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DIETRO LE QUINTE DI PALAZZO RASPONI

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L’economia della guerra permanente 

di Andrea Fumagalli

Nel messaggio che Mario Draghi ha rilasciato il giorno prima del summit europeo di Versailles, l’11 marzo scorso, si affermava: “L’Europa e l’Italia non sono in una fase di “economia di guerra”, ma il “futuro preoccupa” e “bisogna prepararsi”.
In realtà siamo già in un’economia di guerra. Tale termine implica l’adozione di “misure di politiche economiche al fine di adeguare il sistema economico nazionale alle esigenze che derivano dalla partecipazione dello Stato ad un evento bellico”.
La definizione citata fa ovviamente riferimento ad un reale stato di guerra militare, con morti, bombardamenti, profughi, ecc. – come sta avvenendo in questi giorni in molte città dell’Ucraina.
Ma negli ultimi decenni la metafora della guerra si è estesa e la logica economica sottostante è diventata parte della nostra vita, sino al punto di poter affermare che viviamo in un’economia di guerra: un’economia di guerra, che, senza andare troppo indietro nella storia, ha cominciato a diffondersi quando è entrato in crisi il paradigma fordista e il dualismo tra i blocchi Usa-Urss. La guerra economica, come la guerra sanitaria, è oramai una costante, mentre il ricorso alla guerra militare, pur cresciuto all’indomani del crollo dell’URSS e dello scioglimento del patto di Varsavia, è un’ultima ratio.
La logica tuttavia è più o meno la stessa. Guerra è sinonimo di distruzione e a ogni distruzione segue una ricostruzione, cioè si devono creare le condizioni per una nuova accumulazione capitalistica. Se la guerra può prescindere dal capitalismo, il capitalismo non può fare a meno dalla guerra. La guerra, la moneta e lo Stato sono forze ontologiche, cioè costitutive e costituenti, del capitalismo e le guerre (e non La guerra) sono da intendersi come il principio di organizzazione della società (Eric Alliez, M. Lazzarato,  Guerres et capital, Ed. Amsterdam, Paris, 2016).
Le sanzioni dei paesi Nato (Turchia esclusa), e non solo, sono la risposta di guerra economica all’invasione dell’esercito russo ai danni dell’Ucraina. Oltre a colpire il settore energetico, i trasporti, il commercio e la ricchezza privata di numerosi individui legati al governo di Mosca, la strategia sembra quella di estromettere la Russia dal sistema dei pagamenti internazionali.
Lo strumento principale è il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), che regola i pagamenti transfrontalieri che passano per il sistema bancario. Gli ordini di pagamento sono trasmessi tramite un consorzio internazionale di banche con sede in Belgio che collega attraverso una rete informatica circa 11.000 istituzioni finanziarie in tutto il mondo. SWIFT fu costituito nel 1977 per evitare che l’infrastruttura dei pagamenti internazionali fosse monopolizzata dall’americana Citibank. Per una ironia della storia, ha finito per diventare la principale arma degli Stati Uniti nell’esercizio dell’egemonia monetaria globale.
La prima volta che il sistema dei pagamenti viene utilizzato per fini militari e strategici è stato nel 2012 quando, sotto la pressione americana, SWIFT ha disconnesso il sistema bancario dell’Iran nel quadro del pacchetto di sanzioni impiegato per fermarne il programma nucleare. Il sistema dei pagamenti si è rivelato immediatamente uno strumento bellico estremamente efficace per garantire l’attuazione delle sanzioni. Infatti, è sufficiente sospendere il codice SWIFT di un individuo, di un’impresa o anche di un intero Paese per impedire a chiunque (compresi gli intermediari) di effettuare pagamenti verso il beneficiario identificato da quel codice.
Come scrive giustamente Luca Fantacci: “Le sanzioni finanziarie, quando sono comminate dagli Stati Uniti, possono avere effetti ancor più devastanti di un attacco militare. Sono “un’arma nucleare”, come ha commentato recentemente un banchiere occidentale, forse sperando di scongiurarne l’uso”.
Il paragone non è azzardato: infatti, al pari di un attacco atomico, seppure in maniera diversa, più lenta e più subdola, le sanzioni rischiano di provocare ripercussioni devastanti anche per chi le mette in atto, minando alla radice l’egemonia monetaria del dollaro.

Possibile crisi dell’egemonia del dollaro?

Le sanzioni economiche hanno l’obiettivo di depotenziare l’economia russa, sino a causare una recessione economica. Già a partire dal 2014, dopo l’annessione unilaterale della Crimea da parte di Mosca, le potenze occidentali, in primis gli Usa, avevano imposto sanzioni all’economia russa, così come, pur se in maniera diversa, era stato deciso da Trump nei confronti dell’Iran nel 2018 per la questione nucleare.  In questo caso, secondo i dati FMI, il Pil iraniano è calato del 5% nel 2020. Ma per la Russia la situazione appare diversa, grazie alla maggior indipendenza e autarchia della sua economia. Putin ha dichiarato a fine 2019 che le perdite causate dalle sanzioni all’economia russa erano inferiori a 50 miliardi di dollari. Uno studio ha stimato una mancata crescita del Pil tra lo 0,5% e l’1,5%, per una perdita complessiva fra 40 e 120 miliardi di dollari dal 2014 al 2018. Il lato debole dell’economia russa è la sua “dollarizzazione”, vista l’ingente quantità di valuta americana che entra nel paese a causa dell’elevato export di materie prime quotate in dollari (gas e petrolio, ma non solo).
Se questi dati vengono confermati, l’impatto è tutto sommato limitato. Ma queste sanzioni contengono delle novità importanti, soprattutto sul lato finanziario. Infatti, oltre al già ricordato blocco del sistema Swift per alcune banche (escluse quelle che intermediano i prodotti energetici), si prevede anche il congelamento delle riserve valutarie della Banca Centrale. Si tratta di un provvedimento che gli Usa avevano già intrapreso nei confronti di Iran, Venezuela e Corea del Nord ma che oggi per la prima volta viene usata nei confronti di un paese del G20, detentore di grandi riserve.
Secondo i dati della Banca Centrale Russa, al 31 gennaio 2022, le riserve valutarie russe ammontano a  oltre 630 miliardi di dollari (630,207, per l’esattezza), di cui circa 500 in valuta estera e 130 in oro, per un totale di 2300 tonnellate d’oro, circa un terzo  degli USA, due terzi  della Germania e poco meno di Francia e Italia. Si tratta di un ammontare che è cresciuto costantemente nel tempo, a partire da metà 2015 (poco più di 350 miliardi di dollari all’epoca), a seguito di una precisa strategia di Putin di creare una sorta di scudo per affrontare gli effetti recessivi delle sanzioni occidentali a seguito dell’annessione della Crimea. Contemporaneamente, la Banca di Russia ha venduto tutti i suoi titoli di stato americani fra aprile e maggio del 2018, nel tentativo di mettere le proprie riserve al riparo dagli Stati Uniti nel caso di un inasprimento delle relazioni (si veda Fantacci) .
Tuttavia, nonostante il tentativo di “de-dollarizzare” l’economia e le riserve valutarie, il 60% di tali riserve è detenuto ancora in dollari, escludendo una quota del 13% detenuto in valuta cinese (quota destinata ad aumentare). L’impatto immediato delle sanzioni, più ancora del parziale blocco dello SWIFT, è l’impossibilità per la Banca Centrale russa di poter vendere parte delle proprie riserve per sostenere il corso del rublo, che, non casualmente, ha perso circa il 30% nel giorno in cui le sanzioni sono diventate operative. È questo il rischio maggiore che può correre l’economia russa. Dopo questo iniziale tracollo (il cambio rublo/dollaro è passato da 82 rubli per un dollaro del 24 febbraio, giorno di inizio dell’invasione russa, a 152 rubli per dollaro il 7 marzo), attualmente il rublo viene quotato su valori intorno a 100 rubli per dollaro e il suo valore si sta stabilizzando. La svalutazione rispetto all’euro è inferiore, visto che l’euro in questo periodo si è svalutato rispetto al dollaro. I dati ci dicono che le sanzioni, dopo un iniziale pesante effetto, si stanno rivelando meno efficaci del previsto, probabilmente anche in seguito al ricorso di valute alternative non direttamente legate al dollaro (quindi non bloccabili) come la valuta cinese e le criptomonete. Le dichiarazioni di Putin del 23 marzo 2022 di continuare la fornitura di gas all’Europa, mantenendo fede ai contratti in essere, convertendo la valuta di pagamento da dollari in rubli, se da un lato intende proseguire sul processo di “de-dollarizzazione”, dall’altro intende confermare la tenuta della stessa valuta russa.
È troppo presto oggi per verificare gli effetti di questa guerra valutaria in corso. Di sicuro sappiamo che a differenza della guerra miliare sul campo (ristretto, al momento, al martoriato territorio ucraino), questa guerra si combatte su scala mondiale.
La questione è ben descritta da Luca Fantacci:

“Il blocco delle riserve (russe, ndr.) costituisce un precedente che si ripercuoterà inevitabilmente sullo status del dollaro come moneta internazionale: che strumento di riserva può mai essere quello che rischia di venire a mancare proprio nel momento del bisogno? Questo precedente potrebbe ridurre la disponibilità di altri Paesi, in particolare della Cina, a detenere le proprie riserve sotto forma di titoli del Tesoro americano e, in generale, titoli denominati in dollari, indebolendo la funzione del dollaro come strumento di riserva internazionale”.

Come anticipato da Giovanni Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, il nuovo secolo si prefigura come il “secolo cinese” in grado di sostituire il XX secolo come “secolo americano”. L’illusione statunitense di rimanere l’unica potenza egemone una volta crollata l’URSS si perde di fronte al crescente potere economico e tecnologico cinese. Gli Usa cercano di mantenere il potere militare, finanziario e mediatico (il quarto potere di Orson Welles) al fine di compensare il declino dell’egemonia economica. Il potere militare è il primo a cominciare a declinare proprio perché non adeguatamente surrogato da quello economico. Il tentativo di ripristinare l’autorevolezza USA del proprio raggio d’azione ha al momento successo per quanto riguarda l’Europa, sulla quale è strategico mantenere un’influenza ideologica e commerciale.
Ma se per rinfocolare il patto d’intenti con l’Europa (grazie alle sanzioni contro il comune nemico rappresentato da Mosca), si rischia di mettere a repentaglio quel poco di potere finanziario che ancora oggi il dollaro detiene, la situazione rischia di sfuggire di mano.
All’erosione dell’egemonia del dollaro potrebbe contribuire anche il crescente ricorso alle criptovalute. In effetti, le criptovalute potrebbero costituire un mezzo di pagamento internazionale e di detenzione della ricchezza alternativo per i cittadini, le banche e le istituzioni finanziarie russe colpite dal blocco di SWIFT, e in generale dalle sanzioni occidentali. Infatti, le criptovalute costituiscono una forma di asset virtuale che viene scambiato sulla blockchain senza alcun bisogno di intermediari, sfuggendo al controllo delle autorità.
Non è un caso che le quotazioni del Bitcoin da fine febbraio alla prima settimana di marzo sino aumentate del 20% sino a sfiorare i 40.000 dollari, per poi avere un andamento altalenante, ma mantenendosi su quei livelli.
Occorre allora domandarsi, quale tipo di governance finanziaria mondiale possa essere possibile e soprattutto conveniente. Quella governata dalla speculazione delle grandi oligarchie finanziarie, grazie alla totale deregulation dei mercati finanziari, come è stato sino ad oggi ma con crescenti rischi di instabilità, oppure una governance politico-finanziaria volta a ricreare le premesse di una nuova Bretton-Woods, questa volta più a trazione asiatica che occidentale e non basata su una sola valuta?
Ecco la nuova economia di guerra: la possiamo definire una “terza guerra mondiale”?

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 29 marzo 2022

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HERBARIUM

Dal 2 al 30 aprile 2022

HERBARIUM 

Fotografie di Giovanni Zaffagnini

INAUGURAZIONE SABATO 2 APRILE – ORE 11
LUGO Biblioteca Trisi
Piazza Trisi

INTERVENTI
Anna Giulia Gallegati Assessore alla cultura – Comune di Lugo
Maria Pia Galletti Assessore all’ambiente – Comune di Lugo
Giovanni Zaffagnini Fotografo

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La corsa al riarmo uccide il futuro

di Raffaele Crocco

Non si tratta di fare i conti con la tragedia di chi ha conosciuto la morte, la paura, la fuga. Gli esseri umani sanno rinascere. Non sarà nemmeno questione di confrontarsi con i danni economici: quelli alla lunga diventano affari, speculazione, ricchezza. A pesare, a cambiare le nostre vite e il nostro futuro saranno gli irreparabili danni che stiamo facendo alla cultura della Pace, quella vera, intelligente, conveniente, solida.
L’Orso Russo ha ruggito e la reazione del nano Europa, mai unita nella sua breve storia, è stata di correre ad armarsi. Ogni singolo Paese del vecchio Continente, ogni capitale ha abbandonato la maschera da tutore della “civiltà del diritto” indossata dal secondo dopoguerra, per riprendere il vestito militarista tanto caro alla nostra tradizione. 
Non basta mai, evidentemente. Rileggere la storia non serve. La memoria è corta e faticosa. 
Ha iniziato la Germania: in un discorso di appena mezz’ora al Bundenstag, il cancelliere socialdemocratico Scholz ha cancellato anni di politica estera tedesca. Ha annunciato un aumento delle spese per la difesa dall’1,5% al 2% del Pil. E’ la richiesta avanzata da anni dalla Nato e dagli americani. Tradotto significa che Berlino raddoppierà gli investimenti in armi, arrivando a 100 miliardi di euro. Poi, invierà armi all’esercito ucraino.
La stessa scelta l’ha fatta l’Italia, votando alla Camera il via libera all’aumento della spesa militare. Anche noi arriveremo al 2% del Pil, toccando quindi i 36miliardi di euro. Armi, sistemi d’arma, aerei, destinati a potenziare le nostre Forze Armate, che già oggi sfiorano la top ten mondiale fra gli eserciti più importanti. Anche Roma, come Berlino, invia armi alla resistenza ucraina, alimentando all’infinito la guerra. Il tutto in un Paese, il nostro, che nella Costituzione dice di ripudiare “ la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”. La Francia non si tira indietro. Il presidente Macron ha detto che il Paese deve potenziare il suo esercito per essere pronto a rispondere ad “una guerra di alta intensità che può tornare sul nostro continente”. L’obiettivo, ha spiegato, è rendere l’Europa maggiormente autonoma dinanzi alle sfide future, a cominciare dal settore della Difesa tornato di dirompente attualità dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin.
Torniamo così alla vecchia Europa in armi e sappiamo come va a finire la cosa. La corsa al riarmo delle grandi potenze a cavallo del ‘900 portò al massacro della Prima Guerra Mondiale. Il riarmo tedesco degli anni ’30 del secolo scorso portò alla Seconda. Riarmarsi non porta nulla di buono. Non regala pane e lavoro a chi non ce l’ha. Non distribuisce diritti e giustizia. Non fa nascere democrazie solide. Soprattutto, non riesce a tranquillizzare gli esseri umani. Eserciti sempre più armati e potenti faranno nascere paure sempre più forti. Per farle tacere, per sentirci sicuri, correremo a comperare armi e a quel punto ci sarà chi si sentirà minacciato da noi. Per avere meno paura, comprerà a sua volta armi e la spirale si interromperà solo quando qualcuno comincerà ad usarle, quelle armi.
I danni di questa guerra li pagheremo nella follia di questa corsa. Li pagheremo con la morte dell’idea di una Europa libera, democratica e con pochi confini, capace di essere d’esempio. Li pagheremo con la paura che lasceremo in eredità ai giovani. Ancora una volta, reagiamo irrazionalmente, stupidamente, ciecamente. E come sempre, a rimetterci saranno milioni di esseri umani che chiedevano solo di vivere in pace.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 17 marzo 2022

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La guerra dei vaccini: brevetti, sanità, cura 

Seminario a cura di Effimera

Sabato 26 marzo 2022, ore 10-18

Casa della Cultura, Via Borgogna 3, Milano (Metro M1-San Babila)

È notizia di pochi giorni fa che l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, collocato presso il ministero dello Sviluppo Economico guidato da Giancarlo Giorgetti, ha concesso una proroga di cinque anni a un brevetto collegato ai vaccini Pfizer e a Moderna e un’altra di oltre tre anni a uno collegato al vaccino AstraZeneca contro il Sars-Covid 19. Si tratta di proroghe che si aggiungono ai quindici anni di monopolio già previsti dagli accordi internazionali sulla proprietà intellettuale (gli accordi TRIPs).
Nel frattempo, l’Unione Europea si prepara a buttare 55 milioni di dosi di vaccino prossime alla scadenza. In Africa a partire dal primo gennaio, secondo i dati Oxfam, circa 250.000 persone sono morte a causa del Covid (una media di circa 7000 al giorno), mentre per la scarsità di vaccini disponibili solo l’11% della popolazione dell’intero continente ha ricevuto due dosi. L’Unione Europea ha donato all’Africa 30 milioni di dosi: di fatto solo l’8% dei vaccini prodotti in Europa nel 2022.
Esiste dunque una palese diseguaglianza nell’accesso alle cure: questo problema non ha riguardato e non riguarda solo la recente pandemia (basti pensare all’Hiv), tuttavia essa è stata molto istruttiva riguardo l’approfondimento di asimmetrie, già esistenti, tra continenti e popolazioni. Da tali squilibri dipende la possibilità di vivere o morire delle persone. In tutto questo è importante sottolineare anche che le donne, più degli uomini, non solo hanno dovuto sopportare maggiori carichi di cura nell’assistere bambini, anziani e disabili ma, in questa fase, hanno incontrato maggiori difficoltà nei servizi di medicina preventiva, riproduttiva e sessuale.
Il tema della proprietà intellettuale è dunque dirimente per imprimere un profilo alternativo alle politiche pubbliche. La privatizzazione della conoscenza va di pari passo con la privatizzazione dei servizi sociali di base, a partire dalla sanità e dall’istruzione. La logica della mercificazione della vita è oggi la prima fonte di profitto: il Welfare rischia di trasformarsi palesemente in una merce da acquistare “semplicemente” sul mercato.
Sebbene l’emergenza sanitaria abbia messo in luce le contraddizioni di tale processo, a partire dai problemi generati dai tagli alla sanità pubblica soprattutto nelle regioni del Nord, proprio la Lombardia è di nuovo capofila nel riproporre il modello della sanità privata, con la recente Riforma Moratti, approvato dal consiglio regionale lo scorso novembre.
Insomma, proprietà intellettuale sui farmaci, privatizzazione del servizio sanitario, aggravamento delle disparità di classe, di genere e di collocazione geografica sono processi sinergici che si alimentano a vicenda, rischiando di dominare in modo grave la vita dell’umanità, attuale e futura. Tutto questo, mentre, tra l’altro, si allarga l’ombra di una nuova guerra armata – tra altre guerre – e mentre i problemi climatici si configurano come altra faccia di un conflitto aperto con il vivente, anche in questi casi dall’assenza di limite all’accumulazione dei profitti.
Pensiamo, perciò, necessario un pensiero che ci aiuti a ritrovare il senso autentico della convivenza sociale e della politica.
Pensiamo necessario partire da una seria informazione su tali temi nevralgici per contribuire a favorire una maggior consapevolezza di tutte e di tutti.
Con queste ispirazioni, Effimera organizza un incontro pubblico di discussione e di riflessione critica, sabato 26 marzo presso la Casa della Cultura, in Via Borgogna, suddiviso in due sessioni.
La prima, dalle 10 alle 13, avrà come oggetto il tema della proprietà intellettuale sui vaccini. La seconda, dalle 15 alle 18, tratterà invece il caso della sanità pubblica italiana.

Scarica il Programma

 

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 18 marzo 2022

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