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Movimento pacifista più che mai in crescita negli Stati Uniti

Foto di codepinkalert

di Daniela Bezzi

Nell’anniversario del 24 febbraio, con le tantissime manifestazioni che in Italia e in tutta Europa, da Londra a Palermo, hanno riempito le piazze nel week end appena trascorso, ecco la consolazione di veder rinascere il movimento pacifista, e persino negli Stati Uniti! Siamo lontani dalle manifestazioni oceaniche che il 15 febbraio del 2003 cercarono vanamente di impedire l’invasione dell’Iraq, nonostante la definizione di ‘seconda potenza mondiale’. Ma un dato che i nostri governi non potranno ignorare è il declinante consenso per l’ulteriore invio di armi in Ucraina, che oltre a sottrarre risorse a tutti i malandati welfare del ‘blocco’ occidentale, avrebbe il solo effetto di prolungare il conflitto all’infinito (che però è quello che l’Industria delle Armi convintamente vuole).

E insomma, contrariamente a quanto gli stanchi dibattiti nei talk show vorrebbero farci credere, il sentiment è proprio cambiato: ecco levarsi sempre più forte e chiara la domanda di pace, come non hanno potuto fare a meno di registrare le foto che sono circolate in questi giorni dalla quantità di partecipatissime iniziative anti-war che si sono verificate in tutta Europa, e per l’appunto, anche oltreoceano. Perché oltre a superare tutte le altre potenze occidentali in termini di aiuti militari e finanziari all’Ucraina (stanziamenti pari a 73 miliardi di euro, la cifra più alta mai spesa dalla Casa Bianca) il più riluttante a prendere in considerazione qualsiasi soluzione negoziata è proprio l’entourage di Mr Biden.

Già da domenica 19 febbraio, in anticipo su tutte le città del blocco occidentale, ecco quella partecipatissima manifestazione intitolata Rabbia contro la macchina da guerra che ha coinvolto decine di organizzazioni diverse e migliaia di manifestanti a Washington DC (ne abbiamo dato notizia qui) per reiterare tre fondamentali richieste:

  • stop agli aiuti militari all’Ucraina in favore di ben più urgenti priorità per il popolo americano
  • massimo impegno sul piano diplomatico per l’immediato cessate il fuoco preliminare a seri negoziati di pace
  • e (udite udite) quanto mai urgente e necessario smantellamento della NATO, considerata (con una chiarezza non sempre altrettanto esplicita presso alcuni pacifisti di casa nostra) tra i principali ostacoli per un mondo di pace.

Tra i vari interventi dal palco, è stato particolarmente applaudito quello di Chris Hedges, giornalista pluripremiato, autore di una quantità di libri contro la guerra, che tra le altre cose ha elencato uno per uno i vari istituti, think thank, produttori di armi e di morte, accomunati dagli eterni interessi guerrafondai che hanno creato i presupposti anche di questo conflitto.

Ed ecco che anche lo scorso fine settimana, a partire da venerdì 24 febbraio, tutte le principali città degli Stati Uniti sono state teatro di manifestazioni promosse dalla galassia del movimento pacifista americano: New York, Boston, San Francisco, Philadelphia, e tantissime altre, si sono divise le piazze tra quanti manifestavano in sostegno dell’Ucraina invasa dalla Russia, e quanti reclamavano l’immediato cessate il fuoco da parte di entrambi gli attori di una guerra per procura che gli Stati Uniti non vedevano l’ora di ingaggiare con la Russia. Ennesimo episodio di quella guerra infinita che da decenni vede impegnato l’Impero Americano per alimentare appunto la War Machine e che subito dopo la Russia avrebbe come target la Cina.

Non a caso l’impegno di questo risorto movimento pacifista americano non si è esaurito con lo scorso week end, ma anzi sta registrando un crescendo di iniziative, sia in presenza che on line, in vista della prossima e ancor più importante convocazione del 18 marzo, per commemorare appunto il ventennale dell’invasione in Iraq, con una manifestazione che si preannuncia più partecipata che mai a Washington DC.

E basta andare sul sito di United National Antiwar Coalition, o anche di Answer Coalition oppure di Veterans for PeaceWorld Beyond WarThe People’s Forum, per non dire di quel formidabile movimento di donne (però non esclusivamente femminista) che è CodePink (alias Medea Benjamin, Marcy Winograd, Jodie Evans e tantissime altre attiviste a tutto campo) per capire che sarà una manifestazione ancora più forte e significativa di quella del 19 febbraio, con un fittissimo calendario di eventi preparatori, una quantità di bus che si stanno organizzando da ogni Stato della federazione, un programma di webinar di altissimo livello e contributi che sarebbero di grande interesse anche per noi e che per quanto possibile cercheremo di seguire anche su Pressenza.

Per esempio questa settimana è prevista una serie di interventi on line da parte di giornalisti e autori di indubbio valore con l’obiettivo di contrastare o come minimo indagare e se possibile decostruire la propaganda dei media mainstream, circa le superiori “ragioni” della proxy war con la Russia. Ieri sera c’era il giornalista franco-russo-americano Vladimir Posner, con un’accurata ricostruzione degli eventi che hanno preceduto il conflitto in corso, al punto da ribaltare quello scenario di pace che si era creato con la caduta del muro trent’anni fa, con l’attuale guerra senza possibilità di vittoria (come viene ormai definita) per cui guerra infinita.

Questa sera sarà la volta di Daniel Ellsberg in tema di Minaccia Nucleare e così via fino a venerdì sera, con le conclusioni di Medea Benjamin e Marcy Winograd, che proveranno a delineare possibili Percorsi di pace. E anche per l’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, il tema delle manifestazioni convocate da CodePink non potrà limitarsi alla violenza di genere, ma denuncerà in tutti i possibili slogan la violenza senza precedenti che il conflitto in corso già rappresenta per le popolazioni colpite e per tutto il genere umano, se dovesse degenerare (ipotesi tutt’altro che peregrina) in olocausto nucleare.

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 28 febbraio 2023

DOMENICA

di Sergio Tardetti

Potrebbe sembrare un giorno qualunque, se non fosse per la pretesa di volersi divertire ad ogni costo. Sole o pioggia, estate o inverno, la domenica è fatta così, per divertirsi. Finita la semplice intenzione di riposare, si va a cercare intorno una qualunque occasione di svago, vera o presunta che sia. Partono le carovane di auto che si snodano in lunghe code su per i tornanti montani, che si accavallano a grandi ondate sulle autostrade e superstrade dirette al mare, che si spandono a grandi macchie roventi nei parcheggi, consentiti e non, dislocati intorno alle località dove tutti vanno, appunto, per divertirsi. A questo punto verrebbe da pensare che ormai il più sia fatto e che, dopo tanto strazio e sudore, la vita finalmente possa diventare davvero un divertimento. L’illusione, però, dura al massimo un paio di minuti, il tempo di scendere dall’auto, guardarsi intorno e cominciare a cercare. Cosa si cerca? Via, lo sappiamo tutti! Un posto tranquillo, per riposarsi dalle fatiche del viaggio e illudersi di essere arrivati fuori dal mondo. Invece, sembra che tutto il mondo si sia dato appuntamento proprio qui, perché la gente sembra preferire lo stare in mezzo ad altra gente piuttosto che da sola. Da soli cosa si può fare, se non si è abituati alla solitudine? Così, per evitare di essere assaliti da quel nodo alla gola che alcuni chiamano tristezza, altri invece ansia, si preferisce tornare ad imprecare per l’impossibilità di trovare un parcheggio, per la difficoltà di sedere a tavola per un pasto di qualunque genere, per l’eccessivo chiasso che fa tutta quella gente che, non si sa bene per quale motivo, ha deciso di venirti dietro in quell’unico posto tranquillo che frequentavi da quando eri bambino. Dimenticando, però, che quando tu eri bambino, tutta quella gente non poteva arrivare fino a lì, a quel posto segreto e nascosto che solo tu e pochi altri conoscevate. Adesso non ci sono più posti segreti e tranquilli, nemmeno in cima alle montagne del Nepal, perché tutti vogliono andarci, anche chi non può o non potrebbe. Dove sono andate a finire quelle belle domeniche d’ozio? Sdraiati sull’erba tenera di un prato, o su un asciugamano appena umido, steso sulla sabbia rovente, ce ne stavamo immobili, a volte anche per ore intere, a osservare le nuvole che si fermavano sopra di noi, come a volerci osservare a loro volta. E quel loro continuo mutare di forme, quanto ci affascinava? Da bambini giocavamo a dare un nome a quelle forme, e ridevamo ogni volta che qualcuno di noi trovava un nome strano per qualche strana nuvola. Oggi, chi si ferma più a guardare il cielo? Sta lì da così tanto tempo che sembra scontato che continui a rimanerci e che lo troveremo identico anche il giorno dopo, e due giorni dopo, e chissà ancora per quanto. Almeno la domenica servisse a questo, a riappacificarsi con l’universo! Macché, niente di tutto questo. Impegnati come siamo a guardare dove mettere i piedi, continuiamo a fissare la terra, lasciando al cielo il suo unico compito, quello di esserci. Poi, ad un tratto, quasi senza preavviso, il cielo comincia a scurirsi, l’aria si fa più fresca, perfino più fredda, e così tutti, ma proprio tutti, decidiamo di risalire nelle nostre auto e, dopo esserci finalmente districati dal groviglio del traffico, riprendiamo la strada verso casa, provando a capire nel frattempo se, almeno quel giorno, ci siamo veramente divertiti. Perché domani è lunedì.

© Sergio Tardetti 2023

Foto di Nile da Pixabay

Da Washington DC si leva più forte e partecipata che mai la richiesta di pace

di Daniela Bezzi

Enorme, partecipatissima, coloratissima, sventolante delle bandiere e striscioni e messaggi più diversi: il movimento pacifista americano non ha aspettato la data del 24 febbraio, anniversario dell’invasione russa in Ucraina, per mobilitarsi. E basta passare qualche ora nel surfing tra le varie piattaforme sul web, e poi sui vari canali social, per capire che già da giorni (sebbene le notizie che riceviamo dagli Stati Uniti siano tutt’altre) è tutto un fervore di riunioni preparatorie o vere e proprie convocazioni.
Ed ecco infatti che già domenica 19 febbraio si sono radunati in migliaia per le strade di Washington, per protestare contro la politica guerrafondaia del governo USA, per la continua fornitura di armi dell’amministrazione Biden all’Ucraina e (udite udite) per mettere fine alla NATO.
I vari cortei si sono poi uniti alla manifestazione più importante numericamente, che si è tenuta di fronte al Lincoln Memorial, con il combattivo slogan Rage against the War Machine, ovvero Rabbia contro la macchina della guerra. Armati in realtà di pacifici cartelli e striscioni i manifestanti hanno ribadito in tutti i modi possibili l’urgenza di colloqui di pace e la necessità di mettere fine all’invio di aiuti finanziari e militari in Ucraina, considerata anche l’emergenza sociale che da tempo affligge un crescente numero di americani.

E prendendo spunto dal discusso ma indubbiamente esplosivo scoop pubblicato l’8 febbraio scorso dal pluripremiato giornalista Seymour Hersh circa il diretto coinvolgimento anzi direzione della NATO nel sabotaggio del gasdotto Nordstream 1 e 2 (che assicurava alla Germania e a tutti noi in Europa forniture di gas russo a condizioni straordinariamente convenienti, ma sgradite agli americani), molti slogan hanno scandito anche l’urgenza di mettere fine alla cosiddetta alleanza atlantica, ritenuta responsabile di troppe guerre e relativi crimini in tutto il mondo.

E insomma sarà pur vero che la stampa mainstream americana ha fatto di tutto per ignorare e se possibile denigrare persino una grande firma della statura di Seymour Hersh (come documenta una puntuale analisi su The Mint Press News). Ma così non è stato sul web, dove il suo dettagliato articolo ha avuto milioni di visualizzazioni in tutte le lingue del mondo, e dove le critiche e la prevedibile polarizzazione delle posizioni hanno sollecitato una quantità di interviste e complessivamente favorito la diffusione della notizia. E se in Europa, inspiegabilmente, non si sono registrate reazioni di nessun tipo, neppure tra la componente Verde del Parlamento tedesco rispetto a quello che (al di là di ogni considerazione) è stato anche un enorme disastro ambientale (300.000 tonnellate di metano disperse in un colpo solo nelle acque del Mar Baltico non sono uno scherzo), all’interno della multicolore galassia pacifista US ecco rafforzarsi ogni giorno di più l’indignazione per il danno, anzi crimine di guerra obiettivamente compiuto nei confronti di un governo sovrano come la Germania e contro quell’Europa di cui gli Stati Uniti sarebbero alleati!

All’inchiesta di Hersh ha fatto riferimento in particolare Dennis Kucinich, ex membro del Congresso nelle fila del Partito Democratico e sindaco di Cleveland, sottolineando che “il più grande talento della Casa Bianca è fabbricare disinformazione per meglio manipolare i media e creare divisione nell’opinione pubblica con le armi dell’odio e della paura, diffondendo ogni genere di notizie allarmistiche, che sono l’opposto di ogni democrazia.” E nel sollecitare al più presto una Commissione di Inchiesta che possa fare luce su quanto denunciato da Hersh, Kucinich ha promesso a nome dei manifestanti che ai responsabili non verrà data tregua. “Non ci fermeremo fino a che non saranno rivelati i nomi di chi ha commesso questo ennesimo crimine di guerra.”

Prima e dopo di lui hanno parlato Tulsi Gabbard, Ann Wright, Ron Paul e i vari portavoce delle tantissime organizzazioni che hanno aderito alla manifestazione, da Veterans for Peace e Bring our Troops Home, a TNT RadioWorld Beyond War, Actions4AssangeAntiWar.com e molte altre. Promossa dal Libertarian Party e dal People’s Party, l’iniziativa era stata concepita infatti all’insegna della massima convergenza di posizioni, e aperta al maggior numero di rappresentanze della società civile, unite dal comune obiettivo di mettere fine all’interventismo e allo stato di guerra permanente di cui gli Stati Uniti sono in effetti i principali responsabili o in qualche modo protagonisti dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. E infatti dai filmati che si vedevano ieri sui canali social spiccava in particolare la varietà dei messaggi, sulla soleggiata spianata del Lincoln Memorial: gli striscioni di Abbasso NATO accanto a quelli di Free Julian Assange, un grande poster con il benevolo sorriso di Papa Francesco accanto alla bandiera rossa dei socialisti e così via.

Tra gli interventi più applauditi, quello di Chris Hedges, anche lui giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri contro la guerra, oltre a servire come Ministro Presbiteriano. E non poteva mancare in chiusura di manifestazione un messaggio a distanza di Roger Waters, come sempre molto personale e coinvolgente nel ricordo della madre che quando era ragazzino gli raccomandava di “leggere, leggere, leggere, per imparare ad ascoltare le ragioni di chi magari non la pensa come vorremmo noi, ecc ecc…”. Decisamente da vedere questo messaggio di Roger Waters soprattutto dove si rivolge al Presidente Biden pregandolo di “fare la cosa giusta, do the right thing… interrompi le forniture di armi per una guerra che ha già causato fin troppi morti e che sta inesorabilmente precipitando nell’Armageddon nucleare…”

Niente da fare. Nelle stesse ore in cui di fronte alla Casa Bianca si levava così forte e chiara la richiesta di pace, Joe Biden si preparava a volare verso Kiev per la visita a sorpresa al protegè Zelensky: per assicurare a lui (e a tutti noi) che questa ennesima ‘guerra di libertà’ andrà avanti oltranza e whatever it takes.
Una cosa però è certa: la rinascita del movimento pacifista americano, come molti commentatori hanno detto a caldo e come non mancheremo di osservare nei prossimi giorni, con le tante manifestazioni previste in tutte le più importanti città degli Stati Uniti, New York, Boston, San Francisco, Filadelfia, Madison, Santa Fè andando verso il 24 febbraio sarà una marea. E speriamo che come già è successo per la guerra in Vietnam, la marea abbia ragione della War Machine.

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 21 febbraio 2023

Foto di Daniel da Pixabay

E’ tempo di dispiegare gli strumenti della ragione anziché le armi della follia

Note su un anno di guerra in Ucraina e nelle nostre menti, in dialogo con Edgar Morin

di Pasquale Pugliese

Già in tempi cosiddetti normali, è predominante
la conoscenza compartimentata e decontestualizzata.
Quando imperversa l’isteria fanatica o l’isteria di guerra,
essa diventa sovrana e provoca l’odio di ogni conoscenza complessa
e di ogni contestualizzazione.

(Edgar Morin, Di guerra in guerra)

Per fare riflessioni dotate di senso in occasione di questo primo anno dall’invasione russa dell’Ucraina, tra le tante pubblicazioni uscite, suggerisco anche la lettura di un libretto tanto denso quanto essenziale, ossia di “Di guerra in guerra” (Raffaello Cortina, 2023), che raccoglie le riflessioni di Edgar Morin sulla guerra, il quale nella sua lunga vita (101 anni e una chiarezza di analisi e visione inarrivabili dalla maggior parte degli “analisti” che da dodici mesi ripetono su tutti i media il mantra del circolo vizioso più armi-più guerra-più armi) ha partecipato attivamente alla resistenza contro il nazifascismo ed ha osservato con sguardo lucido le tante guerre che da allora hanno tragicamente contrassegnato il mondo contemporaneo. E’ una lettura che aiuta a uscire da alcuni dei principali vizi interpretativi della nuova guerra in corso in Europa, che continuano a determinare irresponsabili scelte politiche e militari da parte dei governi europei e statunitense per rispondere all’ingiustificabile invasione russa: l’isteria di guerra, il presentismo decontestualizzante, l’illusione della vittoria. Sono questioni che più volte abbiamo messo a fuoco nei mesi passati – dall’interno del movimento per la pace – ma che è necessario rilanciare, anche con l’autorevole legittimazione fornita dal grande filosofo francese.

L’isteria di guerra ha come scopo la necessità di instillare la guerra nelle menti, ha come effetto la semina dell’odio per la parte avversa, necessaria e legittimare l’uso crescente della violenza contro i “nemici” passando anche attraverso l’identificazione dei popoli con i rispettivi governi. E’ la caratteristica culturale che attraversa tutti i fronti di tutte le guerre ed è alimentata dalle rispettive propagande di guerra. Anche da quella dalla parte giusta del conflitto: Morin ricorda, a questo proposito, i bombardamenti a tappeto degli Alleati sulle città tedesche, per esempio su Dresda rasa al suolo, e le atomiche USA su Hiroshima e Nagasaki, che colpivano scientemente la popolazione civile, come “crimini di guerra sistemici”, prima legittimati dalla propaganda e poi rimossi dalla coscienza dei vincitori. “Ogni guerra, per sua natura” – scrive Morin – “per l’isteria alimentata dai governanti e dai media, per la propaganda unilaterale e spesso menzognera, comporta una criminalità che va al di là dell’azione strettamente militare”. E’ quanto rilevava per esempio il politico pacifista inglese Arthur Ponsonby dopo la prima guerra mondiale analizzando le “bugie in tempo di guerra” diffuse dalla propaganda di tutti i governi in conflitto. La storica belga Anne Morelli ha recuperato quel testo e ne ha fatto un una verifica alla luce delle guerre successive, fino all’aggressione militare USA dell’Iraq del 2003, nelle quali tutti i “Principi elementari della propaganda di guerra” (Ediesse, 2005) risultano confermati, ripetuti e adattati ai diversi contesti, per convincere le opinioni pubbliche tendenzialmente pacifiste dei rispettivi paesi (come quella italiana nella guerra in corso). Le guerre hanno degli enormi costi sia umani che economici e per esse bisogna essere disponibili a uccidere, a morire e ad aumentare le spese militari a discapito di quelle civili e sociali: per questo è necessario mettere in campo gli specifici meccanismi comunicativi di persuasione, che si ripropongono, guerra dopo guerra, attraverso sistemi mediatici sempre più sofisticati, pervasivi e persuasivi. Ecco l’elenco dei dieci principi elementari di propaganda di guerra, riproposti ossessivamente anche nell’ultimo anno – oltre che sui media russi – con le relative variazioni sul tema, anche sui democratici media occidentali: non siamo noi a volere la guerra (ma siamo costretti a prepararla e, se necessario, a farla); i nemici sono i soli responsabili della guerra; il nemico ha l’aspetto del demonio o del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; il nemico usa armi illegali (noi rispettiamo le regole); le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; gli intellettuali, gli artisti (i giornalisti) sostengono la nostra causa; la nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); quelli che mettono in dubbio la propaganda sono dei traditori. Quante volte abbiamo sentito – e sentiamo ancora – queste formule, diversamente e ripetutamente declinate, invece di analisi capaci di entrare ed affrontare con consapevolezza e responsabilità l’estrema complessità e pericolosità della tragedia della guerra in corso?

Il presentismo, l’assenza di contestualizzazione e di visione prospettica, narra la guerra come se si svolgesse attraverso istantanee che non hanno né con-cause passate né con-seguenze future: un eterno presente, rispetto al quale si disconoscono anche le più elementari regole del pensiero complesso, dall’equilibrio delicato del sistema delle relazioni internazionali – “il battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un uragano in Texas” (Edward Lorenz) – alle dinamiche di escalation dei conflitti – “condotta delle operazioni belliche caratterizzata da un aumento progressivo e graduale nell’impiego delle armi e nell’estenione delle misure militari, sotto il controllo dell’autorità politica” (enciclopedia Treccani). “La guerra fra l’invasore e l’invaso” – annota ancora Edgar Morin – “non si può isolare dai suoi antecedenti e dai suoi contesti storici e geopolitici, né, a fortiori, dalle relazioni tra Stati Uniti e Russia”. Per comprendere le ragioni di quanto avvenuto a partire dal 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina e in questo anno che ci separa da quella data – consapevoli che “è una debolezza intellettuale estremamente diffusa pensare che la spiegazione sia una giustificazione” (Edgar Morin, Twitter, 21 marzo 2022)  è necessario tornare indietro non solo al 2014, quando avvenne la cosiddetta rivoluzione del Maidan (o colpo di stato, a seconda della prospettiva), con le conseguenti occupazione della Crimea da parte della Russia e ribellione e repressione delle repubbliche separatiste russofone e russofile da parte del governo ucraino, ma ancora indietro all’implosione del sistema di relazioni internazionali con la fine della “guerra fredda”, di cui il conflitto in corso è un ulteriore effetto. Quando – grazie alla saldatura dei movimenti pacifisti occidentali con i movimenti per la democrazia dei paesi dell’Est e il disarmo unilaterale voluto dal presidente Michail Gorbacëv (morto, sostanzialmente dimenticato da tutti, sei mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina) – furono abbattuti muro di Berlino e “cortina di ferro” ed ebbe termine la lunga guerra fredda, ma non fu costituto quell’ordine globale fondato sulla cooperazione e l’interdipendenza egualitaria e pacifica che Gorbacëv aveva teorizzato e attivamente promosso, per un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali. Le conseguenze della fine della guerra fredda, nonostante generassero enormi rivolgimenti che hanno dato un nuovo assetto all’Europa, non essendo esito di una vittoria militare – anzi, sfuggendo al paradigma bellico come motore della storia – non sono state sancite da alcuna Conferenza di pace ma solo da accordi verbali, man mano, nel tempo disattesi. Il 6 febbraio del 1992, già premio Nobel per la pace ma ormai estromesso dal potere del suo paese, su La Stampa di Torino Gorbacëv scriverà: “Il presidente George Bush ha ripetuto che gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda. Vorrei rispondere così: rimanendo per anni nel clima della guerra fredda, tutti hanno perduto. E oggi, quando il mondo ha saputo liberarsi di quel clima, tutti hanno vinto”. E invece le speranze di Gorbacëv sono state tradite e la fine di quella guerra non ha costruito visioni e strategie di pace ma una narrazione di “vittoria” di una parte che ha costruito strategie di nuove guerre, calde e fredde: “di fatto, negli anni Novanta cominciò una dialettica infernale in cui ciascuno dei due partner si sentì minacciato e si fece minaccioso”, sintetizza Morin. E, nel nuovo secolo, dopo le aggressioni USA di Afghanistan e Iraq siamo all’aggressione russa dell’Ucraina.n questo quadro l’illusione di poter perseguire la “vittoria” militare, anziché la pace, all’interno di un contesto dominato dall’arsenale nucleare dei “due imperialismi” (Morin) che si fronteggiano in Ucraina, porta con sé la fine della ragione oltre che potenzialmente dell’umanità. ”Nel 1945 è iniziata una nuova era con la minaccia di morte dell’umanità” – scrive Morin – “minaccia che è continuamente accresciuta dalla proliferazione di armi nucleari, dalla loro sofisticazione e dal loro possibile utilizzo qualora l’escalation continui ad aggravare e ad amplificare la guerra d’Ucraina”. Gravissimo rischio che stiamo correndo come mai prima d’ora, del quale siamo stati avvisati anche poche settimane fa dagli scienziati atomici che hanno posizionato le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse a soli 90 secondi dalla mezzanotte nucleare – mentre nella fase del disarmo voluto da Gorbacëv avevamo raggiunto la maggiore distanza di sicurezza mai rilevata nell’epoca nucleare – e pochi giorni fa dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres: “siamo al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare che potrebbe iniziare per caso o per scelta. Il cosiddetto uso “tattico” delle armi nucleari è assurdo. I paesi dotati di armi nucleari devono rinunciare all’uso di queste armi irragionevoli, sempre e ovunque” (Twitter, 8 febbraio 2023). Invece la rinuncia alle armi nucleari, come la rinuncia all’uso della guerra per la “risoluzione delle controversie internazionali” – sancita solennemente dalla Costituzione italiana – come la ricerca negoziale della pace sono stati banditi dal discorso pubblico sulla guerra che, ormai, parla esclusivamente di “vittoria”. Ossia dell’illusione di vittoria (perfino il Capo di stato maggiore statunitense, generale Mark Milley ha ammesso che “nessuno può vincere la guerra”) rincorrendo la quale, attraverso la continua intensificazione, da entrambe le parti, dell’invio e dell’uso di armi sempre più distruttive, l’esito inevitabile sarà la sconfitta totale non solo di ucraini e russi, ma – almeno – di tutta l’Europa. “Più la guerra si aggrava, più la pace è difficile e più è urgente. Evitiamo una guerra mondiale. Sarebbe peggio della precedente”, conclude Edgar Morin. Per farlo, come indica la maggioranza dei cittadini italiani che ribadiscono – sondaggio dopo sondaggio – la contrarietà all’ingaggio militare del nostro paese, ignorati da quasi tutti i partiti che siedono in parlamento (con grave danno per la democrazia, come si è visto anche con il crollo di partecipazione alle ultime elezioni) è necessario attingere ai saperi della nonviolenza e dei facitori di pace. Quelli che da sempre indicano e praticano le vie alternative alla guerra per affrontare i conflitti. Dispiegando finalmente gli strumenti della ragione, anziché le armi della follia.

L’articolo è stato pubblicato sul sito di Pasquale Pugliese il 19 febbraio 2023

Foto di Natalie da Pixabay 

“Con le esercitazioni Nato in Sardegna è in atto un massacro”

di Silvia Tuzzi

Le forze Nato, con la complicità attiva del Ministero della Difesa, stanno compiendo un vero e proprio massacro in Sardegna (e non solo), dove militari e civili si ammalano e muoiono a causa dell’uranio impoverito. Lo sostiene l’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito, secondo cui le bonifiche previste non hanno lo scopo di rendere più salubre l’ambiente ma solo quello di rendere possibili nuove esercitazioni.

Sardegna – L’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito da diversi anni si impegna nella lotta per la verità e la giustizia per tutti i militari che sono stati contaminati dall’uranio impoverito e da metalli pesanti durante le cosiddette e surrettizie missioni umanitarie all’estero, ma anche a seguito dell’addestramento nei poligoni di guerra Nato, sul suolo italiano, come denuncia anche Emanuele Lepore portavoce dell’associazione.

Da chi è composta l’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito?
Molti degli associati sono sardi, padri, madri, mogli, sorelle o anche fratelli di militari che si sono addestrati nei poligoni Nato in Sardegna e che sono deceduti o sono tuttora gravemente malati.

La lotta dell’Associazione è contro i poteri forti come la Nato.
La lotta dell’Associazione si lega alla lotta contro la Nato: tutti noi abbiamo interesse affinché i poligoni militari Nato in Sardegna vengano chiusi e bonificati, affinché nessuno più venga contaminato dall’inquinamento bellico dovuto ai giochi di guerra – o meglio alle nefandezze belliche – dove gli stessi militari spesso di truppa, e non i generali ai vertici, vengono utilizzati come carne da macello e bassa manovalanza e sacrificabile. Sottomessi e sacrificati al potere.

E l’interesse del Ministero della Difesa?
Ha stupito l’interesse del Ministero della Difesa nella bonifica della penisola Delta di Capo Teulada, penisola duramente bombardata con ogni sorta di armamenti e di cui stranamente sono state rese pubbliche liste molto vaghe e sintetiche.

La Penisola Delta Poligono di Capo Teulada, che sulla carta risulta inserita in una zona naturalistica protetta, è in realtà l’emblema della devastazione dovuta alle esercitazioni militari: in settant’anni di bombardamenti è stata colpita da milioni di proiettili, missili e razzi, tanto da essere dichiarata non bonificabile e interdetta agli stessi militari.
Stupisce, tra le altre problematiche, che l’interesse del Ministero della Difesa avvenga in un momento in cui alcuni ufficiali delle forze armate italiane sono sotto processo proprio per il disastro ambientale causato dall’esercitazione che qualcuno vorrebbe dare solo per presunta, nonostante la quarta commissione parlamentare di inchiesta sui danni da uranio impoverito, presieduta da Giampiero Scanu, abbia accertato a suo tempo le criticità ambientali dei poligoni di guerra Nato in Sardegna e nonostante lo stesso ministero negli anni abbia dichiarato imbonificabile proprio il poligono di capo Teulada.

Parliamo di Capo Teulada e l’innalzamento della soglia degli inquinanti.
Capo Teulada è un sito talmente inquinato che non è bastato l’innalzamento delle soglie di metalli pesanti – centuplicate nel 2014 con il via libera del disegno di legge “competitività” proposto dal governo Renzi – per far risultare accettabile il livello di inquinamento anche da un punto di vista burocratico.
Nel dispositivo visionabile sul sito della regione autonoma Sardegna si legge che la finalità dell’attività di rimozione dei residuati da esercitazione è quella di ripristinare le condizioni del poligono Delta per consentire il normale transito in sicurezza e consentire l’utilizzo futuro dello stesso quale zona bersaglio per “arrivo colpi”, che sarà delimitata con materiale ecosostenibile e collocata all’interno di un sito privo di essenze arboree pregiate. In tale quadro si intende avviare con l’impiego di assetti specialistici le attività necessarie alla rimozione di tutti i residuati da esercitazione, fino alla profondità di un metro presenti nell’area in questione e classificabili e smaltibili a norma di legge come rifiuti.

A nome dell’Associazione delle vittime occorre approntare bonifiche valide e serie.
Questo significa che l’area deve essere resa agibile a nuove esercitazioni? Poniamo questi quesiti da parte di tutte le vittime e i malati oncologici, che oltre trecento sentenze hanno accertato correlati alla contaminazione da metalli pesanti utilizzati in vari tipi di munizionamento: l’uranio impoverito, il Torio 232 e gli altri agenti si rilevano solo da un metro di profondità? L’acqua e l’aria non sono oggetto di esame? Le tonnellate di nanopolveri, residui delle esplosioni che viaggiano per chilometri trasportati dal vento ,sono considerate residuato da esercitazione?
E ancora: l’uranio impoverito e altri metalli pesanti sono considerati smistabili come rifiuti? Se hanno intenzione di bonificare come è stato fatto fare ai militari italiani in Bosnia, Serbia, Afghanistan, Iraq allora conosciamo bene la metodologia, ma circa ottomila malati di tumore e quattrocento morti stanno a testimoniare che tali bonifiche non sono servite a molto, anzi.

La popolazione serba può essere considerata vittima della Nato?
La popolazione serba – che sconta un aumento dell’incidenza tumorale da quando la Nato nel 1999 ha scaricato sul suo paese quindici tonnellate di uranio impoverito – non è molto convinta delle bonifiche che sono state effettuate con la stessa metodologia ripresa dai manuali di bonifica delle forze armate.

Capo Teulada vittima dei poteri forti?
L’operazione di bonifica del poligono di capo Teulada serve a un doppio scopo: il primo è riprendere le esercitazioni rese impossibili dagli inerti inesplosi. Non è un problema di salute pubblica, di recupero di un territorio, ma solo di garantire la continuità delle esercitazioni Nato e possibilità di scaricare la peggiore immondizia, che spesso viene chiamata anche “armi convenzionali”.
In secondo luogo, è un’operazione utile a confondere le acque e dare elementi così contrastanti di valutazione utili a far assolvere in qualche modo gli ufficiali coinvolti nel processo in corso proprio sul disastro ambientale di Teulada, in maniera simile a come hanno fatto con i rilevamenti e le indagini discutibili per dare elementi probatori contrastanti nel processo sui veleni di Quirra.

Sono quindi necessarie bonifiche vere e non fasulle con l’innalzamento dei livelli degli inquinanti.
Le bonifiche sono necessarie, ma devono essere quelle vere: tracciare i metalli pesanti dispersi nell’ambiente, attuare le misure necessarie per bonificarli, impedire che le nuove esercitazioni depositino ancora altri metalli pesanti prodotti da sempre più aggiornati e sofisticati armamenti, altamente distruttivi e inquinanti.
È necessario quindi vigilare sulle manovre che i poteri forti stanno portando avanti e cercare di imporre delle bonifiche reali, trasparenti, che siano controllate da organi esterni, dalle associazioni che si occupano del problema e che hanno chiara l’idea di cosa vuol dire risolvere una questione così complessa.

L’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito è per la pace e contro ogni guerra?
L’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito è al fianco della lotta contro la Nato, perché abbiamo un interesse comune: portare a termine il massacro che il Ministero della Difesa promuove a danni dei suoi stessi militari e della popolazione civile che vive e lavora nei pressi dei poligoni di guerra in Sardegna. La società civile e l’associazionismo sono disponibili quindi a compiere la strada necessaria e percorrere il cammino di pace e nonviolenza che possono portarci all’interdizione dei poligoni, alla loro reale bonifica e alla tutela della salute collettiva.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 10 febbraio 2023

La Foto è di Catalania da pixabay