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Imparare a pensare la speranza

Un capitolo di La speranza. In un tempo senza speranza. Edizioni il  Punto Rosso, 2023.

di John Holloway

Sperare è facile, ma spesso ha poca sostanza. Molto più difficile è pensare la speranza. È ciò che Bloch chiama una docta spes [1], una speranza ragionata e sorvegliata, una speranza compresa [2].
L’idea di docta spes è diretta contro il “pio desiderio”. Il pio desiderio non porta da nessuna parte. Rompe ogni connessione pratica tra soggetto e oggetto. “Non sarebbe bello se vivessimo in un mondo in cui i migranti non fossero ammucchiati dentro a un container come le sardine!”. Il pio desiderio non fa nulla per cambiare il mondo: al contrario, anestetizza.

Questo libro parla di speranza, non di un pio desiderio. Eppure, il pio desiderio è alle nostre spalle, uno spettro che non vogliamo vedere, ci sussurra ciò che non vogliamo sentire: cos’è tutta questa storia dell’anticapitalismo? Perché dici che un mondo diverso, un mondo di reciproco riconoscimento e amore, è possibile quando sai che non lo è?
Guardati intorno, guarda il computer che stai usando, guarda i vestiti che indossi, pensa alla serie che ti stai godendo su Netflix, pensi davvero che si possa creare un mondo non capitalistico? Dedichi la tua vita a pensare alla teoria critica, una forma di pensiero che trae la sua pretesa di validità dalla possibilità di creare un mondo oltre il capitalismo, ma pensi davvero che sia possibile? Tu e i tuoi lettori non state sprecando le vostre vite in un pio desiderio? Nonostante tutta la tua raffinatezza teorica, nonostante tutte le tue frasi latine, non sei semplicemente perso in un mondo del “non sarebbe carino”? Una docta spes, una speranza pensante, ci costringe a confrontarci continuamente con lo spettro del Wishful Thinking. “Parli di creare un mondo diverso, un mondo non capitalistico: mostracelo allora, mostracelo allora!”. Come possiamo dimostrare che questo mondo che non-è-ancora è più che fantasia, più che un pio desiderio?

Una risposta è che non importa. Lottiamo non perché pensiamo di vincere, ma perché non possiamo accettare ciò che esiste. Gridare contro un sistema che ci disumanizza non ha bisogno di giustificazioni. È semplicemente un’espressione di ciò che intende essere la nostra umanità. Il nostro anticapitalismo si basa sugli orrori del sistema, non sulla fiducia che possiamo creare qualcos’altro. Le nostre lotte non sono un mezzo per un fine, sono una dignità, un rifiuto, che nasce dal profondo del nostro essere.

La lotta contro il sistema che ci sta uccidendo non ha bisogno di speranza per giustificarsi. Se una società annuncia che aprirà una miniera a cielo aperto in una comunità agricola e la gente si rende conto che ciò esaurirà e contaminerà l’approvvigionamento idrico, la base della loro agricoltura, allora è probabile che resistano, indipendentemente dal fatto che sperino di vincere la battaglia. Eppure una sorta di speranza è quasi sempre presente.

La speranza, dice Bloch, proprio all’inizio del suo capolavoro, “è innamorata del successo piuttosto che del fallimento” (1959/1985, 1). Eagleton, che non è un fan di Bloch, qualifica questa frase come una “affermazione inquietante” (2015, 107).

È inquietante, forse, nel senso che può condurre facilmente ad un opportunismo in cui la speranza del successo è usata per giustificare i mezzi usati per raggiungerlo. Suggerisce anche che può esserci una facile definizione di successo. La rivoluzione russa è stata un successo o un fallimento? Vista da coloro che desideravano un altro mondo, si rivelò un terribile fallimento. Eppure Bloch ha ragione: la speranza ci indirizza verso una sorta di realizzazione, una sorta di successo.

Vogliamo fare di più che morire con dignità: vogliamo vincere.

Di fronte alla minaccia dell’annientamento umano, non vogliamo solo protestare, vogliamo spezzare la dinamica della distruzione. Vogliamo fermare il treno della morte, riuscire a tirare il freno di emergenza [3]. Vogliamo che la nostra speranza sia realistica. La speranza cresce dalla dignità, ma si spinge oltre. La dignità è al centro della lotta per un mondo migliore. L’enfasi zapatista sulla dignità sottolinea un cambiamento cruciale rispetto allo strumentalismo del precedente pensiero rivoluzionario. Combattiamo perché la nostra dignità di esseri umani lo richiede, non perché vogliamo raggiungere un obiettivo predefinito.

Coerente con questo è il loro rifiuto della Rivoluzione con la “R” maiuscola a favore della rivoluzione con la “r” minuscola, e il loro attuale accento su “resistenza e ribellione”, piuttosto che sulla rivoluzione. La nozione di dignità segnala uno spostamento di enfasi molto importante e molto gradito dall’oggetto della lotta (il capitalismo) al suo soggetto (la nostra dignità). Questo cambiamento è presente in molti altri movimenti di resistenza e ribellione e in molto di ciò che è stato scritto su di essi.

Eppure, è qui che la figlia ribelle che è questo libro diventa irrequieta e dice “sì, sì, dignità, dignità! Ma bisogna andare oltre, serve speranza, vogliamo vincere! Vogliamo vincere, anche se sappiamo che ciò che significa vincere può diventare chiaro solo nel corso del suo conseguimento. La speranza si basa sulla dignità, ma è più esigente. La speranza è la dignità che spinge oltre se stessa.


Note
[1] Bloch 1959/1985, 7: “Docta spes, speranza compresa, illumina così il concetto di un principio nel mondo, un concetto che non lo lascerà più”.
[2] Vedi Eagleton 2015, 61: “La ragione non può esistere senza speranza, scrive Bloch nel Principio speranza, e la speranza non può fiorire senza ragione”. E Eagleton, commentando direttamente: “L’autentica speranza … deve essere sostenuta dalla ragione” (2015, 3).
[3] Il freno di emergenza è un riferimento alla riformulazione della rivoluzione di Walter Benjamin, che svilupperò in seguito.

L’articolo è stato pubblicato da Comune-info il 2 maggio 2024

La foto è di Gerd Altmann da Pixabay

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UNA RONDINE NON FA PRIMAVERA

di Sergio Tardetti

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

© Sergio Tardetti 2024

Foto di Kev da Pixabay

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Un racconto di vita partigiana

 il Partigiano Emilio Bacio Capuzzo

di Laura Tuzzi

In collaborazione con la sottoscritta e con Fabrizio Cracolici, già Presidente Anpi Nova Milanese – Monza e Brianza e membro attuale del direttivo provinciale Anpi, e da sempre attivista di pace e videomaker, il partigiano deportato Emilio Bacio Capuzzo ha testimoniato in più di 200 presentazioni in pubblico del libro “Un racconto di vita partigiana”. Si recò in numerose scuole, ma anche in moltissimi istituti scolastici della Lombardia e di altre regioni.

Bacio non era un nome di battaglia, ma di battesimo

Si chiamava Bacio, ma perché potesse ricevere il battesimo, i genitori gli diedero come primo nome Emilio. Perché Bacio non è il nome di nessun santo del calendario ecclesiastico. Emilio Bacio Capuzzo, partigiano e deportato. Alla sua memoria è intitolata la sezione ANPI di Nova Milanese, diretta da Fabrizio Cracolici, per dieci anni, che, assieme alla sottoscritta (giornalista e scrittrice), condivise l’amicizia con il partigiano: entrambi, infatti, eravamo presenti al suo capezzale nel giorno della morte.

In punto di morte la rivelazione a Bacio del Premio Nobel per la Pace al movimento pacifista

E quando rammentiamo la sua figura, proprio a quei tristi e toccanti attimi corre il nostro ricordo, a quella giornata di ottobre del 2017, che raccolse gli ultimi pensieri di Bacio rivolti proprio alla pace. La campagna per il disarmo nucleare ICAN, infatti, era appena stata insignita del Premio Nobel per la Pace e il partigiano esortava ad impegnarsi perché questo grande ed importante risultato si potesse finalmente concretizzare.

Abbiamo salutato Bacio ancora in vita con una notizia da Nobel…

Noi siamo riusciti a comunicargli, in punto di morte, il conseguimento del Premio Nobel per la Pace per il disarmo nucleare universale. Premio nobel la cui testimonianza è ricaduta come un grande impegno per il disarmo e la nonviolenza sul movimento pacifista mondiale e i suoi vari esponenti che testimoniano questo premio nelle varie iniziative e presentazioni in pubblico, a livello locale, nazionale, internazionale. Una “compresenza tra viventi e non viventi” come direbbe Aldo Capitini. Anche se Bacio vive sempre in mezzo a noi e illumina il nostro cammino di attivismo per la nonviolenza e il disarmo.

Un saggio di narrazione dedicato al Partigiano Emilio Bacio Capuzzo. Un racconto di vita partigiana

Ad Emilio Bacio Capuzzo e alla sua esperienza resistenziale è dedicato il libro “Un racconto di vita partigiana. Il ventennio fascista e la vicenda del partigiano Emilio Bacio Capuzzo”, edito da Mimesis nel 2012 e recentemente in seconda edizione.

La figura di Bacio ricordata nell’opera multimediale del giornalista d’inchiesta Daniele Biacchessi

La sua figura continua ad affascinare ed è presentata anche nell’opera multimediale curata da Daniele Biacchessi, L’Italia liberata. Storie partigiane. Il testo, accanto ad altre personalità che scrissero la storia della lotta di Liberazione, tratta anche l’esperienza del partigiano Bacio.

Il partigiano Bacio da sempre antifascista fin nel grembo della madre

Antifascista lo era ancora prima della nascita, già nel grembo di sua madre. Suo padre, operaio socialista, per aver rifiutato la famigerata tessera del fascio venne licenziato e ricevette anche lo sfratto dal proprietario di casa, che era sostenitore del regime. Con una moglie, tre figli e un quarto in arrivo, si vide costretto a sperare nella benevolenza di parenti, prima che la miseria lo conducesse, assieme alla famiglia, da Anguillara Veneta a Nova Milanese.

L’interruzione degli studi per la scelta antifascista di tutta la famiglia

Il fascismo precluse a Bacio, che non poteva permettersi nemmeno la dotazione del materiale didattico, un regolare percorso di scolarizzazione. «Ho dovuto smettere di andare a scuola perché i miei genitori non avevano una lira per comperarmi i libri ed i quaderni. C’era solo la fame».

Operaio alla Breda Campovolo di Sesto San Giovanni: sempre fame e povertà

Fame e miseria lo accompagneranno anche alla Breda Campovolo, dove lavorerà come apprendista aggiustatore, in seguito al diploma di apprendistato conseguito all’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, un tempo soprannominata la Stalingrado d’Italia.

La partecipazioni agli scioperi del 1944 nel triangolo industriale milanese

La vicenda partigiana di Bacio ha inizio con la preparazione degli scioperi del marzo 1944, che, caratterizzati da una forte connotazione politica, interessarono il triangolo industriale, specialmente il milanese. Ricercato dai fascisti, si unì ai primi gruppi partigiani. «Loro mi cercavano, e allora io poi andai in diversi cascinotti perché ormai il fidanzato di mia sorella non è che potesse rischiare a tenermi lì per diversi giorni ancora».

Bacio si aggregò sia ai SAP che ai GAP, formazioni partigiane di azioni dirette e sabotaggi

Quando la fabbrica in cui lavorava venne rasa al suolo dalle “super fortezze volanti”, ricevette l’ordine di presentarsi al comando tedesco per essere destinato alla Junker in Germania. Fu allora che scelse di aggregarsi ai GAP, nei quali operò con sabotaggi, volantinaggio, recupero di armi.

Incarcerato anche a San Vittore e deportato nel Lager di Bolzano

Quando un compagno, sotto tortura, pronunciò il suo nome, assieme a quello di altri partigiani, venne incarcerato dapprima a Monza, poi a San Vittore e infine deportato nel lager di Bolzano. Fuggì, lanciandosi dal treno giunto quasi al confine, al Brennero. Riuscì con altri compagni a gettarsi dal “treno della morte” in corsa. Il cosidetto Transport dei deportati. E si unì alle formazioni partigiane della Valsesia.

Dalla Valsesia alla Brigata Osella fino alla Liberazione

Inserito nella 82° Brigata Osella, partecipò attivamente nella squadra guastatori fino alla Liberazione, quando entrò a Nova Milanese liberata e partecipò il 29 aprile 1945 alla grande manifestazione di Milano. Un’esperienza breve la sua, eppure intensa ed estremamente viva, che ebbe sempre cura di condividere, in seguito, con le nuove generazioni. In diverse occasioni incontrò i fanciulli delle scuole elementari di Bovisio Masciago, narrando la sua battaglia di civiltà e le orribili pagine del fascismo. Memorabile e toccante il ricordo del suo 25 aprile, vissuto come un giorno di festa, perché la guerra era ormai terminata.

Con Laura Tussi e Fabrizio Cracolici il partigiano deportato Emilio Bacio Capuzzo ha testimoniato in più di 200 presentazioni del libro Un racconto di vita partigiana

Si recò in numerose scuole, non solo di Bovisio Masciago e Nova Milanese, ma anche in moltissimi istituti scolastici della Lombardia e di altre regioni: ovunque venisse richiesto il suo intervento e la sua testimonianza di alti ideali antifascisti. Il partigiano Bacio ha lasciato la sua Nova Milanese quasi sette anni fa; a lui i compagni hanno intitolato la sezione ANPI che ha “comandato” per anni. La memoria della sua figura, contraddistinta da una grande coerenza, li guida sul sentiero tracciato dal suo esempio.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 10 aprile 2024

Foto: Mimesisedizioni.it

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Una Jane Austen 2.0

di 

L’ultimo libro di Bia Cusumano, docente di italiano e latino in un liceo di Castelvetrano, in provincia di Trapani, è una raccolta di racconti, Trame Tradite, edita da Navarra a Palermo nel 2023. Perché parlarne qui? Perché offre preziosi spunti per una eventuale riflessione di gruppo (un tempo si chiamavano gruppi di autocoscienza, ma stavolta dovrebbe essere misto) sull’empowerment femminile, sulla violenza di genere, sulla disabilità e la malattia come cifre esistenziali, ma anche sulle strutture di coppia, sull’ipocrisia delle istituzioni familiari e sugli affetti, e ancora sulle inquietudini dell’adolescenza, o infine sulla pandemia, le guerre e le migrazioni.

La protagonista delle storie è quasi sempre la stessa, sotto diverse sfaccettature. Esile, bella, con ricorrenti capelli rossi, ben vestita e professionalmente realizzata (anche in ambiti tradizionalmente maschili come la chirurgia, l’ingegneria, la magistratura), forte e sicura di sé di fronte agli altri, cela però un dolore segreto, un rovello che è anche la pietra angolare della sua costruzione di sé. Può essere l’abbandono della madre, la malattia “invisibile, ladra di vita”, un lontano amore imploso o esploso e non elaborato, la maternità negata o conflittuale. Ella incarna, insomma, per usare una parola oggi di moda, una resilienza decisa.

È in certo modo proiezione dell’autrice che, per sua stessa ammissione, fa della scrittura una misura catartica insostituibile: “scrivere all’inizio fu come pregare. Poi divenne come respirare. Poi fu vivere. Poi sentirmi amata.” E più in là: “Scrivere mi aveva sempre restituito a me stessa. Mi aveva sempre sanato dalle ferite del mondo e salvato dai suoi orrori”, perché “siamo fatti di parole”.

Gli eventi con i quali le donne di Cusumano devono fare i conti sono talvolta estremi: il tentato infanticidio in culla ad opera di una madre sofferente di depressione post-partum; un suicidio, perché una Itaca in cui trovare rifugio o fare ritorno a casa non esiste; uno stupro di gruppo. Più spesso sono esiti di una perdita con i quali convivere per sviluppare consapevolezza: compare insistente il tema del divorzio o del ritrovamento di un perduto amore, come pure il desiderio impossibile di mettere al mondo una figlia (non un figlio, si badi!).

Troviamo pure bambini e giovanissimi in queste pagine e non solo perché l’autrice ama “con passione” il suo mestiere e la scuola, ma per la sua attenzione alle fragilità cui è necessario dedicarsi: un piccolo Down, un adulto rimasto “piccolo” per un qualche male non detto, un orfano di guerra ucraino con il quale comunicare in silenzio mano nella mano, ed anche una vecchina con il morbo di Alzheimer.

Il racconto più bello è forse il primo, dedicato all’albero di limoni della villa paterna, generoso come quello descritto da Danilo Dolci nella sua poesia I limoni lunari: un albero che “ad ogni luna butta le sue zagare”, aveva scritto il Gandhi della Sicilia, figura dei contadini che sanno di fatica e solidarietà; un albero di cui prendersi cura, scrive Cusumano, perché “in una casa sempre servono i limoni freschi”, doni profumati come quelli dipinti da Renato Guttuso, infatti “il bene fa ciàvuru pure se non si vede”. E l’albero è l’incarnazione dell’amata nonna, scrittrice e veggente, di cui la narratrice porta il nome e il destino. Come non pensare al romanzo di Gioconda Belli La donna abitata, in cui una giovane, bevuta una spremuta di arance colte dall’albero del suo giardino, diviene una valorosa rivoluzionaria, poiché quel succo era sangue della sua antenata guerrigliera?

Ma le donne di Cusumano niente sanno di rivoluzione e poco si interessano al mondo fuori: tutte ripiegate nell’introspezione e dedite agli affetti privati, cercano ostinatamente l’amore perfetto, la pura “appartenenza” e, in qualche caso, lo trovano anche o credono di trovarlo. Ricordano le eroine di Jane Austen, combattute tra il desiderio di autonomia e di indipendenza economica, il vincolo sociale che le vuole esclusivamente spose e l’aspirazione ad un incontro unico e totalizzante. Donne in bilico, tra un femminismo mai esplicitato (anche la sorellanza si limita a relazioni tra amiche intime e non si apre alla circolarità sociale) e il persistente perseguimento di un modello di coppia chiusa.

Ecco perché all’inizio ho suggerito la lettura di questo libro come sprone ad una riflessione politica: le vicende narrate da Cusumano possono forse offrirsi ad esiti diversi, come storie con un finale aperto che, inserite in un contesto politico, entro uno sfondo storico che tenga conto delle contraddizioni attuali, costituiscano uno sprone per noi, per un’analisi collettiva che faccia del partire da sé un metodo per interpretare il mondo e trasformarlo.

L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 10 aprile 2024

Una Jane Austen 2.0 Leggi tutto »