Le ultime mimose di Odessa
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di Giovanni Zaffagnini
Ferite ancora aperte a 70 anni dal passaggio del fronte nei paesi della Bassa-Romagna.
Chissà se i frequentatori del Parco Piancastelli a Fusignano notano i segni delle granate dell’ultima guerra sul muro di cinta e se hanno mai pensato a coloro che il 27 dicembre del 44 erano lì.
Alcuni liceali, ospiti di una trasmissione televisiva, forse confusi dai video-games, pensano che la guerra sia una soluzione inevitabile e risolutiva.
I clienti del Bar Caio non danno importanza ai segni sui muri, loro la guerra la vedono ogni giorno nei telegiornali, poi è lontana dicono, non ci riguarda.
Cicloamatori solitari procedono lenti e scrutano il territorio in ogni sua parte. Mi trovo di fronte alla casa ferita che uno di loro mi ha segnalato: è piena di ostacoli, poco propensa alle ragioni del fotografo, aspetto l’arrivo del sole nel labirinto, è un’attesa paziente e inutile. Da sempre i fotografi combattono con la luce, mentre scrittori e poeti lottano con le parole, io, poco avvezzo allo scrivere, in questo momento comprendo la loro fatica.
Non ho alternative, le case ferite sono rare, devo assolutamente trovare un’inquadratura decente, è da ieri che combatto, tornerò domani a un’ora diversa.
Schegge, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2016.
di Effimera
“Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri che muoiono”
(J. P. Sartre, Il Diavolo e il buon dio, 1962)
Il precipitare della situazione in Ucraina non sorprende del tutto. Ci sorprende, per quel che è dato sapere mentre scriviamo, nel pomeriggio del 24 febbraio 2022, la vastità dell’operazione che Putin ha deciso di scatenare.
Il casus belli va ricercato lontano, quasi un decennio fa, quando ci fu il cambio di governo a Kiev. Un movimento genuino iniziato con il movimento arancione nel 2004, trova il suo compimento dieci anni dopo nel 2014 con l’uscita di scena dell’allora presidente dell’Ucraina, Viktor Janukovyč (filo russo), in cerca di maggior democrazia (richiesta che potrebbe essere valida in qualsiasi paese, a Oriente come a Occidente) e viene di fatto strumentalizzato per insediare un governo nazionalista filo-occidentale (come spesso succede, pensiamo alle cosiddette Primavere arabe). Tali fatti innescano una spirale di eventi che acuiscono la tensione: la minoranza russa del Donbass comincia a sentirsi meno protetta, anche a seguito di alcuni attacchi di gruppi neo-nazisti che avevano già colpito a Kiev e a Odessa. La politica sovranista di Putin coglie l’occasione per annettere la Crimea, regione strategica fondamentale per la dottrina Monroe in salsa russa, rappresentando lo sbocco al mare e al Mediterraneo. La situazione rimane instabile in presenza di una guerra a bassa intensità nel Donbass, in qualche modo regolata dagli accordi di Minsk, che, in cambio dell’immediato cessate il fuoco, dovevano garantire maggiori poteri autonomi alle due repubbliche filorusse. Le violazioni alla tregua sancita a Minsk sono tuttavia ripetute e da ambo le parti, la maggiore autonomia di fatto non viene concessa: il risultato è un bilancio, fino a oggi, di oltre 14.000 morti.
Le elezioni del 2019 portano al potere in Ucraina l’ex comico (di lingua russa) Volodymyr Zelens’kyj, accentuando la svolta filo-atlantistica, con l’approvazione di un emendamento costituzionale che impone l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Una richiesta che viene subito definita da Putin inaccettabile. E la tensione ritorna a crescere.
Viene in mentre la crisi dei missili a Cuba, dopo che gli Stati Uniti avevano cercato di rovesciare il governo cubano con il fallito attacco alla Baia dei Porci. Proviamo a immaginare uno stato che confina con gli Stati Uniti (ad esempio il Canada) che entra a far parte di un’alleanza con la Russia o la Cina. La reazione Usa verrebbe immediatamente giustificata dai media filo-occidentali.
L’insistenza della Nato a trazione Usa con la collaborazione supina dei paesi membri europei ad accettare l’entrata di Kiev tra i paesi membri (e, in prospettiva, della Georgia) non giustifica l’aggressione russa ma ne fa comprendere le ragioni. Da questo punto di vista tra le due ex super potenze la differenza è minima. Entrambe attuano politiche egemoniche, giustificate dalla stessa dottrina Monroe pur con differente collocazione geografica. Ad entrambe, per ragioni diverse ma non opposte, questa guerra conviene. Putin mira al rafforzamento della sua potenza militare nazionalista e sovranista per recuperare terreno sul fronte economico. E ad aprire una possibile interlocuzione con la Cina, con un rapporto di forza maggiore. Biden e il partito democratico hanno un disperato bisogno di rallentare il declino americano, acuito da forti crisi interne, cercando di recuperare quella leadership militare che le vicende afghane hanno fortemente indebolito. E non è nascosto il tentativo di impedire una maggior partnership economica tra l’Europa e la Russia. Non è una novità che ciò avvenga quando alla Casa Bianca alloggia un presidente del Partito Democratico. Come in Italia sono i partiti di centro-sinistra ad aver partorito le peggiori leggi contro i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori (dal pacchetto Treu al Jobs Act), negli Usa, sono i presidenti democratici ad essere i più guerrafondai.
Si tratta, inoltre, di soddisfare le lobby delle armi che sono particolarmente potenti negli Usa oltre che in Russia e il cui ruolo non è affatto banale anche in Italia. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), un istituto internazionale indipendente che si occupa di conflitti, armi, controllo degli armamenti e disarmo, il valore annuale del commercio mondiale di armi ha superato i 75 miliardi di euro negli ultimi anni. Nel 2020 gli Stati Uniti hanno incrementato le vendite del 15% e rafforzato la propria posizione egemonica. Quasi il 40% delle armi importate negli ultimi cinque anni analizzati (2016-2020) è stato prodotto negli USA. Le esportazioni di Washington sono già quasi il doppio di quelle di Mosca, dopo pochi anni.
L’Italia, nel frattempo, non si sente affatto estranea alla contesa, anzi. Il ministro della difesa Guerini ha già dichiarato che l’Italia potrebbe schierare 2000 militari, mentre le basi Nato in Italia – Vicenza e Sigonella – sono già pienamente operative e la 173rd Airborne Brigade ha comunicato che «circa 800 soldati della 173/a brigata aviotrasportata Usaf di stanza a Vicenza sono in partenza per la Lettonia, dove saranno dispiegati per rafforzare le capacità difensive dell’alleanza Nato». Eppure per il coinvolgimento nelle operazioni della Nato dovrebbe esserci un voto del Parlamento.
A fronte di questa situazione, fortemente preoccupante, crediamo che per risolvere il conflitto in modo pacifico siano necessarie due mosse, entrambe in mano all’Europa. La richiesta di una neutralità dell’Ucraina sul modello della Svizzera (come suggerito anche da Sergio Romano, intervistato da Alberto Negri) e il distanziamento dalla politica internazionale degli Usa, chiedendo un ridimensionamento della Nato, un’organizzazione che non ha più ragione di esistere se non per finalità imperialistiche che oggi non hanno più storia.
Tuttavia l’Europa, parafrasando Metternich, è oggi, in campo internazionale, solo un’”espressione geografica”, a conferma dell’incompiutezza del progetto di unificazione, carente non solo nella politica estera ma anche nella politica fiscale e di difesa. È auspicabile che l’attuale situazione possa rappresentare un campanello d’allarme in grado di stimolare un processo di liberazione dalla sudditanza agli Usa, nata dopo la II Guerra Mondiale.
Il contesto attuale è infatti completamente diverso. Non solo non esiste più l’URSS come modello alternativo al capitalismo, ma esistono diverse forme di capitalismo fra loro in competizione, con diversi gradi di dirigismo. E tra queste, gioca un ruolo sempre più importante la Cina, che oggi è il vero convitato di pietra, in grado di sfruttare al meglio l’attuale crisi. E non esiste più neanche il Patto di Varsavia, sciolto da Gorbaciov (premio Nobel per la Pace) il 1 aprile 1991, con la promessa che la Nato non si sarebbe mai estesa verso Est. Promessa che, come abbiamo visto, non è stata mantenuta.
L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 25 febbraio 2022
L’attacco russo in Ucraina conviene a tutti tranne che all’umanità Leggi tutto »
di Raffaele Crocco
Al netto di ogni considerazione, c’è che la guerra uno la fa se gli conviene. Altrimenti la evita, perché la guerra è una di quelle cose imprevedibili, in cui la garanzia di avere la superiorità militare, non è garanzia di vittoria. Almeno se parliamo di guerra convenzionale, non nucleare. Gli Stati Uniti lo hanno imparato in Vietnam, Afghanistan. I russi lo hanno appreso in Afghanistan e, in parte, in Cecenia. Se questo è vero – e lo è, in termini di analisi – la domanda è: perché Putin dovrebbe fare la guerra? Per quale ragione?Quello che voleva lo ha già ottenuto da tempo.
L’Ucraina per i prossimi vent’anni e sino a quando la guerra – quella sì che c’è – nel Donbass non sarà risolta, non potrà in ogni caso entrare nella Nato, per assenza di requisiti. La Georgia è nelle medesime condizioni. Ogni allargamento dell’Alleanza, quindi, è pura teoria, estremo gioco di fantasia. I confini fra Russia e Nato sono quelli attuali e resteranno così per un pezzo, cosa che per il capo del Cremlino è fondamentale. Contemporaneamente, Putin ha chiuso un accordo con la grande rivale degli Usa, la Cina. Accordo che gli permetterà di rafforzarsi economicamente e di dedicarsi al futuro. Futuro che si chiama Rotta Artica: è quella rotta navale e commerciale che si sta aprendo grazie allo scioglimento dei ghiacci e che consentirà di trasportare merci più in fretta e con minor costo passando a Nord, nel Mare Artico, praticamente sempre davanti alla Russia.
Guardate la cartina: i canali di Panama e Suez diventeranno vecchi di colpo. La Cina, per arrivare in Europa – che ricordiamolo, resta il più grande e ricco mercato mondiale – passerà da Nord, con l’aiuto dell’amica Russia. Per gli Usa un colpo durissimo, per la Russia la possibilità di controllare rotte semplici e fondamentali.
In questa situazione, con il prestigio internazionale ripristinato e con il Mondo riposizionato, perché Putin dovrebbe fare la guerra? Perché non dovremmo invece semplicemente credere al fatto che l’invasione dell’Ucraina non è mai realmente stata pianificata? Perché non dovremmo credere al ritiro delle truppe, soprattutto se questo ritiro è – banalmente – la fine di una lunga esercitazione? La guerra si ferma anche usando la logica e mantenendo i nervi saldi. Il continuo gridare “al lupo, al lupo” degli Stati Uniti sembra l’urlo isterico di chi sa di aver perso posizioni e prestigio.
Washington negli ultimi vent’anni ha già trascinato il Mondo in guerra con la menzogna, non dimentichiamolo. Abbiamo occupato l’Afghanistan raccontandoci che i talebani erano gli autori, con Osama bin Laden, degli attentati alle torri di New York. Stiamo occupando da quasi vent’anni l’Iraq, perché i servizi segreti statunitensi dicevano che aveva armi chimiche: non era vero. Ora siamo alla nuova isteria. Non caschiamoci. Non si tratta di pensare che Putin sia migliore o “buono”. Si tratta di capire che Putin non è stupido e non gli conviene fare la guerra.
Si tratta di ascoltare quello che, ad esempio, dice la chiesa cattolica ucraina attraverso il vescovo di Kiev, Vitalii Kryvytskyi: “Se da un lato non vediamo motivi politici per l’inizio di una guerra, c’è già chi sostiene che la guerra sia già cominciata, anche se magari sono gli stessi media che ancora uno o due anni fa negavano che in Ucraina ci fosse un conflitto iniziato in realtà già otto anni fa”. “L’Ucraina – aggiunge – deve restare indipendente e respingere ogni desiderio imperialista”. Insomma, informiamoci meglio e con lucidità. Forse così aiuteremo molto di più e molto meglio il popolo ucraino.
L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 16 febbraio 2022
La vittoria di Putin e l’isteria della guerra Leggi tutto »
Chi come me ne ha avuto esperienza diretta, conosce bene l’impatto emotivo di vedere, nel buio della camera oscura, la lenta trasfigurazione in immagini dei frammenti di realtà catturati con l’obiettivo della macchina fotografica. I protofotografi di inizio Ottocento definivano “magia” questo processo di trasformazione collocato tra arte e scienza, e per davvero sembrò tale perché il supporto fotosensibile sapeva restituire le figure originali in tutti i loro dettagli.
Negli anni la ricerca tecnologica ha messo a punto tecniche e strumenti sempre più sofisticati a beneficio della fotografia, riconosciuta, tra i moderni mezzi di comunicazione, come uno dei più espressivi e creativi.
Oggi predomina la tecnologia digitale che ha interrotto quel rapporto stretto, direi fisico, tra il fotografo e l’immagine, rapporto a cui non rinunciano i non pochi appassionati che ancor oggi scelgono la tecnica di sviluppo tradizionale.
Le fotografie di questa rassegna non escono fuori dalla camera oscura, ma costituiscono una selezionata raccolta di immagini, in prevalenza tratte dall’archivio del mio lavoro di fotocronista; ricordi di viaggio insieme a momenti catturati nella loro spontaneità quando persone e situazioni attirano la mia attenzione.
Il titolo della mostra allude metaforicamente a quella secolare “camera oscura” del pregiudizio, della discriminazione che ha relegato le donne nel buio delle stanze domestiche, in ambiti marginali della società, generalmente deputate a compiti di cura. È una “camera oscura” simbolica da cui oggi le donne sono uscite, sviluppando tutte le loro potenzialità latenti, a lungo inespresse o misconosciute, rendendosi presenze sempre più “visibili”.
Le donne oggi hanno acquisito piena consapevolezza di sé, hanno rivendicato la loro dignità, si sono mobilitate a difesa della parità di genere, dei diritti civili, fanno parte del mondo del lavoro, fino ad assumere ruoli di vertice, grazie al loro talento e alla loro determinazione.
Sono enunciazioni di principio che testimoniano l’avviata maturazione culturale della società nei riguardi dell’universo femminile, nonostante il perdurare di tanti ostacoli da superare per la piena emancipazione. Prova ne siano le donne che nei Paesi islamici vivono ancora nel buio la loro condizione e le inammissibili forme di violenza che le donne continuano a subire, sotto qualsiasi cielo e cultura.
In questa rassegna fotografica troverete, accanto a personalità di spicco, persone comuni riprese nella quotidianità della loro esistenza. Fra le tante possibili scelte, ho privilegiato i soggetti che a mio parere risultano più significativi per il contesto, per un movimento, per un gesto, un’espressione, e per il significato sotteso nei loro sguardi. Coinvolgente è stato per me l’impatto con le manifestazioni di protesta, in cui le donne si sono esposte con risolutezza per la rivendicazione dei diritti, per la denuncia dei pregiudizi di genere, in cui hanno fatto sentire alta la loro voce per renderla udibile al mondo intero.
Mostra fotografica presso lo spazio espositivo PALLAVICINI22 ART GALLERY
INAUGURAZIONE
Sabato 26 febbraio 2022 alle ore 18.30
ORARI
Tutti i pomeriggi dalle 17:00 alle 20:00
Dal venerdì alla domenica anche al mattino dalle 09:00 alle 13:00
di Michela Mollia
La realtà è mobile, fluida, al contrario della fotografia che può isolare l’attimo per restituircelo come fosse senza tempo. L’occhio vigile del fotografo ci mette in condizione di sospendere per qualche istante il flusso di visioni che sollecitano normalmente la nostra vista, per concentrarci su una precisa immagine. Ci invita a guardare: guardare come atto di attenzione e consapevolezza rispetto al vedere, che si limita alla funzionalità fisiologica del nostro occhio.
Giuseppe Nicoloro riesce a indurci questo tipo di attenzione scegliendo, isolando un particolare, una scena, una persona, un gesto, che potrebbero passare inosservati. Lo scatto delimita, ci obbliga a guardare all’interno della sua cornice: è la particolarità dell’inquadratura che “si fa guardare e ci parla”.
In questa mostra fotografica le donne sono riprese nel quotidiano, nel ruolo materno, nel tempo libero, nei gesti del lavoro, all’opera con le mani. I loro volti esprimono serietà, impegno, soddisfazione, ma anche determinazione e successo: sono le donne intorno a noi in cui noi stesse ci riconosciamo. Non tutte però rappresentano una condizione di parità e in alcuni casi il fotografo vuole cogliere l’ironia sottile dei gesti e degli sguardi. In alcune percepiamo la povertà, il peso dell’esistenza, l’angoscia per il futuro imperscrutabile come possibili condizioni umane, nemmeno tanto lontane dai nostri occhi, come nell’immagine della donna seduta sui gradini della scala di una delle tante metropolitane milanesi. In questo caso la scala non è simbolo di ascesa o di successo, ma di emarginazione e solitudine.
La figura femminile seduta sul masso, nella sua grazia pudica, completamente vestita, con il solo piede scoperto, richiama la caravaggesca Madonna dei Pellegrini, conservata nella basilica di Sant’Agostino a Roma. Nel suo essere assorta, non guarda verso il mare alle sue spalle, dove i bagnanti si immergono. L’inquadratura che il fotografo ci propone sembra dirci che la donna si nega persino la possibilità di volgersi, per non cedere al richiamo del mare, simbolo di fuga, libertà e scoperta.
La giovane donna in nero, dritta e filiforme, che si batte per i suoi diritti, risponde alla verticalità perfettamente geometrica del grattacielo.
Tra le diverse declinazioni del tema della femminilità, lo scatto del fotografo ci sollecita a considerare anche la femminilità transgender. Femminilità desiderata, voluta, orgogliosamente conquistata e quindi ostentata contro il pregiudizio dominante.
A queste scene di vita, a volte tenere e poetiche, fa da contrappunto, accentuato dall’uso del bianco e nero, l’irruenza delle immagini delle manifestazioni in cui le donne inneggiano, provocano, erompono nelle vie cittadine, a ricordarci che la condizione femminile, ancora instabile e contraddittoria, è da difendere e che le donne sono capaci di battersi per vedere riconosciuti i propri diritti.
È così che, terminato il nostro percorso, possiamo dire di aver guardato
“Fuori dalla camera oscura” Leggi tutto »