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Palermo 30 anni dopo

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ESTERNO NOTTE di Marco Bellocchio. Riflessioni

di Gianni Giovannelli

Tutta la molteplicità del mondo,
la sua illusionistica corposità,
è un intreccio di enigmi.
Ma l’enigma si formula
contraddittoriamente.
Ogni coppia di contrari
è un enigma,
il cui scioglimento è l’unità.

Giorgio Colli
(La nascita della filosofia)
Milano, Adelphi

Sei episodi divisi in due parti, circa cinque ore complessive, pochissimo pubblico in sala in entrambe le proiezioni da me scelte, per due volte nel primo pomeriggio festivo, senza mai annoiarmi, attento e coinvolto. Non so se sia stato così per il debito emotivo che mi lega a questo ultraottantenne giovanissimo regista, fin da quando, ragazzo, ero rimasto affascinato dalla rabbiosa intelligenza dei suoi pugni in tasca (1965); forse anche, ma di certo non solo.

Il fatto
Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro hanno segnato profondamente un tempo, e contribuito a modificare il rapporto di forza fra operai e capitale, a preparare la transizione autoritaria; la vicenda complessiva si caratterizza per essere, contestualmente, un intreccio di enigmi e un fatto storico, nella sua materiale – ma a ben vedere solo apparente – semplicità. Le lunghe polemiche, mai sopite in 44 anni, ruotano intorno a due quesiti, posti dai contendenti in contraddizione fra loro: se le BR debbano ritenersi o meno un’organizzazione davvero genuina (qualunque sia il significato di un simile aggettivo) e se ci si trovi o meno di fronte ad un complotto di natura politico-militare. Un falso sillogismo mai rilevato come tale: l’adesione alle Brigate Rosse di 2 o 3 mila veterocomunisti non esclude affatto, almeno sul piano logico astratto, l’intervento autonomo di un apparato statale capace di cogliere l’occasione per propri fini. Eppure il falso sillogismo ha fino ad oggi dominato ogni discussione sul caso Moro.

Il film
Marco Bellocchio ci costringe ora a cambiare prospettiva, muove da un angolo di visuale diverso, inusuale, spiazzante. L’azione armata è solo un frammento della vicenda, il punto di partenza, il fatto che costituisce presupposto necessario degli eventi successivi. Ma solo l’esame dell’intero affaire Moro (per usare l’efficace titolo del volume di Leonardo Sciascia) consente di sciogliere l’intreccio degli enigmi, portandoli a unità. Con l’intuito e la formidabile potenza dell’opera d’arte il regista pone al centro della scena non gli autori materiali del sequestro ma l’apparato di potere: ministri, poliziotti, preti, agenti segreti, psichiatri, faccendieri, militari, massoni della P2. I colloqui fra l’agente americano Pieczenik, inviato sotto copertura a Roma per seguire gli sviluppi del sequestro, e il ministro Cossiga, in una meravigliosa terrazza romana, rendono l’atmosfera di quelle giornate. I due costruiscono una doppia strategia, con Moro vivo e con Moro morto, giusto per non lasciare nulla al caso; ma entrambi hanno ben chiaro che il destino del prigioniero è segnato in modo irreversibile. Paolo VI, amico di vecchia data dello statista democristiano, decide, con molte dubbiose perplessità, di chiedere il rilascio utilizzando lo sterco del diavolo; in poche ore raccoglie banconote pulite per oltre dieci miliardi, una somma mai pagata da nessuno in precedenza, accatastata su un tavolo nelle stanze del Vaticano, pronta per essere versata alle Brigate Rosse. Ma i vertici delle Forze Armate remano contro, i comunisti rilanciano la strategia della fermezza, Andreotti tesse abilmente il reticolo di un rifiuto. Ogni spiraglio di trattativa viene, dentro il palazzo del potere, immediatamente richiuso senza lasciare al sequestrato alcuna possibilità di scampo: con diverso scopo e con diverse finalità i più lo volevano ammazzato, con poche eccezioni dentro una minoranza ormai rassegnata all’inevitabile epilogo. Anche il Pontefice finisce con il rassegnarsi e rinunzia al sogno di pagare un riscatto; la famiglia Moro comprende di poter solo attendere la fine, decisa e sostanzialmente pianificata: una condanna a morte ratificata dalle istituzioni.

Protagonisti e comparse
I militanti delle Brigate Rosse appaiono comprimari quasi irrilevanti, espropriati del loro destino. In una piazza della capitale si svolge l’animata discussione fra due colombe (Morucci e Faranda) favorevoli alla liberazione e due falchi (Moretti e Braghetti) decisi ad uccidere. E mentre si svolge questo surreale alterco i quattro subiscono, senza versare nulla, impassibili, la pressante richiesta di monete da parte di un tossico che voleva raggranellare il necessario per la sua dose; come se non bastasse, poco dopo, una donna viene scippata da due ladri in moto che le rubano la borsa, grida, senza sapere di chiedere, inutilmente, aiuto alla direzione strategica del partito armato! Le immagini sono qui più forti di qualsiasi ricostruzione storica o critica: quella dei quattro brigatisti è una pazzia amletica in cui affiora un metodo, ma al tempo stesso rimane indifferente rispetto alla realtà della popolazione metropolitana, sganciata da rapporti sociali veri. Comunque lo ritengo un passaggio di bellissimo cinema.

L’epilogo
Un doppio funerale costituisce il grottesco epilogo. Una sepoltura strettamente privata, con la presenza dei pochi congiunti nella tomba di famiglia; una cerimonia pubblica con le autorità schierate, disertata dai congiunti, senza la salma, con il trionfo dell’ipocrisia di regime. Le esequie di stato senza il corpo segnano l’atto fondativo delle larghe intese, inizia il percorso di transizione che consentirà, cancellando le conquiste del movimento, di varare l’odierno stato autoritario e di imporre l’ordine nuovo del capitalismo finanziarizzato. Più per intuito artistico che non per ragionamento politico osservava, quasi nell’immediatezza dei fatti, Leonardo Sciascia (1978, Sellerio): ma se lo scopo delle Brigate Rosse è quello di interrompere il processo di attrazione, il movimento di congiunzione che si svolge fra Partito Comunista e Democrazia Cristiana come mai non si accorgono del sortire ad effetto opposto delle loro azioni, cioè che quel processo riceve dalle loro azioni parvenza di necessità e accelerazione? In una lettera dal carcere lo stesso Aldo Moro mostra di avere ben chiaro il quadro della fermezza, del fronte di chi lo vuole morto: il governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata. Per un paradosso della storia l’artefice dell’ingresso comunista in maggioranza deve essere ucciso per consentire la riuscita del suo progetto, con la piena adesione del PCI anche alla Nato. Nei sei episodi, mentre si svolge il dramma, la popolazione di Roma vive la propria vita di tutti i giorni, andava maturando la rassegnata indifferenza che ora abbiamo tutti davanti agli occhi; tornano in mente i versi di Trilussa sul venir meno del credere: nun se fida più della campana perché conosce quello che la sona.

Il sugo della vicenda
Bellocchio rimuove dal centro della scena la ragione di mille inutili polemiche su cui si attardano in troppi, ovvero se già in Via Fani il nucleo delle Brigate Rosse abbia potuto contare su un appoggio esterno, o, ancora, se la struttura, politica e militare, dell’organizzazione armata possa considerarsi genuina. Nel film ciò che rileva è il fatto non le modalità tecniche che lo hanno reso possibile, quali che esse siano.
Ci sono state due commissioni d’inchiesta, si sono svolti molti processi e si è stampata una montagna di volumi. Esiste una verità di stato, affidata al memoriale costruito dalla leggendaria suor Teresilla Barillà, firmato dal pentito Morucci con editing del giornalista democristiano Remigio Cavedon, confermato quale versione corrispondente al vero da Moretti. Mancano all’esame i pizzini di polizia, numerosi rapporti degli informatori, le relazioni dei servizi segreti; questo rende difficile allo storico la ricostruzione dettagliata, esauriente, convincente.
Ove con il bizzarro aggettivo genuine si intenda affermare che le Brigate Rosse erano una struttura reale, con qualche migliaio di militanti, in gran parte formatisi durante le lotte di massa, allora non ci sono dubbi che sia così. Ove si intenda invece negare l’uso di infiltrati nel gruppo si va invece contro il buon senso e l’evidenza. D’altro canto dove mai i servizi segreti e l’apparato repressivo avrebbero dovuto piazzare i propri informatori, se non dentro formazioni armate? Alcuni sono noti, altri sono ancora coperti dal silenzio di stato. Ma i nomi noti abbracciano l’intera vita dell’organizzazione: Marco Pisetta risale al periodo 1970/72 (arresti a Milano in Via Delfico e in Via Boiardo), Frate Mitra Girotto agì nel 1974 consentendo la cattura di Curcio e Franceschini (ma non solo), nel 1979 furono le informazioni a segnare la sorte di Morucci e Faranda (troppo lungo sarebbe descrivere il come anche se interessante), e il 4 aprile 1981 cadde in trappola anche Mario Moretti, ingannato da Renato Longo che aveva ricevuto 60 milioni (a rate) dal capo della mobile di Pavia, Ettore Filippi, poi vicesindaco di centrosinistra. L’esistenza reale di una formazione armata non impedisce affatto che possano infilarsi fra i militanti spie di regime; questo avviene anzi sempre, quasi senza eccezioni. E non consente neppure di escludere condizionamenti, azioni di disturbo, abili provocazioni, interferenze in genere. Quel che conta nell’Affaire Moro non è l’azione militare, ma il dopo. E nel dopo il ruolo dei rapitori è stato secondario, la sequenza l’hanno imposta, come veri protagonisti, coloro che stavano a palazzo.

A volte il caso
Non c’è dubbio che, comunque siano andate le cose, l’agguato di Via Fani mostri nella preparazione molte falle. Eppure è riuscito. Che ciò sia dovuto a casuale buona sorte oppure al supporto di due professionisti a bordo di una moto (come ritengono alcuni) poco cambia nel risultato finale: bene ha fatto, io credo, il regista ad attenersi all’accaduto sostanziale, evitando digressioni inquinanti.
La prima guerra mondiale è legata all’attentato che nel 1914 costò la vita all’arciduca Ferdinando e alla moglie Sofia. Un assassinio riuscito nonostante una preparazione assai sgangherata. Dragutin Dimitrievic aveva assoldato e armato una pattuglia di nazionalisti socialisteggianti, che provenivano da due (genuine) strutture armate: Crna Ruka (mano nera) e Narodna Opbrana (difesa del popolo).
Il capo del governo, Nicola Pasic, fu avvisato da un informatore, tale Voijslavtankosi, ma ritenne di non adottare misure particolari in prevenzione; in guerra si schierò contro l’Austria Ungheria. L’attentato ebbe corso.
Per un errore di tiro, al passaggio dell’auto imperiale, fu ferito un attendente, il pilota accelerò portando l’arciduca salvo al municipio. Gavrilo Princip non riuscì ad intervenire come aveva in animo, rinunciò sconfortato al progetto e si diresse verso l’osteria. Ma il diavolo ci mise lo zampino. L’arciduca, dopo aver rimproverato i funzionari del municipio per la cattiva gestione della sicurezza, volle ad ogni costo risalire in macchina per andare a prendere il suo collaboratore ferito. C’era folla, la vettura procedeva lentamente, fermandosi ogni tanto; durante una di queste brevi soste Gavrilo Princip si trovò accanto l’arciduca. E, salito sul predellino, sparò con la sua Browning M 1910 calibro 7,65 uccidendo l’erede al trono insieme alla consorte: il progetto sgangherato di sette sprovveduti, per una serie di accadimenti imprevedibili, ebbe successo, per geometrica potenza del caso! Dopo le confessioni dei congiurati il governo imperiale chiese l’estradizione degli attentatori e il rifiuto serbo aprì la via alla grande guerra, come speravano i gestori del dopo cogliendo al volo una ghiotta occasione.
Paolo Mieli ha scritto: ritengo che in merito all’Affaire Moro si sappia sostanzialmente tutto quel che si deve sapere. Dal suo punto di vista ha ragione. E’ un affidabile funzionario di quello stesso apparato che ha determinato davvero, con lucida consapevolezza e con geometrica potenza, la sorte dell’esponente politico democristiano. Un regista geniale, Marco Bellocchio, ha sciolto l’intreccio di enigmi, con la semplicità dell’arte.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera l’11 luglio 2022

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Il sistema razzismo

di Annamaria Rivera

Per definire e analizzare il razzismo è necessario anzitutto sbarazzarsi della categoria di “razza”, da cui pure deriva l’etimologia del termine. Questa categoria, con cui si pretende di descrivere e gerarchizzare i gruppi umani sulla base del biologico, è stata criticata e ormai abbandonata sia dalle scienze sociali, sia da quelle naturali.
I biologi hanno dimostrato, fra l’altro, che la distanza genetica media fra due individui è pressappoco pari a quella che separa due supposte razze. Tuttavia, la dimostrazione dell’infondatezza della “razza” non ha mai interdetto e tuttora non interdice che certe collettività siano percepite, categorizzate, trattate quasi fossero “razze”.
E le “razze” s’inventano. Come insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo, qualunque gruppo umano può essere razzizzato, indipendentemente dalle sue peculiarità fenotipiche e perfino culturali e sociali. Lo stigma della razza è, infatti, l’esito di un processo sociale di etichettamento: in definitiva, tutte le “razze” sono inventate.
La differenza “di colore” non c’entra niente. Gli italiani emigrati negli Stati Uniti, in Germania, in Svizzera, in Francia ecc. erano considerati individui di razza diversa: disprezzati e trattati più o meno come oggi sono trattate le persone di origine immigrata. A New Orleans nel 1891 furono linciati undici italiani, quasi tutti siciliani, accusati di aver ucciso il capo della polizia urbana, cosa palesemente falsa. Ad Aigues-Mortes, in Francia, nell’agosto del 1893, furono uccise decine di lavoratori italiani che erano lì, nelle saline, per la raccolta stagionale del sale. E il razzismo anti-italiani si è perpetuato fino ad anni recenti.
Gli ebrei, che furono sterminati a milioni nei lager nazisti, non erano certo neri ed erano di nazionalità e culture analoghe a quelle del resto degli europei.
A dimostrare ciò che dico, basta pensare agli albanesi. A partire dai primi anni ’90 ci furono massicci esodi di albanesi verso l’Italia. E l’albanese diventò il bersaglio d’insulti e atti razzisti. Ogni volta che si verificava un fatto di cronaca nera, uno stupro, un omicidio, ecc., si additava come colpevole qualche albanese; al punto che “albanese” finì per diventare un insulto abituale che si scambiavano perfino i bambini.
L’8 agosto 1991, approdarono nel porto di Bari, sulla nave Vlora, 20mila profughi albanesi, che dapprima furono accolti dalla popolazione con una certa solidarietà. Ma intanto si era avviata la macchina della propaganda politica e mediatica contro di loro e l’orientamento del governo italiano si era assai indurito. Così che i profughi furono rinchiusi in massa nel vecchio Stadio della Vittoria e trattati come animali in gabbia, per essere poi rimpatriati con l’inganno.
Non solo. Gli albanesi sono stati anche vittime di una strage. Ricordo che nella notte fra il 28 e il 29 marzo del 1997, una carretta del mare, carica di profughi albanesi fu speronata e affondata da una corvetta della marina militare italiana, la Sibilla. Morirono annegate più cento persone, in maggioranza donne e bambini.
Ciò detto, come si potrebbe definire il razzismo? Io propongo questa definizione: è un sistema d’idee, discorsi, rappresentazioni e pratiche sociali, che attribuisce a gruppi umani e agli individui che ne fanno parte differenze essenziali, generalizzate, definitive, allo scopo di legittimare pratiche di stigmatizzazione, discriminazione, segregazione, esclusione, perfino sterminio.
Conviene aggiungere che alle collettività definite come radicalmente differenti di solito è negato il diritto di autodefinirsi.
Il razzismo, quindi, ha bersagli diversi secondo i periodi e le circostanze storiche. Per esempio, il fatto che l’Italia sia stata un paese fascista e colonialista conta molto nel razzismo attuale verso le persone immigrate o solo di origine immigrata. Si consideri, inoltre, che secondo sondaggi successivi, l’Italia s’illustra anche per antiziganismo: l’82% del campione intervistato esprime ostilità, odio o paura per la presenza di appena 180mila “zingari”.
Il razzismo è anche il risultato di un circolo vizioso. Diventa sistemico e abituale, quando è direttamente o indirettamente incoraggiato o perfino praticato dalle istituzioni e da mezzi di comunicazione. Quando l’intolleranza verso determinati gruppi o minoranze, diffusa nella società, è legittimata dalle istituzioni, anche europee, e dagli apparati dello Stato, nonché dalla propaganda e da una parte del sistema dell’informazione, è allora che s’innesca tale circolo vizioso.
È un circolo vizioso micidiale. Basta considerare lo stato di abbandono nel quale sono gettati numerosi richiedenti-asilo, che pure dovrebbero essere oggetto di protezione particolare: di fatto privati perfino del diritto di sfamarsi e di avere un tetto sulla testa, in molti casi vanno a raggiungere la schiera dei senza-dimora, cosa che a sua volta fa gridare allo scandalo i difensori del decoro urbano e diviene pretesto per leggi e ordinanze persecutorie e liberticide, e per campagne allarmistiche intorno al tema dell’insicurezza, uno dei più insistenti nel discorso pubblico.
Conviene aggiungere che il sistema-razzismo è sempre sorretto sia da un apparato di leggi, norme, procedure, che hanno per effetto di inferiorizzare, discriminare, segregare, escludere migranti, rifugiati e minoranze; sia da dispositivi simbolici, comunicativi, linguistici, che sono in grado di agire direttamente sul sociale, producendo e riproducendo discriminazioni e
ineguaglianze.
Parlare delle tante leggi che discriminano le persone immigrate e rifugiate sarebbe troppo lungo.
Perciò facciamo solo un esempio relativamente recente: la criminalizzazione da parte delle istituzioni italiane non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma pure di chiunque, anche individualmente, compia gesti di solidarietà verso i profughi. È indubbio che un tale luminoso esempio dall’alto non faccia che incoraggiare e legittimare intolleranza e razzismo “dal basso” (per così dire).
Pensate ai tanti episodi di barricate contro l’arrivo di richiedenti-asilo, ma anche alle sempre più numerose rivolte nei quartieri popolari, soprattutto romani, contro l’assegnazione di case popolari a famiglie non perfettamente “bianche”. In questi casi l’ingannevole formula della “guerra tra poveri” non potrebbe essere più assurda, visto che spesso, a istigare e guidare tali rivolte, sono militanti di Forza Nuova o CasaPound. Qui il circolo vizioso arriva fino al rafforzamento e legittimazione, pur implicita o involontaria, della destra neofascista.
La tendenza a costruire una comunità razzista (secondo l’espressione del filosofo Etienne Balibar) si accentua quando il senso civico è debole e le relazioni sociali basate sulla reciprocità e sulla solidarietà si sono inaridite, quando prevale la cultura dell’individualismo, dell’egoismo, del cinismo collettivi, quando le rivendicazioni sociali e i conflitti di classe (come si diceva un tempo) non hanno più lingua e forme in cui esprimersi.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info l’11 Luglio 2022

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A scuola da Rodari

di Alice Coriandoli

Gianni Rodari è stato il più letto autore di favole moderne, premio Christian Andersen nel 1970, è ancora oggi tra gli autori di letteratura per ragazzi più riconosciuti in Italia e all’estero. Tantissime le traduzioni in diverse lingue del mondo ed edizioni nella neo latina lingua sarda.
È stato tra i più prolifici letterati del secondo Novecento, da prima cronista poi giornalista ha collaborando con diverse testate e riviste, scrittore di favole e filastrocche dal pensiero civile, autore di programmi per ragazzi, si è confrontato con altri intellettuali, poeti e artisti dell’epoca, alcuni tra i quali Munari, Luzzati, Zavattini, Boffa, Calvino.

Da novembre 2021, per volere della famiglia Rodari e della giunta comunale di Orvieto, il Centro studi a lui dedicato è stato riaperto.
Nel Centro ci sono attualmente una buona parte delle pubblicazioni italiane di Rodari e su Rodari, delle edizioni straniere delle opere di Rodari e quasi tutti gli articoli che Rodari ha pubblicato su quotidiani e periodici in 35 anni di giornalismo – dal 1945 al 1980. È costituito da oltre 1.500 documenti di varie tipologie (monografie, periodici, musica, multimedia ecc.) e raccoglie le opere edite di Gianni Rodari, nonché tutti i lavori di critica e di ricerca che riguardano la sua produzione (Articoli, tesi di laurea, filmati, cd, cassette, spartiti ecc.). In continuo inserimento articoli scritti su di lui, pubblicati su diversi giornali e riviste cartacee e on line.
Di notevole pregio e interesse la collezione delle prime edizioni italiane e straniere che il centro possiede e che costituiscono una rarità in Italia.
Tra le migliaia di libri presenti i diari del suo viaggio in Cina Turista in Cina di Gianni Rodari. Collana I grandi servizi di Paese Sera, 7. Volume, con illustrazioni bn. Resoconto di Rodari sul viaggio in Cina nel settembre 1971 e del suo viaggio dell’ex Unione sovietica Giochi nell’URSS appunti di viaggio. Gianni Rodari. Gli Struzzi. Einaudi, 1984
Nel Centro studi Orvieto vi sono la maggior parte dei saggi e della critica scritta su l’autore fin da prima della sua morte. È stato infatti da sempre uno scrittore studiato con attenzione nei suoi diversi lavori: come giornalista testi “Le domeniche di Gianni Rodari: scritti e racconti degli anni de l’Unità” a cura di Vichi De Marchi – Testi su testi. Recensioni e elzeviri da «Paese Sera-libri» (1960-1980) a cura di Flavia Bacchetti. Come autore di soggetti e drammaturgie per il teatro Gianni Rodari – Il mio teatro. Dal teatro del Pioniere a La Storia di tutte le Storie a cura di Andrea Mancini, Mario Piatti. Le ricerche fatte da Carmine de Luca e pubblicate negli anni ‘90. L’universo a dondolo. La scienza nell’opera di Gianni Rodari, di Pietro Greco per Springer Verlag, 2010. E tantissimi altri volumi e tesi che nel corso di più di quarant’anni anni sono state scritte grazie all’indagine di studio di ricercatori e ricercatrici e studenti.
Gianni Rodari è certamente uno dei maggiori letterati italiani del secondo Novecento, nei Paesi dell’ex Unione sovietica con Le avventure di Cipollino già dai primi anni ‘50 fu amato da intellettuali, insegnanti e bambini.
Oltre alle diverse tesi universitarie nelle materie di pedagogia, letteratura, arti, giornalismo, sono state fatte sul suo lavoro ricerche di Dottorato con pubblicazioni “Non solo filastrocche” Rodari e la letteratura del Novecento, di Mariarosa Rossitto per Bolzoni Editore, 2010 – rieditato nel 2020.
Molti studenti e studentesse del Dipartimento di italianistica dell’Università La Sapienza hanno potuto conoscere lo scrittore nel corso di Letteratura del Novecento della Professoressa Francesca Bernardini. E in testi di esame richiesti da altri docenti di letteratura del Dipartimento.
È stato preso in analisi anche dal linguista Tullio de Mauro.
Rodari quindi viene studiato nelle Università, anche all’estero, come per il Dottorato di Tovar Rodrigo Andrés (2019). Il bambino rivoluzionario: Letteratura infantile e pensiero politico. Gianni Rodari nel secondo dopoguerra. Dipartimento di letteratura spagnola e ispano-americana. Università di Salamanca (Spagna).
Raccontato nel suo lavoro e successo in Urss in Cipollino nel Paese dei Soviet. La fortuna di Gianni Rodari in URSS, Anna Roberti, edizioni Lindau, 2020.
Il Centro studi “Gianni Rodari” nasce nel 1987 (rimasto aperto fino al 2010) per iniziativa del Comune di Orvieto insieme alla famiglia Rodari, in seguito alla prima edizione del “Premio alla fantasia Gianni Rodari – Città di Orvieto”, tenutosi nel 1984. È stato ed è il primo Centro dedicato a Rodari nato in Italia. Oggi trova finalmente una sede importante al centro della città, vicinissima al Duomo, presso una delle sale della Biblioteca Comunale “L. Fumi”.
Le principali finalità del Centro sono esplicitate nell’articolo 2 dello statuto dell’associazione. In particolare, il Centro: promuove la conoscenza e lo studio dell’opera di Gianni Rodari con l’ausilio di esperti e studiosi italiani e stranieri; raccoglie le opere edite di Gianni Rodari, nonché tutti i lavori di critica e di ricerca che riguardano la sua produzione; salvaguarda l’infrazionabilità, la consistenza, l’integrità e lo stato di conservazione del patrimonio librario esistente nonché dei suoi eventuali incrementi; tiene aggiornata la catalogazione del materiale culturale da esso posseduto; promuove e organizza convegni, dibattiti, incontri, seminari, corsi, mostre, anche di concerto con altre organizzazioni ed altri enti aventi fini analoghi; svolge attività culturali; tiene rapporti con centri ed esperienze similari, in Italia e all’estero.
A curare l’archiviazione del Centro Studi è Adelaide Ranchino, laureata in conservazione dei Beni culturali con indirizzo archivistico-librario. Primo Tecnologo, CNR Biblioteca Centrale “G. Marconi”. Responsabile del Centro di documentazione europea. Per volere del nuovo Cda vi è un Comitato scientifico composto dai maggiori esperti dell’opera di Gianni Rodari. Rodariologi tra cui: Pino Boero, è stato professore ordinario in Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso la Facoltà (ora Dipartimento) di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. Autore di Una storia, tante storie. Guida all’opera di Gianni Rodari, Einaudi 2010 – rieditato 2020; Giorgio Diamanti, per il Centro ha curato e pubblicato, negli anni ’90, la rivista “C’era due volte…” e un prezioso quaderno Scritti di Gianni Rodari su quotidiani e periodici dove sono elencati in ordine cronologico, e suddivisi per testate giornalistiche; Daniela Marcheschi, critica letteraria e accademica italiana, studiosa di letteratura e antropologia delle arti. Ha curato nel 2020 il Meridiano Mondadori Gianni Rodari, Opere; Ilaria Capanna, laureata in Lettere con tesi in critica letteraria e poi in letteratura del Novecento, studiosa di Favole moderne ed esperta di arti visive, divulgatrice dell’opera rodariana e autrice di molti progetti per il fu Centenario.
Il lavoro, sempre rinnovato e ricercato nelle sue edizioni, nelle scelte degli illustratori e illustratrici, è portato avanti negli ultimi decenni da Edizioni EL, importante casa editrice italiana specializzata in libri per bambini e ragazzi, che raccoglie tutta la produzione per ragazzi del grande scrittore.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info l’11 Luglio 2022

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Premio Cesare Zavattini

Mercoledì 13 luglio – Ore 20:45

PRESENTAZIONE DEL PREMIO ZAVATTINI 2022/23

Bando aperto a tutti i giovani entro il 36esimo anno di età
in scadenza il 28 luglio 2022

A seguire
Proiezione del corto vincitore del Premio Zavattini  2017
IN HER SHOES
di Maria Iovine

Intervengono
Antonio Medici, direttore del Premio Zavattini 
Aurora Palandrani, coordinatrice del Premio
Maria Iovine, regista

ISOLA DEL CINEMA
Isola Tiberina, Piazza San Bartolomeo all’Isola – Roma

Ingresso libero

Bando e regolamento del Premio sono consultabili sul sito del
Premio Zavattini Bando 2022/23

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