VENERDÌ

di Sergio Tardetti

Mai e poi mai avrei potuto credere, nel corso della mia quasi dimenticata adolescenza, che il venerdì avrebbe finito per assumere nel tempo un’importanza così capitale. Ci sono voluti anni, a dire il vero, prima che il venerdì diventasse il Venerdì, con tanto di maiuscola. Ai tempi in cui ero un ragazzo, il venerdì era semplicemente il giorno che precedeva il sabato, un giorno come tutti gli altri, differente soltanto per certe pratiche quaresimali alle quali non avevamo l’abitudine di sottoporci in famiglia, vale a dire digiuno e astinenza dalle carni. Ma, mentre il digiuno era un rischio che poteva capitare di correre, a volte perfino una necessità, quando si aveva poco o anche niente da mettere in tavola, praticare l’astinenza dalle carni era impossibile. “Non di solo pane vive l’uomo”, infieriva in quel giorno il predicatore dall’alto del pulpito, tenendosi piuttosto distante dal bordo, impedito nell’accostarsi da un giro vita di tutto riguardo. Difatti, non doveva vivere di solo pane, ma anche di qualche abbondante gustoso companatico, che pure non nominava mai. Pane sì, tanto, companatico mai. A noi sarebbe bastato, e perfino avanzato, quel pane che veniva acquistato in modeste quantità per tutta la famiglia e terminava nel giro di un paio d’ore, assaggiato, sgranocchiato, masticato, trangugiato, consumato in ogni forma e modalità. Quanto al companatico, alla fine si cadeva sempre sulla carne, non certo di alta qualità e di prima scelta, ad esempio zampe di pollo e spuntature di ali di pollo, quelle che la cuoca del ristorante accanto scartava, perché non presentabili ai clienti.

Confesso che quel ristorante con i suoi scarti, nobilitati dall’arte culinaria di mia madre, ha salvato spesso il pranzo e la cena, soprattutto il venerdì. Come avrà fatto il venerdì a diventare Venerdì? È successo tutto da quando la gente ha scoperto che, con un’opportuna e differente organizzazione del lavoro, si poteva lasciare il sabato libero. Così è accaduto che il Venerdì sia diventato “di sette il più gradito giorno”, soppiantando quel sabato che aveva mantenuto per secoli la sua egemonia sopra tutti i fratelli della settimana. È nelle serate e nelle notti del Venerdì che si sfoga tutta la frustrazione repressa di chi è costretto spesso ad accontentarsi di un lavoro e di uno stipendio, che considera assolutamente inadeguati alle sue capacità e al suo titolo di studio. Così, nelle serate del venerdì si consuma il sacro rito dell’apericena, un qualcosa a metà strada tra l’aperitivo – quello, però, è previsto per tutti i giorni – e la cena, leggera per lo più, perché il piatto piange e il borsellino langue. L’apericena, con ulteriori rinforzi di bevande nel giro obbligato dei locali della movida, innesca poi comportamenti che definire trasgressivi è un eufemismo. È questo, dunque, “di sette il più gradito giorno”? Sicuramente lo è per l’inventore dell’apericena e per tutti coloro che si sono dedicati a coltivare questa passione, vuoi per piacere personale, vuoi per interesse economico, essendo i ricavi dell’apericena parte sostanziosa e integrante del bilancio della propria attività commerciale. A volte capita di domandarmi come abbiamo fatto noi cosiddetti boomers – noi nati e cresciuti negli anni ‘50 e ‘60 del 1900 – a sopravvivere fino a questi giorni senza la pratica ossessiva-compulsiva dell’apericena.

Che dire? Non se ne avvertiva la mancanza, specialmente nelle piccole città, nelle quali l’unico locale aperto dopo le ventitré era spesso il bar della stazione – là dove c’era una stazione ferroviaria, naturalmente. Il venerdì, in fondo, non era che un altro giorno della settimana, un giorno lavorativo che preludeva al sabato, anch’esso giorno lavorativo, l’unico a poter aspirare al riconoscimento di “più gradito” tra i sette giorni. “Le cose cambiano”, mi ha detto il barista quando gli ho chiesto quale, secondo lui, fosse il giorno più gradito dei sette. E ci ha tenuto a precisare che cambiano a seconda delle stagioni, delle mode e delle disponibilità economiche. C’è stato un tempo, infatti, in cui era impossibile distinguere tra i sette quale fosse il più gradito e se, in effetti, ce ne fosse uno in particolare. Tutti, senza alcuna distinzione, risultavano graditi, anzi graditissimi, almeno fino a quando le disponibilità economiche permettevano di potersi gratificare tutte le sere, rendendo ciascun giorno unico e insuperabile. Salvo poi superarlo con il giorno successivo, facendolo diventare il nuovo “più gradito” dei sette, e così via, fino alla fine della settimana. Oggi, però, come direbbe, non senza rimpianto, qualcuno, il mondo è cambiato. Ce ne accorgiamo da come spendiamo il nostro tempo, perché, in effetti, mai come oggi il tempo è diventato denaro. Ma, mi capita spesso di chiedermi, lo spendiamo o lo sprechiamo? Non ho mai osato rivolgere questa domanda agli altri, nessuno vorrebbe mai ammettere di stare sprecando il proprio tempo. Eppure, il dubbio resiste e insiste a proporsi con incredibile frequenza. E, quello del venerdì, sarà tempo speso o sprecato? Senza dover rinviare ai posteri l’ardua sentenza, gli interrogati, specialmente quelli più dotati di spirito, affermeranno che, piuttosto, tempo sprecato è il tuo che continui ad arrovellarti con simili domande e che non hai ancora capito che questa vita va attraversata ad occhi chiusi. Che dire? Quando si ha il vizio assurdo di porsi domande, è poi difficile smettere, sai già che continuerai a interrogarti fino all’ultimo istante, anche se le eventuali risposte non cambieranno il mondo, ma forse aiuteranno a rendere più sopportabile la tua vita.

© Sergio Tardetti 2024
Foto di di Rachel Claire da Pexels

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