Dove sta andando il western?

di Sergio Tardetti

Riflessioni a margine della visione di “I segreti di Brokeback mountain
Entrato nella sala cinematografica per assistere alla proiezione del film “I segreti di Brokeback mountain”, ne sono uscito con molte meno certezze. Il fatto è che i rassicuranti stilemi del cinema classico hollywoodiano degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso si stanno vistosamente incrinando sotto i robusti colpi di registi che, pur attingendo ai cospicui budget e al supporto tecnico della grande fabbrica del cinema made in USA, riescono tuttavia a mantenerne adeguatamente le distanze. Figure di professionisti internazionali campeggiano sulla scena dei teatri di posa, directors di successo, che nulla hanno a che vedere con tante pallide ombre di registi del cinema classico, quando dominava incontrastata la temutissima personalità del produttore. Egli rappresentava allora una divinità incostante e perennemente adirata, la cui parola era legge, anche quando esigeva sacrifici narrativi o stilistici da parte del direttore del film, relegato al rango di maestranza tra le maestranze. Il produttore, a sua volta, si inchinava ad un solo padrone: il profitto. Il suo potere smisurato era tale da decretare successi e fallimenti di sceneggiatori, attori e registi che, provenienti da altri campi, quali la letteratura e il teatro, osavano avventurarsi per la prima volta, indifesi e senza una adeguato bagaglio di competenze, nel labirinto degli studios, scegliendo la macchina da presa come strumento di narrazione. Ne seppe qualcosa Scott Fitzgerald che, sebbene preceduto dalla sua fama di autore di successo, riuscì a collezionare solo una lunga serie di insuccessi come sceneggiatore, salvo cogliere poi una vendetta postuma con “Gli ultimi fuochi”, descrivendo a forti tinte, e quasi demonizzandolo, l’intero ambiente del cinema e la figura dell’onnipotente produttore Irving Thalberg.
La memoria corre ai tempi in cui il cinema – specie negli anni ’40 e in gran parte degli annui ’50 – proponeva al pubblico, che allora accorreva veramente in massa nelle sale, storie dai contorni nitidi, dove il bianco era bianco, il nero era nero. Personaggi a tutto tondo, senza sfumature, identificabili da parte dello spettatore perfino attraverso l’abbigliamento, campeggiavano sul set di film dai generi più disparati, dalla commedia al musical, dal western al noir, dal film di guerra a quello d’avventura, dal film in costume al melodramma. Fu proprio in quest’ultimo genere che cominciarono a comparire personaggi dalla personalità più sfumata, con contorni meno netti: il fatto è che il melodramma attingeva ad ampie mani dalla vita di tutti i giorni, ne era, in qualche modo, uno “specchio”, nel quale la vita si rifletteva con tutte le sue incoerenze e le sue possibilità. Nel frattempo – alla fine degli anni ’50 – la stessa evoluzione, da molti vista piuttosto come una involuzione, era entrata prepotentemente nel genere western, quel genere che sembrava allora più stilisticamente consolidato, con attori che avevano, nell’immaginario collettivo, assunto le sembianze del “buono” e del “cattivo” in maniera indelebile.
Ma questi generi e queste certezze non rientravano nel bagaglio culturale della X- generation, la generazione confusa e smarrita degli anni ’70, per la quale i richiami ai valori espressi dal cinema di papà non avevano più senso. Al loro posto subentravano altri generi, di identico significante ma di diverso significato, con nomi usati più per convenzione che per connotazione. Il western, a parole, restava ancora ad occupare lo schermo con le sue storie, in cui di classico c’era rimasta solo l’ambientazione nei grandi paesaggi della “frontiera”, ma, nei fatti, dei personaggi che lo animavano poco o nulla era rimasto. La commistione tra desiderio di classicità e volontà di innovare è forse rappresentata al meglio da “Butch Cassidy”, interpretato da Robert Redford e Paul Newman, che, con i suoi fuorilegge romantici colpisce l’animo dello spettatore più intransigente, fino al punto di parteggiare per questa coppia di rapinatori sempre in conflitto con le leggi di tutti i paesi. La realtà delle cose è che lo spettatore stesso appare confuso, circondato da un mondo in rapida e continua evoluzione, in cui nulla è certo e stabilito per sempre, tutto si trasforma rapidamente sotto i suoi occhi e diventa inafferrabile e non interpretabile. E se si accetta l’idea che il cinema, come ogni forma di espressione artistica, si rispecchia nel suo tempo e ne è figlio, si riesce a percepire inizialmente ed a comprendere poi quello che sta accadendo sullo schermo, sotto i nostri occhi aperti ed attenti a cogliere ogni nuova sfumatura che una storia narrata per immagini è capace di proporre. Butch Cassidy e Sundance Kid non possono che essere amati, universalmente, perché raccontano, attraverso una storia che appartiene ad un genere ma che allo stesso tempo ne è fuori, lo smarrimento dello spettatore, quando, fuori della sala, si trova ad interpretare quotidianamente il suo “ruolo” nel mondo reale in cui agisce. E sono amati al punto che la lacrima che ognuno di noi sta per versare sul loro tragico destino rimane sospesa come il fermo fotogramma su cui scorrono i titoli di coda: Butch e Sundance escono dalla storia, quella ordinaria e quotidiana, per entrare nella leggenda senza tempo.
E così giungiamo ai giorni nostri, giorni nei quali tutto ciò che sembrava ancora resistere all’usura del tempo è messo severamente in discussione. Intanto il genere western, se così ha ancora senso chiamarlo, ha attraversato una stagione infelice ed oscura, relegato a produzioni di serie B, realizzate con poca spesa ed ancor meno arte (è un caso a parte la felice ed eccezionale parentesi del cinema di Sergio Leone, che innova vigorosamente gli ultimi stilemi residui) ed approda fortunosamente al giorno d’oggi. A renderne opaca l’immagine hanno contribuito senz’altro mega produzioni fallimentari come “I cancelli del cielo”, che hanno segnato, oltre che uno dei punti più bassi nella storia del genere, anche la pressoché totale uscita di scena di promettenti autori, come ad esempio Michael Cimino, del quale si sono perse praticamente le tracce a partire da quel clamoroso fiasco.
Mi sto ancora chiedendo perché occorresse un regista, anzi un “autore” a tutti gli effetti, così distante dalla cultura della “frontiera” e dei cow boys, per riportare sugli scudi un genere tanto amato prima e tanto disprezzato e bistrattato poi. Il fatto è che Ang Lee, oltre ad essere un grande narratore di storie per immagini, come del resto sta a sottolineare la sua produzione precedente, è anche depositario di una cultura quale quella orientale, nella quale le tinte sfumate e le filosofie sobrie predominano sui tratti marcati e le interpretazioni dionisiache della realtà e della vita. Questo, già di per sé, può valere come risposta: la lettura che danno del mondo gli occhi di Ang Lee è quanto di più moderno e razionale possa essere proposto oggi. Moderno in quanto la modernità, a mio parere, non è tanto un’etichetta buona per incasellare il tempo che sfugge ad ogni delimitazione in epoche e stagioni, quanto piuttosto un modo di rapportarsi con la realtà che ci circonda, assecondandone le dinamiche e contribuendo, pur nel ristretto ambito della propria personale esistenza, a rendere meno conflittuale il rapporto con l’ambiente nel quale viviamo. Razionale perché assumere la razionalità come propria guida nell’attraversare l’esistenza contribuisce ad aprire gli occhi e la mente anche a fenomeni e realtà che sono spesso difficili da comprendere ed accettare. Ecco spiegata, a mio parere, la delicatezza con la quale viene affrontato un tema scabroso e poco omogeneo alla nostra società, ancora eccessivamente impregnata di fondamentalismi di ogni genere. L’autore non ignora di contribuire con forti colpi di piccone alla demolizione delle ultime vestigia di un mondo che non appartiene più all’immaginario collettivo contemporaneo, ma è altrettanto consapevole di costruire sopra queste macerie, e per mezzo di esse, una nuova visione ed un nuovo significato per un genere diventato da tempo troppo marginale nel panorama della produzione cinematografica. Chi vorrà cimentarsi in storie ambientate sotto i grandi cieli del Montana o del Wyoming, non potrà ignorare facilmente la nuova visione del mondo del western che è proposta da questo film e da questo autore.

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