Si parla troppo poco di quanto sta accadendo in Darfur. I nostri politici, almeno fino a non molto tempo fa, non sapevano nemmeno dove fosse, né cosa fosse. Tutti ricorderete, infatti, la tragica figuraccia fatta da alcuni rappresentanti del nostro governo intervistati da un’inviata delle “Iene” nell’ottobre scorso. Alla domanda “Che cosa è il Darfur?” nessuno dei parlamentari intervistati fu in grado di dire che si tratta di un Paese martoriato dalle guerre. Qualcuno disse persino, più o meno, che “Darfur è un modo di dire, che si usa quando si intende qualcosa che va di fretta, insomma uno stile di vita frettoloso”. Penoso, non c’è che dire.
Invece no, il Darfur non è uno stile di vita frettoloso. Il Darfur è una realtà terribile, dove milioni di persone sono già morte, per davvero. E dove si continua a morire.
Il Darfur è una regione del Sudan occidentale (il Paese africano più esteso), grande due volte l’Italia e con circa sei milioni di abitanti (un quinto dell’intera popolazione del Sudan), fra i più poveri di tutto il continente. Nonostante il Sudan sia fra i principali produttori potenziali di greggio al mondo, questa risorsa non viene utilizzata per il benessere della popolazione. Infatti, almeno il 70% delle entrate del settore petrolifero viene impiegato per finanziare la guerra ed ottenere armi ed appoggi logistici e politici.
La crisi attuale del Darfur ebbe inizio nel 2003, a seguito del deterioramento decennale della situazione economica di una popolazione sempre più numerosa. Una serie di siccità che colpirono la regione negli anni ’80 costrinsero i nomadi del nord a trasferirsi più a sud in cerca di pascoli per il bestiame. Così, le tensioni tradizionali tra le popolazioni nomadi e quelle stanziali, o tra pastori e contadini, si acuirono in maniera pericolosa – soprattutto in uno Stato dove l’autorità centrale ha sempre stentato a far sentire la propria autorità a causa delle usanze e delle consuetudini che hanno un peso decisamente maggiore delle leggi decretate dal governo – giungendo ad un conflitto vero e proprio, che vede opporsi il governo settentrionale di Khartoum ed i ribelli dello SLA (il Sudanese Liberation Army) che rivendicano l’indipendenza delle regioni meridionali del Paese.
Una delle principali motivazioni di questa guerra (oltre a questioni economiche e territoriali) è sicuramente la profonda differenza etnica, sociale e religiosa esistente tra il nord nazionalista, arabo ed islamico ed il sud nero e cristiano-animista, organizzato in strutture di stampo prevalentemente tribale. I due gruppi si fronteggiano in una guerra senza sosta segnata da combattimenti estremamente feroci, condotti anche con armi “non convenzionali” (il regime è stato più volte accusato dell’utilizzo dei gas letali).
Il conflitto, concentratosi quasi esclusivamente nel sud del Paese, ha colpito in particolar modo la popolazione civile, tra cui si registrano gran parte degli oltre due milioni di vittime; inoltre, in centinaia di migliaia hanno perso la vita a causa delle carestie e delle epidemie connesse con la guerra, mentre altri quattro milioni e mezzo di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case e rifugiarsi nei campi profughi locali o dei Paesi confinanti (Uganda e Kenya in particolare).
Governo e ribelli si sono resi responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani, bombardando villaggi, colpendo case, scuole, edifici pubblici, mercati e chiese. Inoltre, migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, sono state rapite e deportate al nord come schiavi. Un gran numero di bambini sono stati arruolati con la forza, ed i ribelli sono stati accusati di esercitare un opprimente monopolio sugli aiuti umanitari.
Negli ultimi anni il tentativo di controllo dei giacimenti petroliferi e delle altre risorse dei territori meridionali ha preso il sopravvento su ogni altra questione, diventando così il vero motivo della guerra.
Le enormi ricchezze del sud – fra cui, oltre al petrolio, anche acqua, terreni coltivabili, bestiame, minerali, che non si trovano nel nord principalmente desertico – rappresentano da sempre un fortissimo richiamo per la classe dirigente ed i grandi amministratori e proprietari terrieri ad essa legati; ad aggravare la situazione si è aggiunto l’intervento di influenti multinazionali petrolifere straniere, che hanno fomentato la campagna di guerra di Khartoum per tentare di conquistare quante più “aree produttive” a sud. Si è così instaurato un circolo vizioso, attraverso cui il regime ha utilizzato gran parte dei ricavi dell’ “oro nero” per acquistare armi sempre più distruttive, e prendere il controllo di un numero sempre maggiore di giacimenti. Centinaia di migliaia di civili sono stati così scacciati o uccisi unicamente per il fatto di abitare nei pressi di campi petroliferi, e talvolta, secondo numerose denunce di osservatori indipendenti, le multinazionali non hanno esitato a scatenare i propri eserciti privati sulla popolazione.
Attualmente il governo continua a portare avanti le proprie azioni militari direttamente oppure tramite le proprie milizie. Le condizioni di vita nei campi profughi sono durissime e quelli che sopravvivono, riescono a farlo unicamente grazie agli aiuti umanitari. Nel solo 2007, secondo l’ONU altre 240.000 persone sono state costrette a lasciare i propri villaggi per sfuggire alla feroce violenza. Di questo passo, se il fragile sistema di aiuti umanitari dovesse crollare, circa 100.000 persone al mese rischierebbero di morire
Oltre ad azioni diplomatiche con il governo di Khartoum, servono azioni forti e determinate per porre finalmente fine a questo orribile genocidio. E’ necessario che venga sottoscritto un accordo di cessate il fuoco da parte di tutte le parti coinvolte nel conflitto. E’ necessaria la presenza delle forze di pace ONU per la protezione dei civili. E’ necessario un nuovo processo di pace. Ma soprattutto è necessario che la comunità internazionale non si volti dall’altra parte, come già fatto per troppi anni.
Per saperne di più: