Scrittura

ORE DICIOTTO


di Sergio Tardetti

La campana della Chiesa Madre ha un suono più allegro del solito stasera. La gente del piccolo borgo è accorsa a frotte, vestita degli abiti migliori, come se andasse ad una festa. E festa sarà davvero, sempre che i protagonisti si decidano ad arrivare. L’attesa è iniziata ormai da più di un’ora, e un’altra ancora manca all’istante in cui l’evento, così tanto a lungo evocato, accadrà, finalmente. Giorni e giorni, ore e ore di preparativi, di prove, di correzioni di piccoli impercettibili errori, che solo ai protagonisti sono apparsi tali al momento. E, finalmente, il visto, il si proceda, l’imprimatur sono stati concessi da entrambe le parti, dai numerosi e non sempre richiesti supervisori, che hanno voluto dire la loro in merito all’evento, alle sue dinamiche e alle sue varie fasi. Sono intervenute, innanzi tutto, le madri, future consuocere, sempre in lizza per definire la supremazia del rispettivo figlio o figlia nella gerarchia familiare, considerando come sempre in queste situazioni il loro parere “vincolante”, una condizione – anzi, una serie di condizioni – senza la quale – e senza le quali. Insomma, basta, va da sé, ci siamo capiti. Chi non si è capito sono state proprio loro, le amiche-rivali, che si sono fronteggiate per giorni e giorni, a volte per settimane e mesi, una volta rese edotte della tanto attesa notizia – Ci sposiamo! – a colpi di “questo sì, quest’altro no, questo forse, quest’altro è impossibile!”. Fino allo sfinimento, fino alla necessaria discesa in campo dei consorti, che, fino a quel momento, avevano osservato dall’alto della loro esperienza l’evoluzione delle schermaglie, sfociate infine in aperti combattimenti, tra le di loro coniugi.

Ad imporre per primo la tregua – armata, ma pur sempre tregua – era stato il signor Orlando, che aveva tuonato un baritonale “Adesso basta!”, alle ennesime rimostranze che la di lui legittima consorte, signora Franca, gli aveva sottoposto tra una portata e l’altra del pranzo domenicale. Assenti i “ragazzi”, strategicamente defilatisi per una sana boccata di aria marina, la signora Franca aveva potuto finalmente dare libero sfogo a tutta la sequela di ripicche con le quali, a suo dire, la futura consuocera l’aveva tormentata e torturata fino a quel momento, negandole persino la facoltà di esporre, civilmente s’intende, il suo parere in merito all’organizzazione dell’intera cerimonia. E dire che lei, la consuocera, si era permessa di dare consigli sul come disporre i posti a tavola al banchetto nuziale. E, sulla torta, aveva potuto dire qualcosa lei? Sulla torta, per mantenere la pace familiare, era stato opportuno tacere. Anche se. Anche se di parole da aggiungere al già detto la signora Franca ne avrebbe avute e ne aveva ancora, in abbondanza, perfino in sovrabbondanza. E tutte quelle parole, trattenute a stento, pro bono pacis, s’intende, le avevano provocato un mezzo travaso di bile che, insomma. Basta. “Basta” lo aveva detto anche il signor Orlando, sempre con quella bella voce baritonale impostata, perché lui cantava nel coro della chiesa, e peccato che nel giorno della cerimonia non avrebbe potuto farlo, impegnato ovviamente in tutt’altro ruolo. E lo aveva fatto notare, tutto questo, alla signora Franca, le aveva fatto notare a cosa avrebbe dovuto rinunciare anche lui nell’occasione.

E che, dunque, lei la smettesse di fare i capricci per una torta sulla quale avrebbero dovuto decidere, in fondo, soltanto gli sposi. Ed era stato allora che la signora Franca si era temporaneamente azzittita, ma dentro di sé continuava a ribollire come un vulcano prossimo all’eruzione. Ma, tornando a noi e al presente, un improvviso ondeggiare della folla, radunata sulla piccola piazza antistante la chiesa, segnala l’arrivo di qualcuno di importante ai fini della riuscita della cerimonia. Si tratta forse dello sposo? Impossibile, ancora troppo presto per poterne ammirare l’arrivo, la discesa dalla macchina condotta dal fidatissimo amico Gianriccardo, l’elegante ascesa dei pochi gradini che conducono al portone della chiesa, spalancato come deve essere nell’occasione. Il tutto in una salva di applausi e di auguri che sembrano rendere ancora più leggero ed elastico il passo dello sposo. A proposito, si chiama Andrea, lo sposo. Ma non è lui a destare l’interesse della folla, si tratta invece di una ragazza elegantissima – amica della sposa, prontamente riconosciuta come tale da alcuni e subito conosciuta e ammirata anche dal resto degli spettatori. Ma anche amica dello sposo, mormora qualcuno dei presenti, amica “particolare” spettegola qualcun altro, evidentemente bene informato, perché sono davvero in pochi a conoscere i dettagli di una breve relazione che ha tenuto legati Angelica – la nostra invitata in arrivo – e Andrea, come già detto, lo sposo. Le cose, però, finiscono sempre per andare come devono andare, mai come vorremmo che andassero, noi semplici spettatori di vicende nelle quali l’unico coinvolgimento avviene attraverso le decine di pareri non richiesti, che ci permettiamo di sottoporre alla attenzione di chi di dovere. Che poi, alla fin fine, decide sempre secondo la propria volontà, o almeno così dovrebbe accadere, di solito.

Così è stato, infatti, per Andrea, quando si è trovato a dover scegliere la futura compagna della sua vita, senza dare ascolto alle voci che lo avrebbero voluto vincolato per l’eternità ad Angelica. A risolvere la questione ci ha pensato Gianriccardo, che ha trovato campo libero per far conoscere ad Angelica le sue intenzioni – difatti si sposeranno di lì a un mese, al ritorno dal viaggio di nozze degli sposi del giorno. La vita è scontata? La vita è monotona? Chi può dirlo? Intanto, mentre tentiamo di sciogliere la serie ininterrotta di interrogativi che si propongono alla mente in questa situazione, sta facendo il suo ingresso nella piazza antistante la chiesa l’auto della sposa. La cerimonia vera e propria, a questo punto, può avere inizio e, difatti, già lo sposo ha raggiunto la sua postazione, già il padre della sposa è sceso dall’auto per aprire lo sportello alla propria figlia e darle il braccio. Un sorriso soddisfatto gli sta affiorando alle labbra, quel genere di sorriso che equivale a un “finalmente” rassicurante e consolante, ormai è fatta e adesso non si torna più indietro. Attento, adesso, a non inciampare su qualcuno dei cinque gradini che conducono all’ingresso vero e proprio della chiesa. Del resto, non sarebbe la prima volta che accadono episodi del genere, sicuramente non di buon auspicio per l’esito della cerimonia e del matrimonio nel suo complesso. Ricorda ancora, il padre della sposa, quando qualcosa di simile accadde in occasione del suo matrimonio, al padre della sposa di allora, sua attuale consorte, a suo suocero, insomma, e ci vollero settimane e mesi per assorbire i malumori legati a quell’insignificante incidente e a quel tanto di ridicolo che ne era conseguito.

Ma, ormai, è fatta, c’è solo da percorrere la navata e consegnare la sposa nelle mani dello sposo, mani un po’ sudaticce, per la verità, dopotutto l’emozione comincia a prendere il sopravvento. Intanto, le prime note della Marcia Nuziale si spandono nell’aria della chiesa, è il segnale, non convenuto ma universalmente riconosciuto, che dà inizio alla cerimonia.

© Sergio Tardetti 2025

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Caffè d’Africa

di Sergio Tardetti
“Mi ricordo di quella volta…”. Comincia sempre così il suo racconto, mio padre, ogni volta che beve il suo caffè. La prima cosa che fa, appena glielo porto, è mettere le dita intorno alla tazzina, per sentirne il calore. “E’ bollente”, fa lui. E poi aggiunge: “Certo, è stato sul fuoco!”. Sorride a questa battuta che ormai noi tutti conosciamo, ci guarda come per constatarne l’effetto, anche noi ci mettiamo a sorridere. Crederesti che lo ami bollente, invece versa con calma lo zucchero, due cucchiaini, altrimenti è amaro, dice lui. Poi comincia a girare il cucchiaino, prendendo di tanto in tanto un po’ di caffè e lasciandolo ricadere nella tazzina. Dopo un po’, accosta di nuovo le dita e prova a sentire se la tazzina è un po’ più fredda. Niente da fare, ancora troppo caldo per lui. “E’ bollente”, ripete, guardandoti da sotto in su, aspetta di vedere la tua faccia stupita del fatto che non l’abbia ancora assaggiato. Intanto, gli altri hanno già finito il loro, e lui chiede: “Ma come fate?”. Intende, a berlo così bollente, ma nessuno che abbia trovato finora il modo di spiegarglielo. Finalmente, dopo aver soffiato più e più volte nella tazzina, divertendosi a farne increspare la superficie, si prepara ad assaggiarlo, con tutta calma e usando una cautela che non riusciresti a immaginare in uno che di caffè nella sua vita deve averne bevuti migliaia, in ogni situazione e in ogni circostanza. Di solito, mentre sorseggia lentamente il suo caffè, mio padre parte con uno dei suoi racconti su qualcuno degli infiniti caffè che deve avere gustato negli oltre novanta anni di vita. Nei discorsi passano caffè bevuti a tutte le ore del giorno e della notte, durante una festa, un matrimonio, una veglia funebre. Ci sono quelli assaporati con gli amici, di prima mattina, e quelli consumati in mezzo a sconosciuti, in qualche posto sperduto, in attesa di un treno o di un passaggio. Caffè bevuti per rimanere sveglio, quando le circostanze e il bisogno lo richiedevano. Storici memorabili caffè d’Africa, di quando era militare e infermiere e doveva assolutamente rimanere all’erta, pronto a intervenire a qualunque ora, in attesa dell’arrivo dei feriti di una delle tante battaglie combattute in Africa Orientale. Bevuti in talmente eccessive quantità da ritrovarsi con un tremore addosso, così forte da impedirgli di compiere anche le più elementari operazioni di ambulatorio, come la preparazione dei vetrini per lo striscio di sangue. Perché lì la malaria era sempre in agguato.
Per molto tempo nei suoi racconti ci sono state solo vaghe allusioni a certi fatti accaduti, dei quali voleva cancellare la memoria, un po’ per non rinnovare il dolore provato in quelle occasioni, un po’ perché la gente non voleva sentir parlare di guerra e di morti, ognuno aveva il suo lutto da piangere in famiglia. Così, certi argomenti venivano tirati fuori soltanto nei soliti incontri fra reduci, che ne parlavano come per volersene liberare, sperando così di poter tornare ai giorni di prima, prima delle battaglie, prima dei morti, prima della prigionia. Poi, anche i reduci si stancarono di raccontare, avevano scoperto che niente del passato sarebbe cambiato, tanto valeva allora guardare al presente e al futuro. Solo così si sarebbero sentiti più liberi e più leggeri. Adesso, nominare luoghi e mettere in fila fatti costa sempre più fatica a mio padre. Giorno dopo giorno tutti i ricordi si rapprendono in un magma indistinto, si avvolgono in un gomitolo inestricabile, ancora vivo e vitale, ma dove tutto si intreccia con tutto e abbraccia tutto. La sua memoria di ultranovantenne in discrete condizioni fisiche a volte prende sentieri poco o per niente battuti, soprattutto per quei ricordi che forse ha provato a cancellare per poter tornare alla vita quotidiana, senza portarsi dietro il fardello di dolori, miserie e tristezze accumulato in quegli otto anni trascorsi lontano da casa, in condizioni non sempre facili.
“Avevamo finito tutto”. Comincia così il racconto di oggi, e la voce è più triste del solito. “Tutto, cosa?”, chiedo io. Da qualche tempo il suo raccontare va incoraggiato, non viene più spontaneo e istintivo come un tempo. Forse, più che a ricordare, sta provando a dimenticare, ma c’è sempre qualcosa che glielo impedisce. Deve essere uscito a fare la spesa, sicuramente si sarà accorto di quel manifesto funebre, incollato nella bacheca poco prima dell’ingresso del negozio. Lo conosceva, si conoscevano, era uno dei protagonisti del suoi racconti, quello del militare addetto alla pompa di benzina, che in quella giornata di sangue aveva fatto così tanti pieni da essere anche lui impregnato di carburante. Era bastata una scintilla. “Questo non ce la fa”, aveva detto l’ufficiale medico quando era arrivato all’ospedale da campo. “Era tutto una piaga”, ripete mio padre nel suo racconto. L’hanno curato per giorni con quello che avevano, alla fine ce l’aveva fatta, ma i segni delle ustioni gli erano rimasti per tutto il corpo. Solo il viso, stranamente, non aveva cicatrici. Ci vollero giorni di cure continue per poterlo finalmente dichiarare fuori pericolo. Intanto, però, la battaglia che si combatteva sul fronte dell’Africa Orientale Italiana era stata persa e i soldati fatti prigionieri. La guerra, in ogni caso, continuava su altri fronti. Il caso, o il destino, ha voluto che dopo molti anni mio padre e quel ragazzo, ormai diventato adulto, si incontrassero, quando acquistammo la prima auto e avevamo bisogno di un garage nel quale ripararla per la notte e durante la settimana, quando l’auto rimaneva quasi sempre ferma. L’auto, un bene prezioso che andava protetto in tutti i modi dai malintenzionati, l’auto che, di solito, si usava solo la domenica, per andare a fare visita ai parenti più lontani in campagna, con mia madre che gli faceva da navigatore, avvertendolo per tempo delle svolte e anche delle fermate agli stop e ai semafori. Il custode del garage era proprio quell’uomo, a guardarlo in viso non si indovinava il gran dolore che doveva portarsi dentro e addosso, il viso di un uomo sereno. Il sorriso con cui accolse mio padre diceva già tutto, il silenzio tra loro diventava più eloquente di qualunque discorso, come l’abbraccio che si scambiarono, quasi desiderassero accertarsi di essere ancora vivi e di essere lì.
Il racconto, come il caffè, anche per oggi è terminato. Mio padre solleva la tazzina alla bocca e vuota le ultime gocce rimaste di quell’unico caffè della giornata, al posto dei tanti bevuti in tempi in cui quel caffè d’Africa era un’abitudine per continuare a vivere.

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IL SILENZIO DEI PAZIENTI

Deve essere molto difficile per un medico restare in silenzio, mentre esegue un esame su un paziente e, successivamente, mentre compila il referto e la diagnosi. Deve essere davvero difficile resistere alla tentazione di lasciarsi sfuggire una frase, una parola, una sillaba, mentre il paziente è in impaziente attesa del responso. Immagino quale durissimo tirocinio avrà dovuto sostenere, lui che al bar con gli amici, in famiglia, negli incontro con i colleghi sarà senz’altro un gradevole e apprezzato conversatore. Immagino quali e quanti esami avrà dovuto inserire nel suo curricolo professionale e specialistico per apprendere le più moderne tecniche dell’afasia. Anni e anni di dura esperienza per raggiungere uno stato della mente molto prossimo alla trance. Ma forse c’è un’altra spiegazione possibile: il medico teme di lasciarsi sfuggire qualche segreto professionale che, una volta entrato in possesso del paziente, rischierebbe di esautorarlo dalle sue funzioni. D’altra parte, anche gli sciamani e gli stregoni, dai quali i moderni medici, volenti o nolenti, discendono, trasmettevano il loro sapere esclusivamente a coloro che erano destinati a prendere il loro posto in un qualche futuro.

Vorrei tranquillizzare i medici: anche se dovessi carpire il più piccolo dei loro segreti, prometto di non divulgarlo. Lo terrò per me e ne farò il migliore uso possibile, vale a dire nessuno. Quanto ho detto finora è solo per mantenere le mie considerazioni su un piano scherzoso e benevolo. Ma c’è qualcos’altro che temo, il medico non vuole perdere tempo a parlare con uno che, tanto, non capirebbe niente di quello che dice. Capisco, in questo momento, le ragioni dei tanti che preferiscono il fai-da-te piuttosto che consultare un medico, in ogni caso, alla fine, ne saprebbero quanto prima. Ammetto di pensare male, ma in questi casi, oltre a commettere un peccato, si indovina sempre. Vorrei, se possibile, ancora una volta tranquillizzare il medico: capisco l’italiano. Conosco di questa lingua quel tanto che basta a comprendere termini di uso comune come posologia, diagnosi, terapia e prognosi. Il monologo, qualcosa che deve temere più di qualunque altro al mondo, è pertanto scongiurato; potremo conversare amabilmente del mio stato di salute e, soprattutto, ottemperare all’obbligo da parte sua di informare il paziente. Se e quando riuscirà a rompere la ferrea regola del silenzio che si è imposto, potrà rendersi conto perfino del potere terapeutico della parola e di quello quasi taumaturgico di un sorriso e di una stretta di mano.

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Abitare il deserto

Abitare_il_desertoLetture dal volume

Abitare il deserto

Venerdì 2 settembre ore 21
giardino del Museo San Rocco
Fusignano

Testi di:
Yari Bernasconi, Luigi Filippelli, Maddalena Lotter, Franca Mancinelli, Jacopo Narros,
Bernardo Pacini, Jacopo Ramonda, Damiano Sinfonico, Orso Jacopo Tosco.

 

 

 

Inaugurazione della mostra

sabato 3 settembre ore 11
Museo San Rocco
Fusignano

 

Fotografie di:
Fabrizio Albertini, Nicola Baldazzi, Davide Baldrati, Marina Caneve, Francesca Gardini,
Richard Max Gavrich, Massao Mascaro, Domingo Milella, Mohammadreza Mirzaei, Riccardo Muzzi,
Francesco Neri, Mattia Parodi, Luca Piras, Giacomo Pulcinelli, Piergiorgio Sorgetti,
Giacomo Streliotto, Matteo Vandelli, Xiaoxiao Xu.

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Concorso letterario nazionale InediTO

InediTO

E’ uscito il bando della XIV edizione del concorso letterario nazionale InediTO – Premio Colline di Torino 2015, organizzato dall’Associazione culturale Il Camaleonte di Chieri (TO), inserito nell’ambito della manifestazione Il Maggio dei libri promossa dal Centro per il Libro e la Lettura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che scadrà il 31 gennaio 2015. Il Premio, presieduto dal poeta Davide Rondoni, è diventato un punto di riferimento in Italia tra i concorsi per opere inedite, e si pone l’obiettivo di scoprire e promuovere nuovi autori attraverso sezioni dedicate alla narrativa, alla poesia, al teatro, al cinema e alla musica, dando la possibilità ai vincitori delle sezioni Narrativa-Romanzo e Poesia, grazie a un ricco montepremi, di pubblicare l’opera, confermandosi sempre di più quale concorso talent scout e traghettatore verso il mondo dell’editoria.

InediTO avrà da quest’anno per la prima volta il patrocinio della Città di Torino, della Città Metropolitana di Torino e di ben 10 comuni delle Colline di Torino, mentre ottiene da diverse edizioni la sponsorizzazione di Aurora Penne per il premio speciale InediTO Young ad un autore minorenne promettente, la partnership con il M.E.I. (Meeting delle Etichette Indipendenti) di Faenza e con la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura di Torino attraverso l’inserimento nelle iniziative del Salone OFF, ed è gemellato con il concorso letterario U.G.I. (Unione Genitori Italiani contro il tumore dei bambini a cui sarà devoluto parte del ricavato delle iscrizioni).

La premiazione si terrà a maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino.

 

Scarica il bando

 

 

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