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La Divina Commedia

La lettura come traduzione

legge Andrea Zuccolo

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Poesie II

 

di Bruna Alboni

PENSIERI IN TRENO

La vita impone delle scelte
A cui non possiamo sottrarci
E con l’animo in lotta
Si è costretti inevitabilmente
Ad escludere ogni alternativa

Lungo le rotaie
Neve di biancospino
È scesa
Sullo smeraldo di primavera
Da una nuvola di sole.

STRADE IGNOTE

Al mio paese le case
Hanno un’anima
Qui i volti stessi
Sono case di pietra

SUONANO

Suonano alla porta.
No, non aprire,
è la notte alla soglia.
Metti il catenaccio,
se guardi entrerà l’addiaccio.
Suonano ancora.
No, non andare.
Lascia ancora spazio ai tuoi sogni
È la realtà che vuole entrare.

ATTESA

Attendere
Sperare
Chissà
Domani
Attendere.

DI FRONTE AL MALE

Mi sento inerme
Di fronte al male
Non ho parole
Non ho discorsi
Non ho difese.
Mi lascio avvolgere
Travolgere
Lacerare
Perché non ho potere
Contro il male.
Ritorno all’infanzia
All’impotenza del neonato
E sorrido anche
Al male.
Del male
Conosco solamente
Il dolore
Che rimane.

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Il Golpe Borghese: la verità giudiziaria e quella storica

Partendo dal libro di Fulvio Mazza, intervistiamo l’avvocato Giovanni Pellegrino, Presidente della Commissione stragi (1994-2001)

di Alessandro Milito

Intervistare l’avvocato Giovanni Pellegrino, il temuto Presidente della Commissione stragi (che operò, nella sua seconda fase, dal 1994 al 2001), è, oltre che un onore, una responsabilità non da poco. Non è semplice. Dialogare con colui che, insieme a pochissimi altri in Italia, conosce nei particolari le varie vicende storiche, politiche e giudiziarie che hanno contraddistinto quegli anni significa toccare molti dei più delicati punti della nostra storia repubblicana.
E il Golpe Borghese, che fu tentato nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970, rientra appieno in questo contesto. Il tentato golpe, sino all’uscita del volume qui trattato, era avvolto nella nebbia di molti misteri che ora appaiono invece per gran parte risolti.
Non a caso il magistrato Guido Salvini, autore di fondamentali indagini risultate in altrettanto fondamentali Sentenze sui fatti di quegli anni, ha scritto che «Il saggio di Fulvio Mazza […] fornisce, nel cinquantennale del tentativo di golpe, una risposta ragionata a tutti gli interrogativi posti dagli avvenimenti del 7-8 dicembre 1970».
Ovviamente, non significa che questo libro abbia detto tutto ciò che c’era da dire in merito e che quindi non siano necessarie ulteriori ricerche storiche. Vi sono difatti numerosi aspetti da dover ancora approfondire, ed è il testo stesso a metterli in evidenza. Un esempio per tutti: il falso giudiziario contenuto nel terzo “Malloppino” in cui si descriveva una riunione che si sarebbe svolta in una data che era ancora di là da venire: una vera e propria preveggenza!
Va però evidenziato come il saggio abbia aggiunto diversi nuovi dati e interpretazioni, grazie all’utilizzo di fonti inedite o che comunque non erano state sufficientemente verificate con la giusta attenzione e spirito critico.
Ma torniamo all’avvocato Pellegrino ricordando come, da Presidente della Commissione stragi, abbia, in numerosi casi, contribuito in maniera determinante a far luce sui punti più oscuri di quelle vicende. O di come abbia permesso di produrre documenti fondamentali per gli studiosi interessati a ricostruire la verità di quegli anni. È questo il caso de Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il golpista Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti” (Pellegrini editore, seconda edizione, 2021, pp. 304, € 16,00), il cui autore, lo storico e saggista Fulvio Mazza, si è avvalso, per l’appunto, (anche) dei materiali della Commissione.
È quindi con la stima che si deve alla personalità dell’avvocato Pellegrino che ha così tenacemente contribuito a far emergere la verità degli anni delle stragi che abbiamo condotto quest’intervista, la quale, ci auguriamo, si rivelerà utile e illuminante per il lettore.

Presidente, il saggio, sin dal suo titolo, parla della necessità di una sorta di provocatorio “Quarto grado di giudizio” in quanto la verità giudiziaria, nel caso del Golpe Borghese, è molto differente rispetto a quella storica. Lei condivide tale necessità?
Non c’è alcun dubbio che sia andata proprio così. D’altra parte la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi fu costituita proprio perché la risposta giudiziaria era del tutto insoddisfacente e quindi era sorta la necessità di far chiarezza sugli anni delle stragi, della Strategia della tensione, e appunto sul Golpe Borghese.
L’azione depistante e censoria di Maletti e di Andreotti, come giustamente è evidenziato nel libro, determinò una carenza di verità che la nostra Commissione era chiamata a risolvere.

Il libro mette in evidenza come il Golpe Borghese sia stato definito da più parti un “Golpe da operetta” e, dalla Cassazione, un «complotto di pensionati sostanzialmente inoffensivi».
Il saggio mette invece in evidenza la pericolosità del Golpe e, in particolare, sottolinea come Junio Valerio Borghese non fosse uno sprovveduto dal punto di vista della preparazione militare. Di conseguenza, non si sarebbe mai messo alla testa di un complotto del genere se non avesse avuto una certa sicurezza di portarlo vittoriosamente a termine. Alla luce della sua esperienza di Presidente della Commissione stragi, che conclusioni ha tratto su questo punto?

Junio Valerio Borghese era un “uomo d’arme”, non certo uno sprovveduto. Ricordo che era un militare di grande esperienza. Non dimentichiamo che rifondò nella Repubblica sociale italiana la X Mas e che questa fu una delle strutture militari più efficienti della Rsi. Non era uno sprovveduto nemmeno in ambito politico. Ricordo che riuscì a mantenere una posizione di autonomia rispetto ai tedeschi e anche rispetto al governo di Mussolini stesso, e che riuscì a sottrarsi alla giustizia partigiana accordandosi con i Servizi segreti angloamericani.
Ebbene, un personaggio del genere non poteva di certo avventurarsi in un Golpe che non avesse avuto concrete possibilità di successo.

Borghese morì nell’agosto del 1974, proprio quando stava preparando il suo ritorno in Italia (tale suo progetto era ben noto) e proprio mentre Maletti e Andreotti stavano spulciando il rapporto del Sid del 26 giugno precedente per stabilire cosa inserire e cosa censurare nel testo che avrebbero poi consegnato alla Magistratura il 15 settembre successivo. In quei giorni, dunque, mentre Maletti e Andreotti stabilivano cosa far sapere o meno alla Magistratura, Borghese improvvisamente morì. In tal modo si evitò il rischio che potesse chiamare in causa, per esempio, le persone salvate proprio da Maletti e da Andreotti. Non le pare una coincidenza un po’ strana? Il libro sostiene l’ipotesi che si sia trattato di un assassinio. Lei come la pensa?
Concordo anche su questo punto: in particolare fu Stefano Delle Chiaie a insistere molto circa la forte probabilità che Borghese fosse stato ucciso da un caffè avvelenato. In effetti, se fosse tornato in Italia avrebbe probabilmente scatenato un terremoto politico-giudiziario spiegando il coinvolgimento di diverse persone nel Golpe, ivi comprese quelle che, grazie ai depistaggi di Maletti e Andreotti, erano riuscite a farla franca. Ricordiamo che il 1974 è un anno cruciale, in quanto è quello della Rivoluzione dei garofani in Portogallo e della caduta dei colonnelli greci.
Se fosse tornato in Italia, Borghese avrebbe potuto mettere in crisi tutta l’azione depistante e censoria di Maletti, Andreotti, ecc.

Nel saggio si racconta di come lei riuscì a fare ammettere a Maletti l’appoggio sostanziale che i Servizi segreti, e lo Stato in generale, diedero ai golpisti e il perché di un tale sostegno. Questa tesi, nel libro, viene definita “Dottrina Maletti”. Condivide tale neologismo storico-politico?
Sì, possiamo chiamarla “Dottrina Maletti”. Ma, al di là delle denominazioni, è stato importante sentire da Maletti la conferma dell’ipotesi che si era andata delineando.

Ci può descrivere tale “Dottrina”?
Certamente. Lo faccio riportando lo stesso brano presente nel libro che riporta quanto dissi allora e quanto ribadisco adesso:
«Ora, quando abbiamo sentito il generale Maletti, io ho formulato al generale un’ipotesi […] che in realtà l’origine dello stragismo va individuata nell’esistenza in Italia di una serie di reti operative, alcune ufficiali, come era il Sid, altre semiufficiali, come poteva essere Gladio, e altre reti; che queste reti avevano come terminale periferico uomini dell’estremismo di destra, io dico della destra radicale, che con ogni probabilità sono questi a commettere le stragi e lo fanno, però, non per aver ricevuto un input dall’alto ma probabilmente anche per logiche di attivismo autonomo o per deviazioni da piani concordati.
L’ipotesi si completa nella valutazione che queste persone sono state coperte – e quindi per queste ragioni i colpevoli dello stragismo non sono stati individuati – non perché in se stesse meritassero protezione, ma perché si volevano coprire le responsabilità istituzionali e politiche del rapporto anteriore che queste persone avevano avuto con queste reti ufficiali o clandestine […]. Devo dire che il generale Maletti ha asseverato questa ricostruzione».

In che contesto avvennero tali ammissioni di Maletti?
Queste affermazioni furono fatte da Maletti a Johannesburg, in Sudafrica, quando ci recammo con la Commissione stragi nel 1997.
Fu una visita molto dibattuta perché ci accusarono di essere scesi a patti con un latitante, ma sono ben soddisfatto di questa scelta, sia perché emersero questi e altri dati fondamentali sugli anni delle stragi, sia perché facemmo da apripista per una sorta di pellegrinaggio giudiziario che caratterizzò altre visite a Maletti da parte di diversi inquirenti italiani.

Le grandi censure al “Malloppo originario” delle indagini scaturite dall’infiltrazione del capitano del Sid Labruna all’interno del mondo golpista (e da qualche altro sparuto atto procurato da ulteriori agenti del Sid) furono attuate da Maletti nei primi mesi del 1974, tanto che il documento del 26 giugno di quello stesso anno contiene molto meno materiale rispetto a quanto originariamente era stato presentato allo stesso Maletti. Per fare un esempio, potremmo evidenziare la censura che salvò l’ammiraglio Torrisi e come, nel suddetto documento del 26 giugno, non ci fosse alcun riferimento al ruolo di Licio Gelli in generale e, in particolare, al progetto di rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Il libro cambia le denominazioni date ai documenti dai giornalisti e acriticamente recepite dagli storici. Ciò avviene in quanto sinora il documento del 26 giugno veniva definito il “Malloppone”, mentre nel libro viene chiamato “Malloppastro” per specificare come fu un testo tagliato e denaturato che, dunque, non può definirsi logicamente “Malloppone” poiché quest’ultimo termine dà piuttosto l’idea di un testo molto corposo.
Volendo mettere in ordine anche le terminologie, concorda dunque nella differenziazione in “Malloppo originario” per indicare la grande quantità di documenti inizialmente prodotti da Labruna e altri, in “Malloppastro” per identificare il testo che scaturì dalle prime censure di Maletti, e a confermare la denominazione di “Malloppini” per definire i documenti esili che alla fine furono consegnati, dopo le ulteriori censure di Maletti (e di Andreotti) il 15 settembre 1974 alla Magistratura?

In effetti definire “Malloppone” quel testo che era nato monco a causa dei tagli che Maletti aveva fatto al rapporto di Labruna e altri è un po’ un controsenso, il termine “Malloppastro” si confà di più.
Ma, al di là delle denominazioni, il libro ha fatto bene a mettere in evidenza che il corposo rapporto di Labruna (corroborato da qualche documento di altri agenti) può essere denominato “Malloppo originario”, perché è il punto di partenza che si concluderà, censura dopo censura, nei tre esili fascicoli giustamente definiti i “Malloppini”.

La Storia si fa con i “se”. Se così non fosse, sarebbe una pura cronologia. I “se” sono necessari a interpretare.
In virtù di ciò, se Maletti e Andreotti non avessero bloccato la trasmissione alla Magistratura dei documenti provenienti dal “Malloppo originario”, e se la Corte di Cassazione non avesse tolto le indagini ai magistrati di Padova e di Torino (designando il “Porto delle nebbie” di Roma come unica Procura competente), non pensa che si sarebbe giunti con una certa facilità a individuare le trame del Golpe Borghese? Non pensa che si sarebbero bloccate sul nascere anche quelle cospirazioni successive che nel libro vengono definite lo “sciame golpista” degli anni 1971-74?
Non pensa che in questo modo l’Italia si sarebbe risparmiata stragi, decine e decine di morti, sangue e violenze?

Sì, è ben probabile che senza i depistaggi e le censure, e senza la determinazione della Cassazione che lei ha citato, molte stragi, attentati, omicidi e molto sangue innocente sarebbero stati risparmiati.

Nel libro emerge la figura del capitano Antonio Labruna in modo differente da come è stato solitamente disegnato. Emerge come un uomo coraggioso e caparbio che, rischiando la pelle in prima persona, si infiltrò fra i golpisti, ne denunciò le trame e divenne una sorta di vittima sacrificale dovuta alla vendetta dei neofascisti. Pur non esentandolo da critiche, emerge anche come un uomo ligio agli ordini che, come scrisse il giudice Salvini, nessuno volle difendere e perciò finì per diventare un “capro espiatorio” di tutte le malefatte del Sid. Condivide questa sorta di riabilitazione?
Sì, Labruna fu una vittima inconsapevole di questo meccanismo. Fece il suo dovere infiltrandosi negli ambienti fascisti e traendo informazioni importanti, però poi fu abbandonato alla prima difficoltà. Anche perché era andato a toccare ambienti e nomi che il Sid, e in generale il potere costituito di allora, non voleva assolutamente fossero toccati. Labruna ha subito una damnatio memoriae che va contrastata.

Nel libro si mette in evidenza come la sinistra, per i generali dell’Esercito italiano, fosse il nemico. Condivide questa tesi?
Purtroppo era così. Ricordo in particolare due audizioni della nostra Commissione.
Ricordo come il Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica (e poi della Difesa), il generale Mario Arpino, spiegò che ancora nel 1980 un terzo del Parlamento italiano era per i militari considerato “il nemico” e come Maletti evidenziò che, fino al 1974, nessuno gli aveva mai detto che il compito degli apparati di sicurezza era anche quello di tutelare la Costituzione. Siamo negli anni che Cossiga definì di “Guerra mondiale a bassa intensità”. Per capire gli avvenimenti di allora dobbiamo tenere presente questi fattori e anche, in particolare, il fatto che l’equilibrio politico in Italia era in quegli anni basato su di un patto di indicibilità e in qualche modo di reciproca ipocrisia: ciascuno sapeva dei legami illegali dell’altro, ma non li denunciava apertamente. Le due parti si attaccavano vicendevolmente senza esagerare. Il governo era perfettamente a conoscenza dei finanziamenti che pervenivano dall’Urss al Pci; così le sinistre sapevano delle illegalità istituzionali commesse dagli apparati di sicurezza e avallate da uomini di vertice della Dc. Questo era il clima e il sistema della Costituzione materiale di allora.

Come va inquadrato il ruolo di Andreotti?
Andreotti è uno dei politici che ha più e meglio rappresentato questo quadro storico-istituzionale. La sua connivenza, e probabilmente anche complicità verso il Golpe, non mi meraviglia affatto.

Stesso dicasi dunque per il Pci, partito estremamente cauto nella denuncia del Golpe pur avendo avuto informazioni immediate e dirette circa il Golpe stesso e che invece fece filtrare la notizia solo dopo tre mesi?
Sostanzialmente sì: attaccò fortemente il governo ma senza esagerare. Ed evitò di personalizzare gli attacchi contro Andreotti con il quale ebbe sempre un filo di particolare dialogo.

Parliamo del “Contrordine” che fu emanato da Borghese dopo aver ricevuto una misteriosa telefonata. Alcune attendibili piste documentarie e testimoniali portano a concludere che a chiamare il Comandante fu Licio Gelli. Altre fonti, ugualmente attendibili e sempre documentarie e testimoniali, accreditano invece la tesi che fu Giulio Andreotti. Nel libro viene evidenziato che non si tratta necessariamente di due piste alternative ma che potrebbero essere convergenti in quanto entrambi i personaggi erano portatori di istanze similari.
Lei condivide questa ipotesi?

Andreotti e Gelli erano personaggi diversissimi l’uno dall’altro ma, nella sostanza, si mostrarono spesso portatori di interessi convergenti. Nulla di più probabile, dunque, che – una volta constatata la defezione dei Carabinieri e degli Usa – si siano coordinati fra di loro per ingiungere a Borghese l’emanazione del famoso “Contrordine”.

L’intervista è stata pubblicata sul numero di giugno 2021 di Bottegascriptamanent

Fulvio Mazza – Il Golpe Borghese quarto grado di giudizio. Luigi Pellegrini Editore, 2021

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Dove sta andando il western?

di Sergio Tardetti

Riflessioni a margine della visione di “I segreti di Brokeback mountain
Entrato nella sala cinematografica per assistere alla proiezione del film “I segreti di Brokeback mountain”, ne sono uscito con molte meno certezze. Il fatto è che i rassicuranti stilemi del cinema classico hollywoodiano degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso si stanno vistosamente incrinando sotto i robusti colpi di registi che, pur attingendo ai cospicui budget e al supporto tecnico della grande fabbrica del cinema made in USA, riescono tuttavia a mantenerne adeguatamente le distanze. Figure di professionisti internazionali campeggiano sulla scena dei teatri di posa, directors di successo, che nulla hanno a che vedere con tante pallide ombre di registi del cinema classico, quando dominava incontrastata la temutissima personalità del produttore. Egli rappresentava allora una divinità incostante e perennemente adirata, la cui parola era legge, anche quando esigeva sacrifici narrativi o stilistici da parte del direttore del film, relegato al rango di maestranza tra le maestranze. Il produttore, a sua volta, si inchinava ad un solo padrone: il profitto. Il suo potere smisurato era tale da decretare successi e fallimenti di sceneggiatori, attori e registi che, provenienti da altri campi, quali la letteratura e il teatro, osavano avventurarsi per la prima volta, indifesi e senza una adeguato bagaglio di competenze, nel labirinto degli studios, scegliendo la macchina da presa come strumento di narrazione. Ne seppe qualcosa Scott Fitzgerald che, sebbene preceduto dalla sua fama di autore di successo, riuscì a collezionare solo una lunga serie di insuccessi come sceneggiatore, salvo cogliere poi una vendetta postuma con “Gli ultimi fuochi”, descrivendo a forti tinte, e quasi demonizzandolo, l’intero ambiente del cinema e la figura dell’onnipotente produttore Irving Thalberg.
La memoria corre ai tempi in cui il cinema – specie negli anni ’40 e in gran parte degli annui ’50 – proponeva al pubblico, che allora accorreva veramente in massa nelle sale, storie dai contorni nitidi, dove il bianco era bianco, il nero era nero. Personaggi a tutto tondo, senza sfumature, identificabili da parte dello spettatore perfino attraverso l’abbigliamento, campeggiavano sul set di film dai generi più disparati, dalla commedia al musical, dal western al noir, dal film di guerra a quello d’avventura, dal film in costume al melodramma. Fu proprio in quest’ultimo genere che cominciarono a comparire personaggi dalla personalità più sfumata, con contorni meno netti: il fatto è che il melodramma attingeva ad ampie mani dalla vita di tutti i giorni, ne era, in qualche modo, uno “specchio”, nel quale la vita si rifletteva con tutte le sue incoerenze e le sue possibilità. Nel frattempo – alla fine degli anni ’50 – la stessa evoluzione, da molti vista piuttosto come una involuzione, era entrata prepotentemente nel genere western, quel genere che sembrava allora più stilisticamente consolidato, con attori che avevano, nell’immaginario collettivo, assunto le sembianze del “buono” e del “cattivo” in maniera indelebile.
Ma questi generi e queste certezze non rientravano nel bagaglio culturale della X- generation, la generazione confusa e smarrita degli anni ’70, per la quale i richiami ai valori espressi dal cinema di papà non avevano più senso. Al loro posto subentravano altri generi, di identico significante ma di diverso significato, con nomi usati più per convenzione che per connotazione. Il western, a parole, restava ancora ad occupare lo schermo con le sue storie, in cui di classico c’era rimasta solo l’ambientazione nei grandi paesaggi della “frontiera”, ma, nei fatti, dei personaggi che lo animavano poco o nulla era rimasto. La commistione tra desiderio di classicità e volontà di innovare è forse rappresentata al meglio da “Butch Cassidy”, interpretato da Robert Redford e Paul Newman, che, con i suoi fuorilegge romantici colpisce l’animo dello spettatore più intransigente, fino al punto di parteggiare per questa coppia di rapinatori sempre in conflitto con le leggi di tutti i paesi. La realtà delle cose è che lo spettatore stesso appare confuso, circondato da un mondo in rapida e continua evoluzione, in cui nulla è certo e stabilito per sempre, tutto si trasforma rapidamente sotto i suoi occhi e diventa inafferrabile e non interpretabile. E se si accetta l’idea che il cinema, come ogni forma di espressione artistica, si rispecchia nel suo tempo e ne è figlio, si riesce a percepire inizialmente ed a comprendere poi quello che sta accadendo sullo schermo, sotto i nostri occhi aperti ed attenti a cogliere ogni nuova sfumatura che una storia narrata per immagini è capace di proporre. Butch Cassidy e Sundance Kid non possono che essere amati, universalmente, perché raccontano, attraverso una storia che appartiene ad un genere ma che allo stesso tempo ne è fuori, lo smarrimento dello spettatore, quando, fuori della sala, si trova ad interpretare quotidianamente il suo “ruolo” nel mondo reale in cui agisce. E sono amati al punto che la lacrima che ognuno di noi sta per versare sul loro tragico destino rimane sospesa come il fermo fotogramma su cui scorrono i titoli di coda: Butch e Sundance escono dalla storia, quella ordinaria e quotidiana, per entrare nella leggenda senza tempo.
E così giungiamo ai giorni nostri, giorni nei quali tutto ciò che sembrava ancora resistere all’usura del tempo è messo severamente in discussione. Intanto il genere western, se così ha ancora senso chiamarlo, ha attraversato una stagione infelice ed oscura, relegato a produzioni di serie B, realizzate con poca spesa ed ancor meno arte (è un caso a parte la felice ed eccezionale parentesi del cinema di Sergio Leone, che innova vigorosamente gli ultimi stilemi residui) ed approda fortunosamente al giorno d’oggi. A renderne opaca l’immagine hanno contribuito senz’altro mega produzioni fallimentari come “I cancelli del cielo”, che hanno segnato, oltre che uno dei punti più bassi nella storia del genere, anche la pressoché totale uscita di scena di promettenti autori, come ad esempio Michael Cimino, del quale si sono perse praticamente le tracce a partire da quel clamoroso fiasco.
Mi sto ancora chiedendo perché occorresse un regista, anzi un “autore” a tutti gli effetti, così distante dalla cultura della “frontiera” e dei cow boys, per riportare sugli scudi un genere tanto amato prima e tanto disprezzato e bistrattato poi. Il fatto è che Ang Lee, oltre ad essere un grande narratore di storie per immagini, come del resto sta a sottolineare la sua produzione precedente, è anche depositario di una cultura quale quella orientale, nella quale le tinte sfumate e le filosofie sobrie predominano sui tratti marcati e le interpretazioni dionisiache della realtà e della vita. Questo, già di per sé, può valere come risposta: la lettura che danno del mondo gli occhi di Ang Lee è quanto di più moderno e razionale possa essere proposto oggi. Moderno in quanto la modernità, a mio parere, non è tanto un’etichetta buona per incasellare il tempo che sfugge ad ogni delimitazione in epoche e stagioni, quanto piuttosto un modo di rapportarsi con la realtà che ci circonda, assecondandone le dinamiche e contribuendo, pur nel ristretto ambito della propria personale esistenza, a rendere meno conflittuale il rapporto con l’ambiente nel quale viviamo. Razionale perché assumere la razionalità come propria guida nell’attraversare l’esistenza contribuisce ad aprire gli occhi e la mente anche a fenomeni e realtà che sono spesso difficili da comprendere ed accettare. Ecco spiegata, a mio parere, la delicatezza con la quale viene affrontato un tema scabroso e poco omogeneo alla nostra società, ancora eccessivamente impregnata di fondamentalismi di ogni genere. L’autore non ignora di contribuire con forti colpi di piccone alla demolizione delle ultime vestigia di un mondo che non appartiene più all’immaginario collettivo contemporaneo, ma è altrettanto consapevole di costruire sopra queste macerie, e per mezzo di esse, una nuova visione ed un nuovo significato per un genere diventato da tempo troppo marginale nel panorama della produzione cinematografica. Chi vorrà cimentarsi in storie ambientate sotto i grandi cieli del Montana o del Wyoming, non potrà ignorare facilmente la nuova visione del mondo del western che è proposta da questo film e da questo autore.

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