Che prezzo ha il (dis)onore?

Per le donne palestinesi in Israele il prezzo dell’onore è ancora troppo alto

scritto per peacereporter da Margherita Drago

L’11 marzo 2008 una ragazza di 19 anni veniva quasi uccisa da suo fratello, nel suo villaggio di Na’ura, vicino ad Afula in Galilea. L’omicidio era stato pianificato da tempo ma, per fortuna, la ragazza si è salvata la vita fingendosi morta dopo essere stata ferita alla testa da una pallottola. Il fratello, preso in consegna dalla polizia, è stato applaudito e lodato per la sua coraggiosa azione dalla famiglia e dalle persone presenti alla scena. Il 16 marzo 2008 Sara Abu Ghanem 40 anni, è stata ferita in un altro tentato omicidio a Jawarish, quartiere di Ramla vicino a Tel Aviv. Aveva divorziato dal marito e voleva rendere ufficiale la sua relazione con un altro uomo, di religione ebraica. In sei anni Sara è la nona vittima d’onore nella famiglia Abu Ghanem. 8 donne prima di lei sono state uccise. Entrambe le storie testimoniano gli ultimi crimini d’onore registrati nel 2008 tra la comunità palestinese in Israele.
In Israele le donne palestinesi sono sottoposte a tre diversi tipi di discriminazione, che si sovrappongono come degli strati sotto la quale la vittima viene seppellita. La prima discriminazione avviene in tutto il mondo per lo stesso motivo: sono donne. In secondo luogo sono donne palestinesi in Israele, e per questo cittadine di serie B, in un paese dove la loro cultura e storia collettiva non viene riconosciuta: i palestinesi in Israele vengono indicati come arabi israeliani, denominazione che generalizza appositamente la presenza palestinese in Israele. In terzo luogo sono donne palestinesi e come tali discriminate nella stessa comunità araba di appartenenza.
La minoranza palestinese in Israele conta il 20 percento della popolazione e vive soprattutto in centri rurali e villaggi. A partire dalla Nakba del 1948, la nascita dello Stato di Israele, la società palestinese è passata da una leadership tradizionale a una forma politica più organizzata, che ha  cercato di lottare per l’uguaglianza dei diritti civili dei palestinesi in Israele, e di sviluppare un’agenda per unire la comunità palestinese in Israele. Cercare l’unità ha fatto sì che i problemi che le donne palestinesi affrontavano quotidianamente, inclusi i crimini d’onore, passassero in secondo piano in nome di una causa più “nobile” e importante. Parlare di crimini d’onore veniva percepito come un tentativo di rompere i delicati equilibri creatisi tra diversi gruppi politici e sociali all’interno della società palestinese, già sotto pressione del governo israeliano.
Nel 1991 al-Fanar è stata la prima organizzazione femminista palestinese a protestare contro l’uccisione du una ragazza da parte del padre. Il motivo era la gravidanza della figlia al di fuori del matrimonio. Il processo mise in luce che la ragazza era stata vittima di una violenza commessa da un parente, e che il padre ne era direttamente a conoscenza. Il tabù del crimine d’onore veniva sfidato pubblicamente per la prima volta all’interno della società palestinese in Israele. Prendere coscienza dell’esistenza del problema fu un grande progresso: durante gli anni ’90 sono stati fatti molti passi avanti, attraverso la formazione di coalizioni di attiviste e intellettuali palestinesi, che si inseriscono nella comunità locale. Grazie a centri anti-violenza, centri di emergenza, assistenza sociale, psicologi e avvocati, le vittime di violenza trovano supporto, aiuto e spesso un luogo sicuro dove rifugiarsi.
I crimini d’onore non sono scomparsi in Israele. Da una ricerca condotta da Women Against Violence, associazione palestinese di Nazareth, risulta che un “buon” motivo per uccidere può essere il “modo di vestire e comportarsi”, “fumare”, “lasciare la casa senza permesso”, “la richiesta di divorzio” o il “rifiuto di relazioni sessuali in matrimoni forzati”, “relazioni extraconiugali” o “voci di relazioni extraconiugali”. Eliminando l’elemento disturbatore, l’onore è ristabilito e la famiglia può continuare a essere rispettabile agli occhi della società. In una cultura dove la donna è vista come il ricettacolo dell’onore familiare, ogni suo gesto, il suo modo di parlare, di comportarsi, di vestirsi, si carica di significati e conseguenze sociali. Le bambine, le ragazze, le donne sono coscienti della loro responsabilità fin dall’infanzia. É questo il principale motivo per cui un’altissima percentuale dei crimini e delle violenze non viene denunciata. Il 55 percento delle donne non denuncia le violenze subite e il rapporto aumenta se si prende in considerazione anche la violenza sessuale all’interno del matrimonio.
La voce della donna rimane silenziosa anche in tribunale. La vittima spesso non è fisicamente presente all’udienza o le sue parole vengono usate a suo discapito: il suo comportamento ha provocato l’aggressore e lo ha forzato ad usare la violenza. I tribunali israeliani non danno molto peso ai reati d’onore in quanto visti come “una tradizione araba”. Il carnefice solitamente non viene punito con una pena adeguata, spesso solo 2-3 anni di carcere. “Queste sono le loro usanze, questa è la loro tradizione”  è la frase spesso registrata in tribunale, per giustificare i crimini d’onore come una questione interna alla famiglia. La negligenza della polizia e dei servizi sociali fanno il resto.
Grazie alla testimonianza della madre e di un’altra sorella, in marzo, il tribunale ha condannato a 16 anni Kamil Abu Ghanem per aver ucciso sua sorella Hamda nel 2007. Il corpo è stato ritrovato solo lo scorso gennaio. Queste due coraggiose donne hanno rotto il muro del silenzio che le circondava da troppi anni, a rischio della loro stessa vita, per interrompere la catena di omicidi nella loro famiglia. Il caso di Sara Abu-Ghanem è l’ultimo esempio, per le donne palestinesi in Israele l’onore ha ancora un prezzo troppo alto.

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