Kleiner Mann

di Ghismunda

“In un mondo nel quale si possono contare circa venti milioni di disoccupati e in un paese dove la gioventù che esce dalle scuole si vede sbarrata ogni via e ogni occupazione proficua, la storia di un disoccupato diventa quasi simbolica e ci interessa di per sé”. Se un lettore, oggi, trovasse tali parole, a mo’ di presentazione, nella seconda di copertina, troverebbe interessante e sicuramente attuale il libro. Forse lo comprerebbe. Poi, a casa, scoprirebbe che la storia narrata non è ambientata (e scritta) nei nostri tempi, ma nel periodo che va dalla primavera del 1930 all’inverno del 1932. Nell’ultimo periodo della Repubblica di Weimar, quando il numero dei disoccupati tedeschi raggiunse i sei milioni. E quando mezzo chilo di burro costava tremila marchi. Nel gennaio del 1933 Hitler è nominato cancelliere e assume la guida del governo. Il nesso è evidente.

“E adesso, pover’uomo?” di Hans Fallada, ristampato oggi da Sellerio nella prima versione integrale italiana, può efficacemente sostituire barbosi manuali di storia nei capitoli dedicati alle cause economico-sociali che portarono all’avvento del nazismo. Ma non solo: aiuta, altrettanto efficacemente, a capire il presente, soprattutto in relazione ad una tipologia umana molto diffusa, innocua e pericolosa al tempo stesso che, in tempi di crisi e di paura, si butta a destra, pur restando intrinsecamente apolitica e qualunquista. “Oh, sì, lui è uno fra milioni di altri, i ministri gli rivolgono i loro discorsi, lo esortano a sopportare le privazioni, a fare dei sacrifici, a sentirsi un tedesco, a portare i suoi soldi alla cassa di risparmio e a votare per il partito che è al governo. Lui lo fa o non lo fa a seconda dei casi, ma non crede a quel che dicono. Neanche una parola. Ne è profondamente convinto, loro vogliono tutti quanti qualcosa da me, per me però non vogliono far nulla”. Tale categoria è meglio espressa dal tedesco del titolo originale, che dalla sua traduzione italiana: il kleiner Mann, protagonista del romanzo, più che il “pover’uomo”, è l’uomo qualunque, comune, l’uomo della strada, il piccolo-borghese dallo stipendio misero ma sicuro, l’impiegato (o, per dirlo come Fallada, l’impiagato), il colletto bianco ostile tanto al capitale (che invidia, “le grandi macchinone le sfrecciano davanti veloci…”) quanto all’operaio (che teme, loro “si chiamano compagni e si aiutano l’un l‘altro…”); ceto medio, insomma, che di fronte al rischio incombente della disoccupazione e della proletarizzazione, cerca ordine, forza e riscatto, nonché antidoto alla noia, nell’ideologia del Popolo, del das Volk come classe unificata, come Tutto identitario; e nella cultura del Nemico, che bussa alle porte o ce l’hai già in casa: ein Volk, ein Reich, ein Führer. Ein Führer soprattutto.

Il romanzo ebbe un clamoroso successo negli anni Trenta. Ne venne tratto anche un film, “Little Man, What Now?” per la regia di Frank Borzage e Margaret Sullavan e Douglas Montgomery come attori protagonisti. Costituiva l’esempio più riuscito di quella “Nuova Oggettività”, a cui la letteratura tedesca, dopo la disfatta della guerra e i deliri soggettivistici dell’espressionismo, voleva tornare in nome di un sano e costruttivo realismo. In realtà, il successo popolare del romanzo, che non è un capolavoro, lo si doveva alla contaminazione “romantica” del soggetto sociale rappresentato: le difficoltà e l’inarrestabile caduta di Johannes Pinneberg, il protagonista, sono narrate all’interno della sua storia d’amore con la dolce Emma Mörschel, detta Lämmchen, agnellino. Erano i problemi di coppia, di chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese con un bimbo in arrivo, a commuovere i lettori; era il lieto fine, quel ritorno all’ “antico amore” che paga e consola, quella spes contra spem, pur in mezzo alle ristrettezze e alla catastrofe, a rassicurare e farsi leggere. Quell’ottimismo lacrimevole, così tanto propagandato in questi giorni, che fa promesse e consenso. E audience. Sempre.

“E adesso, pover’uomo?” va riletto, oggi, con il senno di poi, in chiave critica e, oserei dire, “preventiva”, per non diventare, magari inconsapevolmente, come i coniugi Pinneberg: agnellini fuori, nazisti dentro.

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