di banche con sede in Belgio che collega attraverso una rete informatica circa 11.000 istituzioni finanziarie in tutto il mondo. SWIFT fu costituito nel 1977 per evitare che l’infrastruttura dei pagamenti internazionali fosse monopolizzata dall’americana Citibank. Per una ironia della storia, ha finito per diventare la principale arma degli Stati Uniti nell’esercizio dell’egemonia monetaria globale.
La prima volta che il sistema dei pagamenti viene utilizzato per fini militari e strategici è stato nel 2012 quando, sotto la pressione americana, SWIFT ha disconnesso il sistema bancario dell’Iran nel quadro del pacchetto di sanzioni impiegato per fermarne il programma nucleare. Il sistema dei pagamenti si è rivelato immediatamente uno strumento bellico estremamente efficace per garantire l’attuazione delle sanzioni. Infatti, è sufficiente sospendere il codice SWIFT di un individuo, di un’impresa o anche di un intero Paese per impedire a chiunque (compresi gli intermediari) di effettuare pagamenti verso il beneficiario identificato da quel codice.
Come scrive giustamente Luca Fantacci: “Le sanzioni finanziarie, quando sono comminate dagli Stati Uniti, possono avere effetti ancor più devastanti di un attacco militare. Sono “un’arma nucleare”, come ha commentato recentemente un banchiere occidentale, forse sperando di scongiurarne l’uso”.
Il paragone non è azzardato: infatti, al pari di un attacco atomico, seppure in maniera diversa, più lenta e più subdola, le sanzioni rischiano di provocare ripercussioni devastanti anche per chi le mette in atto, minando alla radice l’egemonia monetaria del dollaro.

Possibile crisi dell’egemonia del dollaro?

Le sanzioni economiche hanno l’obiettivo di depotenziare l’economia russa, sino a causare una recessione economica. Già a partire dal 2014, dopo l’annessione unilaterale della Crimea da parte di Mosca, le potenze occidentali, in primis gli Usa, avevano imposto sanzioni all’economia russa, così come, pur se in maniera diversa, era stato deciso da Trump nei confronti dell’Iran nel 2018 per la questione nucleare.  In questo caso, secondo i dati FMI, il Pil iraniano è calato del 5% nel 2020. Ma per la Russia la situazione appare diversa, grazie alla maggior indipendenza e autarchia della sua economia. Putin ha dichiarato a fine 2019 che le perdite causate dalle sanzioni all’economia russa erano inferiori a 50 miliardi di dollari. Uno studio ha stimato una mancata crescita del Pil tra lo 0,5% e l’1,5%, per una perdita complessiva fra 40 e 120 miliardi di dollari dal 2014 al 2018. Il lato debole dell’economia russa è la sua “dollarizzazione”, vista l’ingente quantità di valuta americana che entra nel paese a causa dell’elevato export di materie prime quotate in dollari (gas e petrolio, ma non solo).
Se questi dati vengono confermati, l’impatto è tutto sommato limitato. Ma queste sanzioni contengono delle novità importanti, soprattutto sul lato finanziario. Infatti, oltre al già ricordato blocco del sistema Swift per alcune banche (escluse quelle che intermediano i prodotti energetici), si prevede anche il congelamento delle riserve valutarie della Banca Centrale. Si tratta di un provvedimento che gli Usa avevano già intrapreso nei confronti di Iran, Venezuela e Corea del Nord ma che oggi per la prima volta viene usata nei confronti di un paese del G20, detentore di grandi riserve.
Secondo i dati della Banca Centrale Russa, al 31 gennaio 2022, le riserve valutarie russe ammontano a  oltre 630 miliardi di dollari (630,207, per l’esattezza), di cui circa 500 in valuta estera e 130 in oro, per un totale di 2300 tonnellate d’oro, circa un terzo  degli USA, due terzi  della Germania e poco meno di Francia e Italia. Si tratta di un ammontare che è cresciuto costantemente nel tempo, a partire da metà 2015 (poco più di 350 miliardi di dollari all’epoca), a seguito di una precisa strategia di Putin di creare una sorta di scudo per affrontare gli effetti recessivi delle sanzioni occidentali a seguito dell’annessione della Crimea. Contemporaneamente, la Banca di Russia ha venduto tutti i suoi titoli di stato americani fra aprile e maggio del 2018, nel tentativo di mettere le proprie riserve al riparo dagli Stati Uniti nel caso di un inasprimento delle relazioni (si veda Fantacci) .
Tuttavia, nonostante il tentativo di “de-dollarizzare” l’economia e le riserve valutarie, il 60% di tali riserve è detenuto ancora in dollari, escludendo una quota del 13% detenuto in valuta cinese (quota destinata ad aumentare). L’impatto immediato delle sanzioni, più ancora del parziale blocco dello SWIFT, è l’impossibilità per la Banca Centrale russa di poter vendere parte delle proprie riserve per sostenere il corso del rublo, che, non casualmente, ha perso circa il 30% nel giorno in cui le sanzioni sono diventate operative. È questo il rischio maggiore che può correre l’economia russa. Dopo questo iniziale tracollo (il cambio rublo/dollaro è passato da 82 rubli per un dollaro del 24 febbraio, giorno di inizio dell’invasione russa, a 152 rubli per dollaro il 7 marzo), attualmente il rublo viene quotato su valori intorno a 100 rubli per dollaro e il suo valore si sta stabilizzando. La svalutazione rispetto all’euro è inferiore, visto che l’euro in questo periodo si è svalutato rispetto al dollaro. I dati ci dicono che le sanzioni, dopo un iniziale pesante effetto, si stanno rivelando meno efficaci del previsto, probabilmente anche in seguito al ricorso di valute alternative non direttamente legate al dollaro (quindi non bloccabili) come la valuta cinese e le criptomonete. Le dichiarazioni di Putin del 23 marzo 2022 di continuare la fornitura di gas all’Europa, mantenendo fede ai contratti in essere, convertendo la valuta di pagamento da dollari in rubli, se da un lato intende proseguire sul processo di “de-dollarizzazione”, dall’altro intende confermare la tenuta della stessa valuta russa.
È troppo presto oggi per verificare gli effetti di questa guerra valutaria in corso. Di sicuro sappiamo che a differenza della guerra miliare sul campo (ristretto, al momento, al martoriato territorio ucraino), questa guerra si combatte su scala mondiale.
La questione è ben descritta da Luca Fantacci:

“Il blocco delle riserve (russe, ndr.) costituisce un precedente che si ripercuoterà inevitabilmente sullo status del dollaro come moneta internazionale: che strumento di riserva può mai essere quello che rischia di venire a mancare proprio nel momento del bisogno? Questo precedente potrebbe ridurre la disponibilità di altri Paesi, in particolare della Cina, a detenere le proprie riserve sotto forma di titoli del Tesoro americano e, in generale, titoli denominati in dollari, indebolendo la funzione del dollaro come strumento di riserva internazionale”.

Come anticipato da Giovanni Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, il nuovo secolo si prefigura come il “secolo cinese” in grado di sostituire il XX secolo come “secolo americano”. L’illusione statunitense di rimanere l’unica potenza egemone una volta crollata l’URSS si perde di fronte al crescente potere economico e tecnologico cinese. Gli Usa cercano di mantenere il potere militare, finanziario e mediatico (il quarto potere di Orson Welles) al fine di compensare il declino dell’egemonia economica. Il potere militare è il primo a cominciare a declinare proprio perché non adeguatamente surrogato da quello economico. Il tentativo di ripristinare l’autorevolezza USA del proprio raggio d’azione ha al momento successo per quanto riguarda l’Europa, sulla quale è strategico mantenere un’influenza ideologica e commerciale.
Ma se per rinfocolare il patto d’intenti con l’Europa (grazie alle sanzioni contro il comune nemico rappresentato da Mosca), si rischia di mettere a repentaglio quel poco di potere finanziario che ancora oggi il dollaro detiene, la situazione rischia di sfuggire di mano.
All’erosione dell’egemonia del dollaro potrebbe contribuire anche il crescente ricorso alle criptovalute. In effetti, le criptovalute potrebbero costituire un mezzo di pagamento internazionale e di detenzione della ricchezza alternativo per i cittadini, le banche e le istituzioni finanziarie russe colpite dal blocco di SWIFT, e in generale dalle sanzioni occidentali. Infatti, le criptovalute costituiscono una forma di asset virtuale che viene scambiato sulla blockchain senza alcun bisogno di intermediari, sfuggendo al controllo delle autorità.
Non è un caso che le quotazioni del Bitcoin da fine febbraio alla prima settimana di marzo sino aumentate del 20% sino a sfiorare i 40.000 dollari, per poi avere un andamento altalenante, ma mantenendosi su quei livelli.
Occorre allora domandarsi, quale tipo di governance finanziaria mondiale possa essere possibile e soprattutto conveniente. Quella governata dalla speculazione delle grandi oligarchie finanziarie, grazie alla totale deregulation dei mercati finanziari, come è stato sino ad oggi ma con crescenti rischi di instabilità, oppure una governance politico-finanziaria volta a ricreare le premesse di una nuova Bretton-Woods, questa volta più a trazione asiatica che occidentale e non basata su una sola valuta?
Ecco la nuova economia di guerra: la possiamo definire una “terza guerra mondiale”?

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 29 marzo 2022

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Resistenza civile

di Lorenzo Guadagnucci

Fra i tanti paradossi del non-dibattito sulla guerra in Ucraina e sulle scelte che abbiamo compiuto o stiamo per compiere e su ciò che ne può conseguire (questo aspetto, in particolare, è pressoché inesistente nel discorso pubblico), c’è un piccolo ma rivelatore paradosso. Molti, fra quanti sostengono la necessità di inviare armi da guerra al governo ucraino, fanno un parallelo con la resistenza italiana durante la seconda guerra mondiale: partigiani allora contro l’occupazione nazifascista, partigiani oggi contro l’invasione russa; il paradosso è che gli eredi dei nostri partigiani, cioè l’Anpi, respinge tale accostamento ed è scesa in piazza per la pace e contestando l’opportunità di gettare benzina, cioè armi, sul fuoco della guerra. Paradosso nel paradosso: fra chi sostiene il parallelo Italia ’43 – Ucraina ’22 non sono pochi i detrattori della resistenza italiana, sempre sminuita nella sua importanza, se non attaccata per le sue attitudini politiche e le sue azioni.
Proprio un’analisi storica ci permette di avviare un ragionamento attorno alle scelte che stiamo compiendo e alle prospettive che ne conseguono. È pacifico, sul piano storico, che i nostri partigiani durante la seconda guerra mondiale furono un supporto – prezioso e di enorme spessore morale, un viatico all’insediamento della repubblica antifascista, ma un supporto – alle forze armate alleate, vere protagoniste sul piano militare della liberazione d’Italia e della sconfitta dell’esercito tedesco. Mutatis mutandis, la scelta di armare l’Ucraina è stata presa senza prefigurare alcunché: gli esperti militari sostengono che per fermare e sconfiggere l’invasore russo non basterà distribuire armi alla cittadinanza, ma servirebbe un intervento militare esterno, cioè cacciabombardieri e tutto il resto, quindi una guerra aperta contro la Russia da parte della Nato, dell’Unione europea o almeno di una coalizione di stati. Se questa fosse la strategia, l’impulso alla resistenza ucraina avrebbe un senso diverso – cioè più senso – da come si prospetta attualmente, sia pure al prezzo di scatenare – sostanzialmente – una terza guerra mondiale.
Altrimenti, qual è l’obiettivo dell’invio di armi? Nessuno si è sentito in obbligo di chiarirlo, nell’assenza di un vero dibattito sulla guerra in corso e sulle opzioni che abbiamo a disposizione. Se non vogliamo la terza guerra mondiale – e tutti dicono di non volerla – e se non è possibile fermare altrimenti l’invasione russa, perché inviamo armi? Per aiutare la giusta resistenza ucraina, si dice. Ma con quali obiettivi? In vista di che cosa? Di quale via d’uscita, cioè di quale soluzione che possa far tacere le armi? E a che prezzo? Nessuno ne parla.

Una resistenza armata?
È possibile che si pensi di rallentare l’invasione, sperando che nel frattempo succeda qualcosa a Mosca: una rivolta popolare, un golpe a opera degli oligarchi… Mah. O forse si ipotizza di convincere Putin, attraverso una resistenza più forte del previsto, a limitare i propri obiettivi e magari “accontentarsi” di occupare solo una parte del paese. O forse altro ancora, ma nessuno menziona ipotesi e prospettive; nessun giornalista incalza i governi europei su questo punto, né un dibattito si è aperto nel mondo politico: tutti sembrano accontentarsi delle decisioni prese finora, senza spingersi oltre, senza offrire alcuna prospettiva. Il dubbio dunque è legittimo. Davvero una resistenza armata in Ucraina è la soluzione migliore per l’avvenire del popolo ucraino e di tutti gli europei? Non c’è il rischio che tutto si risolva in una carneficina ancora più cruenta senza il minimo avvicinamento a una soluzione?
In questa paralisi del pensiero chiunque voglia mettere la guerra in Ucraina in una prospettiva storica e sul più ampio scenario geopolitico globale, viene messo sotto attacco e accusato di fare il gioco del nemico, se non si trova addirittura inserito nel girone infernale dei “putiniani” (metodo violento e volgare praticato sia da modesti esponenti politici sia da supposte grandi firme del giornalismo). Eppure, non è possibile affrontare politicamente la guerra ucraina, senza gli strumenti della politica e quindi senza prospettiva storica. Il movimento pacifista italiano ha messo a disposizione le sue conoscenze e la sua esperienza pluridecennale – a questo è servita la manifestazione del 5 marzo – ricordando, fra le altre cose, gli errori compiuti nell’ultimo trentennio: è dal 1989, quando il blocco sovietico cominciò a dissolversi, e non dal febbraio scorso che pacifisti e nonviolenti indicano la necessità di immaginare un futuro di pace in Europa attraverso la collaborazione con la Russia e i paesi limitrofi, liberando il continente dai missili ereditati dalla guerra fredda (“dall’Atlantico agli Urali”, si diceva); rispettando l’impegno a non allargare la Nato verso est; dismettendo le testate atomiche.
È un fatto storico che siamo andati in direzione opposta, con sicumera da apprendisti stregoni, favorendo pericolosamente lo sviluppo dei nazionalismi nell’est Europa e l’ansia russa di accerchiamento, come detto e scritto infinite volte da innumerevoli osservatori e diplomatici. La guerra un corso potrà finire solo riprendendo il filo di questo ragionamento, ma toccherà farlo con un’occupazione in corso, una minaccia di guerra globale incombente e migliaia di morti in più.
La resistenza armata oggi è descritta e concepita come una scelta ovvia, oltre che opportuna, nell’Ucraina soggetta a un’invasione, ma perché scartare a priori altre strade? Perché non domandarsi se non stiamo rischiando di incrementare distruzione e morte, col carico di odio aggiuntivo che ciò comporta, senza un vero motivo, in assenza di obiettivi politici percepibili, cosicché fra qualche settimana e con qualche migliaia di morti in più, si presenti comunque la necessità di confrontarsi con un’Ucraina occupata dai russi e la necessità di trovare un equilibrio geopolitico.

Una resistenza popolare
Perché allora non incoraggiare una resistenza civile del popolo ucraino?
Sarebbe meno cruenta e probabilmente più efficace. Certo, non potrebbe fermare l’invasione, ma nemmeno la resistenza armata sembra in grado di farlo e non a caso il presidente Zelenski ha già chiesto un intervento diretto dell’occidente, quindi la terza guerra mondiale. L’occupante, una volta terminata l’invasione, dovrà “governare” in qualche modo l’Ucraina, e una resistenza popolare con forme di non-collaborazione e boicottaggio potrebbe col tempo cambiare lo scenario, nonostante gli sfavorevoli rapporti di forza in ambito militare. Una resistenza civile renderebbe anche più plausibile e più concreto l’intervento di un mediatore internazionale, potrebbe ridare smalto all’Onu, fondata a suo tempo per impedire il ricorso alla guerra come metodo di regolazione dei rapporti fra stati – il metodo, non dimentichiamolo, che nel secolo scorso ha trasformato l’Europa in un cumulo di macerie e in un immenso cimitero.
In un documento dei giorni scorsi, i pacifisti tedeschi suggeriscono questa strada: chiedono il cessate fuoco russo, una conferenza internazionale su tutti i conflitti in corso, un’azione diplomatica per una nuova architettura di sicurezza ma anche la rinuncia ucraina alla lotta armata e il passaggio alla resistenza civile, nonché l’accoglienza per gli obiettori di coscienza ucraini, e poi il sostegno di lungo periodo ai cittadini ucraini nella ricostruzione di spazi di democrazia anche in condizioni di temporanea occupazione russa.

Verso l’irrimediabile
Conosciamo già la reazione immediata del Palazzo e dei media mainstream: roba da sognatori
, mentre i tank russi avanzano; Putin va fermato e basta. È per via di questo riflesso pavloviano – il rifiuto delle riflessione a mente aperta con profondità storica – che le manifestazioni pacifiste di questi giorni vengono ignorate, sbeffeggiate o messe esplicitamente sotto accusa, ma qui si torna al punto di partenza. Se l’obiettivo è davvero fermare l’invasione, come ignorare le richieste di escalation che arrivano dal presidente Zelenski? E come evitare, allora, la terza guerra mondiale?
Nessuno ha certezze di fronte agli orribili avvenimenti di questi giorni, ma senza un dibattito serio, senza mettere i fatti in una prospettiva storica, senza immaginare una soluzione di medio e lungo periodo che consideri e includa gli interessi geopolitici russi (nonostante i crimini di Putin e dei suoi generali, che forse un giorno saranno puniti), il rischio incombente è uno scivolamento progressivo, passo dopo passo, verso l’irrimediabile.

Materiali utili:

  • Un’intervista non banale sul contesto geopolitico e le possibili soluzioni del conflitto con Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio
  • Un intervento di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, sulla resistenza nonviolente
  • Una riflessione (e un’intervista) di Pasquale Pugliese, vice presidente del Movimento Nonviolento
  • L’appello dei pacifisti tedeschi “Fermare subito l’attacco. Rinunciare alla resistenza militare, la resistenza deve essere civile”

 

L’articolo è stato pubblicato su COMUNE-INFO, 8 marzo 2022

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