Caffè d’Africa

di Sergio Tardetti
“Mi ricordo di quella volta…”. Comincia sempre così il suo racconto, mio padre, ogni volta che beve il suo caffè. La prima cosa che fa, appena glielo porto, è mettere le dita intorno alla tazzina, per sentirne il calore. “E’ bollente”, fa lui. E poi aggiunge: “Certo, è stato sul fuoco!”. Sorride a questa battuta che ormai noi tutti conosciamo, ci guarda come per constatarne l’effetto, anche noi ci mettiamo a sorridere. Crederesti che lo ami bollente, invece versa con calma lo zucchero, due cucchiaini, altrimenti è amaro, dice lui. Poi comincia a girare il cucchiaino, prendendo di tanto in tanto un po’ di caffè e lasciandolo ricadere nella tazzina. Dopo un po’, accosta di nuovo le dita e prova a sentire se la tazzina è un po’ più fredda. Niente da fare, ancora troppo caldo per lui. “E’ bollente”, ripete, guardandoti da sotto in su, aspetta di vedere la tua faccia stupita del fatto che non l’abbia ancora assaggiato. Intanto, gli altri hanno già finito il loro, e lui chiede: “Ma come fate?”. Intende, a berlo così bollente, ma nessuno che abbia trovato finora il modo di spiegarglielo. Finalmente, dopo aver soffiato più e più volte nella tazzina, divertendosi a farne increspare la superficie, si prepara ad assaggiarlo, con tutta calma e usando una cautela che non riusciresti a immaginare in uno che di caffè nella sua vita deve averne bevuti migliaia, in ogni situazione e in ogni circostanza. Di solito, mentre sorseggia lentamente il suo caffè, mio padre parte con uno dei suoi racconti su qualcuno degli infiniti caffè che deve avere gustato negli oltre novanta anni di vita. Nei discorsi passano caffè bevuti a tutte le ore del giorno e della notte, durante una festa, un matrimonio, una veglia funebre. Ci sono quelli assaporati con gli amici, di prima mattina, e quelli consumati in mezzo a sconosciuti, in qualche posto sperduto, in attesa di un treno o di un passaggio. Caffè bevuti per rimanere sveglio, quando le circostanze e il bisogno lo richiedevano. Storici memorabili caffè d’Africa, di quando era militare e infermiere e doveva assolutamente rimanere all’erta, pronto a intervenire a qualunque ora, in attesa dell’arrivo dei feriti di una delle tante battaglie combattute in Africa Orientale. Bevuti in talmente eccessive quantità da ritrovarsi con un tremore addosso, così forte da impedirgli di compiere anche le più elementari operazioni di ambulatorio, come la preparazione dei vetrini per lo striscio di sangue. Perché lì la malaria era sempre in agguato.
Per molto tempo nei suoi racconti ci sono state solo vaghe allusioni a certi fatti accaduti, dei quali voleva cancellare la memoria, un po’ per non rinnovare il dolore provato in quelle occasioni, un po’ perché la gente non voleva sentir parlare di guerra e di morti, ognuno aveva il suo lutto da piangere in famiglia. Così, certi argomenti venivano tirati fuori soltanto nei soliti incontri fra reduci, che ne parlavano come per volersene liberare, sperando così di poter tornare ai giorni di prima, prima delle battaglie, prima dei morti, prima della prigionia. Poi, anche i reduci si stancarono di raccontare, avevano scoperto che niente del passato sarebbe cambiato, tanto valeva allora guardare al presente e al futuro. Solo così si sarebbero sentiti più liberi e più leggeri. Adesso, nominare luoghi e mettere in fila fatti costa sempre più fatica a mio padre. Giorno dopo giorno tutti i ricordi si rapprendono in un magma indistinto, si avvolgono in un gomitolo inestricabile, ancora vivo e vitale, ma dove tutto si intreccia con tutto e abbraccia tutto. La sua memoria di ultranovantenne in discrete condizioni fisiche a volte prende sentieri poco o per niente battuti, soprattutto per quei ricordi che forse ha provato a cancellare per poter tornare alla vita quotidiana, senza portarsi dietro il fardello di dolori, miserie e tristezze accumulato in quegli otto anni trascorsi lontano da casa, in condizioni non sempre facili.
“Avevamo finito tutto”. Comincia così il racconto di oggi, e la voce è più triste del solito. “Tutto, cosa?”, chiedo io. Da qualche tempo il suo raccontare va incoraggiato, non viene più spontaneo e istintivo come un tempo. Forse, più che a ricordare, sta provando a dimenticare, ma c’è sempre qualcosa che glielo impedisce. Deve essere uscito a fare la spesa, sicuramente si sarà accorto di quel manifesto funebre, incollato nella bacheca poco prima dell’ingresso del negozio. Lo conosceva, si conoscevano, era uno dei protagonisti del suoi racconti, quello del militare addetto alla pompa di benzina, che in quella giornata di sangue aveva fatto così tanti pieni da essere anche lui impregnato di carburante. Era bastata una scintilla. “Questo non ce la fa”, aveva detto l’ufficiale medico quando era arrivato all’ospedale da campo. “Era tutto una piaga”, ripete mio padre nel suo racconto. L’hanno curato per giorni con quello che avevano, alla fine ce l’aveva fatta, ma i segni delle ustioni gli erano rimasti per tutto il corpo. Solo il viso, stranamente, non aveva cicatrici. Ci vollero giorni di cure continue per poterlo finalmente dichiarare fuori pericolo. Intanto, però, la battaglia che si combatteva sul fronte dell’Africa Orientale Italiana era stata persa e i soldati fatti prigionieri. La guerra, in ogni caso, continuava su altri fronti. Il caso, o il destino, ha voluto che dopo molti anni mio padre e quel ragazzo, ormai diventato adulto, si incontrassero, quando acquistammo la prima auto e avevamo bisogno di un garage nel quale ripararla per la notte e durante la settimana, quando l’auto rimaneva quasi sempre ferma. L’auto, un bene prezioso che andava protetto in tutti i modi dai malintenzionati, l’auto che, di solito, si usava solo la domenica, per andare a fare visita ai parenti più lontani in campagna, con mia madre che gli faceva da navigatore, avvertendolo per tempo delle svolte e anche delle fermate agli stop e ai semafori. Il custode del garage era proprio quell’uomo, a guardarlo in viso non si indovinava il gran dolore che doveva portarsi dentro e addosso, il viso di un uomo sereno. Il sorriso con cui accolse mio padre diceva già tutto, il silenzio tra loro diventava più eloquente di qualunque discorso, come l’abbraccio che si scambiarono, quasi desiderassero accertarsi di essere ancora vivi e di essere lì.
Il racconto, come il caffè, anche per oggi è terminato. Mio padre solleva la tazzina alla bocca e vuota le ultime gocce rimaste di quell’unico caffè della giornata, al posto dei tanti bevuti in tempi in cui quel caffè d’Africa era un’abitudine per continuare a vivere.

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