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Incontrarci Nell’assenza

 
di Gian Ruggero Manzoni
 
Sempre più, a mio avviso, l’anelito alla “bellezza”, nell’oggi, si manifesta in modo disordinato, caotico, infatti l’incertezza della sua forma e, soprattutto, della sua autenticità, complici le chimere di una società sempre più omologata dalle regole del mercato e dell’apparenza, determina smarrimento, persino paura. È necessario, per questo, agire sull’educazione alla consapevolezza, sull’elevazione del pensiero, poi curare l’estetica dei luoghi e delle persone, come pure dei comportamenti, dei discorsi e delle relazioni. Del resto la bellezza è forse la categoria che meglio incarna “il paradigma della complessità”, quello elaborato dal filosofo e sociologo francese Edgar Morin, così che essa risulta la strada per educare il cittadino, la donna e l’uomo del presente, verso, si confida, un nuovo Umanesimo il quale possa riflettersi, senza timori e senza smarrimenti, nello specchio della storia, nella ricchezza multiforme del patrimonio e dei linguaggi. A questo proposito è importante leggere i testi di Zygmunt Bauman e Agner Heller “La bellezza (non) ci salverà” e di James Hillman “Politica della Bellezza” secondo i quali, appunto la bellezza, risulta l’unico possibile antidoto contro la disperazione, quindi una dimensione inattesa, spaesante sebbene in costante dialogo con il suo opposto, cioè “lo sgradevole”, nonché la sola risultanza positiva in merito alla fondamentale connessione tra benessere collettivo e qualità estetico-etica dei contesti di vita.
Reputo che anche da tali premesse sia nato questo nuovo ciclo di opere di Maurizio Gabbana, cioè il fare della fotografia non un manufatto puramente aggraziato, quindi edonisticamente piacevole, ma uno strumento di indagine che, abbandonando una formulazione tradizionale, entra nel dialettico se non nel concettuale col pittorico, ponendo alla sua base uno scopo specifico, quello di rinnovare una freschezza dello sguardo… di quello sguardo (sul mondo) ormai contaminato e incrostato dalla (in)civiltà delle immagini.
Per Gabbana, come spesso mi ha detto, “l’assenza è visibile”, e, in fotografia, visibilissima, ancor più se la si sottolinea tramite spazi scelti, ben precisi, in modo che “solo l’assenza rende il soggetto dello scatto”… forse un “soggetto anomalo”, come lo definiva il compianto Luigi Ghirri, ma di cui ne percepiamo, ben netta, la presenza, e proprio a seguito della sua scomparsa. Un “soggetto anomalo” in un tempo sospeso… un tempo, tecnicamente parlando, definito “di secondo livello”, ma che pur combacia con l’altro, col “primo”; quel tempo che diviene cifra e bersaglio, per il come attira la nostra massima attenzione, così che nella misura del suo grado di sovrapposizione troviamo il motivo del cosiddetto “tempo palese”, il quale si concretizza in accezione evidente tramite una mancanza voluta, una mancanza creata, quella di cui ho pocanzi detto.
Dunque il vuoto (cioè lo spazio lasciato bianco), in una fotografia, non è mai il nulla, essendo una fotografia, contemporaneamente, una presenza tramite l’indicazione di una pseudo-assenza (cioè quella del soggetto della stessa, quella del soggetto fotografato).
Già sappiamo che Maurizio Gabbana sviluppa costantemente la sua arte esplorando, soprattutto, un’intimità dovuta a una ricerca trascorsa oltremodo in solitaria, costruendo, in questo modo, serie narrative unendo scatti di “reportage” urbano in cui l’umanità è (non a caso) quasi sempre assente, oppure tramite una ricerca simbolica nella quale la figura risulta, unicamente, pretesto scenico, a cui abbinare ciò che in realtà, al nostro fotografo, interessa mettere in evidenza, così che le immagini che risultano riflettono sulle relazioni, sulle origini, sul passato, e, ovviamente, sul sociale, spesso guardando le architetture e i monumenti innalzati dagli umani quindi trasformandoli in pietre angolari dell’analisi svolta, mirando a illustrare l’idea della memoria, il suo impatto sul presente e sul futuro, e anche i suoi limiti, nonché la sua dissolvenza.
Wim Wenders ha detto della fotografia che sulla pellicola si imprime la traccia del fotografo, l’immagine non dei suoi lineamenti esteriori, bensì del suo cuore. Ed è proprio così, e lo è, anche, per Gabbana.
L’inattività, il privarsi di un punto-fuoco, quel vuoto-assenza nel pieno (e in ciò l’ossimoro – innegabilmente – ci ricade) il tutto tipico di un mondo occidentalizzato, massificato e spesso opulento, cattura, di continuo, la sua curiosità, in modo che l’off gli risulta più interessante dell’on. In tale dimensione dell’essere (in arte e non solo) i suoi luoghi divengono irreali, o, meglio, surreali, principalmente nel momento in cui, via via, si vanno a svaporare o sovrapporre, e questo in accezione sempre più pittorica.
Sì, innegabilmente l’assenza, cioè la mancanza, cioè la perdita di valore e di valori, in fotografia, il più delle volte, è solo avvertita, non viene resa concretamente manifesta, ma a Gabbana non basta, lo choc deve essere totale, perciò toglie, cancella, elimina, seleziona. Infatti “le assenze”, in particolare in questi suoi ultimi lavori, sono talmente tangibili, sono a tal punto rese manifeste, che la rappresentazione, in modo universale, di quella sensazione che nel contemporaneo forse è la più comune, la più alienante, risulta alla pari di ciò che, dalla carta, con somma evidenza colorifera, invece emerge. Del resto ben sappiamo che la fotografia, sebbene finemente alterata a posteriori, il più delle volte diventa una delle possibili varianti della nostra percezione, e maggiormente l’immagine risulta simile al reale tanto più l’allegoria ricavata ne sposta i limiti verso un indefinito mondo bidimensionale, che galleggia su quello a tre dimensioni. Quindi ogni fotografia, come ogni elaborazione della stessa, si sostiene su un pilastro di incertezze e interrogativi, e proprio per questo Dacia Maraini così disse: “Le fotografie ci ricordano che il tempo è multiforme e che noi siamo parte di una catastrofe metamorfica”, non a caso fotografare significa cogliere nel mondo, negli oggetti, nella natura, nelle persone, ciò che si è inteso della vita, infatti ogni grande foto ci appare come l’immagine di un’idea… anzi, è l’idea stessa.
La famosa definizione di “profondità abitata”, parte delle teorizzazioni di Savinio e De Chirico per circoscrivere concettualmente la pittura metafisica, mai come ora, anche tramite questi lavori “bipolari” (perché il bianco interagisce col super cromato), aderisce in modo perfetto alle immagini “costruite” da Maurizio Gabbana; si tratta nel vero di “profondità” perché, in esse, si intravede il grande enigma che sta dissezionando quest’epoca di veloci mutamenti e che sta rendendo noi esseri umani come ricordi di un qualcosa… quindi non come presenze, ma come entità “scomparse”; non come risultanze di un presente, ma come fantasmi giunti dal passato.
Il punto di vista ardito, seppur poetico, con cui il nostro artista affronta questi temi punta proprio a mascherare l’essenza del reale proponendo la separazione dallo stesso; una separazione che però lascia tracce tangibili, in grado di impressionare l’immediatezza degli scatti dai quali prendono vita le sue opere.
Da ciò risulta che, in Gabbana, la fotografia non è mai oggettiva visione della realtà, ma documentazione di un punto di vista, così le tinte, le forme o le superfici, che lui ritrova, diventano protagoniste di una messa in scena funzionale alla rappresentazione, in questo caso oserei dire “teatrale”, che nell’artificio va a esplicare la sua massima dichiarazione di intenti.
Quindi in Gabbana la fotografia non rivaleggia con la pittura, ma l’una la si ritrova nell’altra; infatti, come già scrisse la sempre da me amata filosofa americana Susan Sontag, “se il fotografo rivela, il pittore costruisce”… in questo caso mostrandoci l’attualità per poi tentare di dare scheletro a un possibile domani… a un futuro di nuovo socialmente vivibile.

Maurizio Gabbana – Assenza, Antiga Edizioni, 2020

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D & D. Il Dante di Dossena

di Paolo Albani

Ogni volta che sfoglio e m’immergo nella lettura del Dante di Giampaolo Dossena (Longanesi & C. 1995, ristampato nel 2004 e nel 2020 da Tea, quest’ultima edizione anche in e-Book) resto di princisbecco, per dirla alla maniera di Collodi. In primo luogo, per l’originalità della struttura. Sono 212 capitoli, tutti numerati e con un titolo esplicativo che ha una data fra parentesi – ad esempio Il culto per Virgilio (1227 circa), I frati gaudenti (1260 circa), Far parte per se stesso (1304) – e rimandi incrociati, che, volendo, permettono una consultazione soggettiva, non lineare, con scelte di lettura a piacere. Insomma il Dante di Dossena è un’opera aperta. Si parte dal primo capitolo intitolato Preistoria, perché la vita di Dante Alighieri dovrebbe cominciare dalla creazione del mondo secondo la tradizione religiosa giudaico-cristiana, e si finisce con i Fantasmi in cui si narra dell’apparizione del fantasma di Dante in Ravenna che indica al figlio Pietro il punto del muro di casa dove sono (sarebbero) nascosti i tredici capitoli mancanti della Divina Commedia.

            Ogni capitolo è ricco di riferimenti storici e letterari, una miniera di narrazioni sulla vita di personaggi conosciuti da Dante, una guida dettagliata dei luoghi geografici in gran parte visitati dal poeta fiorentino, e anche una raccolta divertente di pettegolezzi, aneddoti e collegamenti al mondo contemporaneo, voli pindarici, pur sempre stimolanti, fra epoche diverse.

            Completano l’opera quattro tavole riguardanti le date relative a papi, imperatori e re di Francia, gli ultimi Hohenstaufen (da Federico I Barbarossa a Corradino), i Capetingi e gli Scaligeri, oltre a un Repertorio, utilissimo strumento per ripescare nel libro tematiche, persone e luoghi citati, nomi di personaggi quali Marx, Stalin, Manganelli, Rabelais, Gadda, Leopardi e Kant, tanto per dirne alcuni a caso, o tematiche come misoginia, pettegolezzo, barzelletta, comico involontario (riguarda le rielaborazioni delle storie di Carlo Magno e dei suoi paladini in «franco-veneto»); fra i luoghi c’è la provincia di Massa-Carrara dove sono nato io, nominata a proposito di alcuni castelli dei Malaspina lì ubicati.

            Queste tavole, precisa Dossena, sono più utili che «tener sott’occhio gli schemi topografici dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, quegli orrendi imbuti, coni e cerchi concentrici».

            Il Dante di Dossena è l’opera di “un lettore dotto e curioso”, di uno scrittore che ha un suo stile proprio, riconoscibile, a tratti irriverente e pungente, dispensatore di affermazioni gettate sulla pagina senza peli sulla lingua, di ricostruzioni sul vissuto dantesco che denotano un vasto bagaglio culturale da certosino. Che ha dello spaventoso.

Quella di Dossena è, come ho notato altrove, una scrittura dal sapore «lombardo», in certi frangenti al limite dello sperimentale, ma senza mai scadere nell’astruso o nell’ermetico. In una lettera degli anni Sessanta il suo amico Luciano Bianciardi annota: Dossena «ha una preparazione di prim’ordine e sa scrivere». Uno «scrittore vivacissimo» lo definisce Franco Fortini.

            La frequentazione dantesca di Dossena è assidua. Nel 1999 esce da Vallardi Dante Alighieri. Commedia. Inferno in cui viene fatta un’analisi dei canti, all’interno del quadro storico in cui furono concepiti, insieme a elementi sulla vita e le opere del Sommo Poeta.

            Del 1987 è il primo volume della Storia confidenziale della letteratura, titolo che trovo semplicemente meraviglioso, che va “Dalle origini a Dante”, sempre per Longanesi & C. Purtroppo questa storia “confidenziale” non va oltre il Seicento. L’incompiutezza sembra una caratteristica ricorrente dell’attività di estensore di libri dello scrittore cremonese. Qui, nella Storia confidenziale della letteratura, Dossena mette mano a un metodo innovativo, originale che permette di scoprire – così recita la nota di presentazione – come e perché a un tale è saltato in mente di scrivere una certa cosa (e se poi questa certa cosa è un capolavoro tanto meglio), e in modo confidenziale, ovvero parlando di certi vecchi libri con segretezza e discrezione, chiamando difficili i libri difficili e noiosi i libri noiosi e spiegando con franca brutalità perché certi libri bisogna leggerli e perché certi altri è meglio non leggerli.

            Gran parte del primo volume della Storia confidenziale della letteratura è dedicato a Dante, e molte cose confluiranno nel volume Dante già citato.

Dossena ha una grande passione per le guide (anche il suo Dante in fin dei conti è organizzato in forma di guida, una mappa per delineare un itinerario storico-letterario dedicato all’autore della Divina Commedia), in questo campo l’apice lo raggiunge nel voluminoso I luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi (uscito presso Sugar nel 1972, ristampato nel 2003 da Sylvestre Bonnard), che doveva essere il primo di tre libri rispettivamente dedicati all’Italia settentrionale, centrale e meridionale, progetto sfortunatamente ancora una volta rimasto incompiuto. È «un’opera consapevolmente personale, ma condotta secondo criteri rigorosi quanto a storia, a letteratura e a pedagogia», puntualizza Dossena, lamentando fra l’altro che nelle guide canoniche, tipo Touring Club Italiano, si dedichi «uno spazio nullo alle notizie di carattere letterario, in confronto allo spazio dedicato alle notizie di carattere artistico, storico-politico, economico ecc.».

            Ne I luoghi letterari, Dante compare più volte. Lo si trova citato in città come Bologna, Genova, Noli (Savona), «uno dei quattro punti più dirupati sulla faccia della terra che Dante avesse visto», Venezia (dove «Dante avrebbe anche potuto leggere Il milione, Dante avrebbe anche potuto incontrare Marco Polo: non si sa»), Verona (Giovanni Camerana, capitano a Verona, il 3 maggio 1896 scrive il sonetto Dante in Verona, «tra il non-sense e il Prode Anselmo») e soprattutto Ravenna. In quest’ultima città, Dossena racconta, fra le altre cose (oltre alla storia delle ossa di Dante trafugate dai frati francescani), che Dante, «famoso mago» (aspetto poco conosciuto del poeta), viene consultato da uno “scientifico cittadino” proveniente da Genova per una misteriosa questione d’amore. Fonte della notizia è Franco Sacchetti (1332-1400), poeta e novelliere.

            Ricorda Dossena che Dante parla di numerosi personaggi legati alla storia e alle leggende di Ravenna, città in cui muore, aggiungendo: «ma vedremo il tutto nell’appendice sull’Italia dantesca, in altro volume», anche questo disgraziatamente mai uscito.

            Il Dossena, magistrale esperto di giochi, non poteva non occuparsi del Dante che gioca con la lingua. Nei tre volumi che formano la Enciclopedia dei giochi (Utet 1999), Dante ricorre in ben 67 voci.

            Il Dante in veste di navigato linguista cattura l’attenzione di Dossena che segnala alcuni giochi disseminati nella Divina Commedia, e non solo (i versi danteschi che cito sono quelli della versione contenuta ne La Divina Commedia, testo critico stabilito da Giorgio Petrocchi, con una nota introduttiva sul testo della Commedia, Einaudi 1975).

L’acrostico ad esempio è presente nel Purgatorio (12. 25-63), dove le lettere VOM, ripetute a inizio di verso, formano la parola UOM[O] (la V in antico sta per U), la più superba delle creature, e il canto XII del Purgatorio guarda caso parla proprio dei superbi:

Vedea colui che fu nobil creato

[…]

O Nïobè, con che occhi dolenti

[…]

Mostrava ancor lo duro pavimento

Anche nel Paradiso (19. 115-141), nel canto XIX che si svolge nel cielo di Giove, ove risiedono gli spiriti giusti, c’è un altro acrostico, LVE, cioè LUE, ovvero la peste, sintesi del giudizio sui sovrani malvagi e corrotti:

Lí si vedrà, tra l’opere d’Alberto,

[…]

Vedrassi la lussuria e ’l viver molle

[…]

E parrano a ciascun l’opere sozze

Di mesostici, in versi singoli, che danno come soluzione la parola DANTE, Dossena ne riporta cinque contenuti nell’Inferno, fra cui questo:

e Disse A Nesso: «Torna, E sì li guida […] (12. 98) [le maiuscole sono mie]

il più bello, a mio parere, dato che le lettere che formano DANTE stanno in parole contigue, l’una di seguito all’altra.

Il gioco della sostituzione di una vocale con un’altra (amAr/amOr) è sovente praticato da Dante, ad esempio nel Detto d’amore, un poemetto di 480 settenari, collocabile nel 1280, in cui si legge:

Tu mi vuo’ trar d’amare

e di ch’amor amar’è.

Anche nel Purgatorio (27. 132) – ricorda Dossena nella sua Enciclopedia dei giochi – si trova il cambio di vocale:

fuor se’ dell’Erte vie, fuor se’ dell’Arte [le maiuscole sono mie]

A proposito del famoso verso «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!» (Inferno, 7. 1), Dossena, non so quanto scherzosamente, sembra dare credibilità a un’ipotesi azzardosa, affermando che forse si comincia a intravedere una lucina spiegando quel verso con il ricorso all’anagramma: pela patate, passa panna, pepe (notevoli la coerenza culinaria e l’allitterazione in P), o forse appena palpate, pena passate (basta una toccatina, e subito arriva il castigo).

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Gravità (recensione)

di Sergio Tardetti

Quanto conta il titolo di un libro nella decisione di acquistarlo? E in quella di leggerlo? Perché, è inutile, si acquistano molti più libri di quanti se ne possano leggere, magari incuriositi proprio dal titolo, con l’intenzione di prenderli in mano, un giorno o l’altro, e quanto meno di assaggiarli, se non proprio di divorarli fino in fondo. Leggi “Gravità” in copertina ed è subito un richiamo immediato a quella forza che ci consente di stare con i piedi per terra, ma che, per poeti e narratori che amano circondarsi di poesia, è l’ostacolo che impedisce di volare, di librarsi in aria con disinvolta leggerezza. E già fin da questo punto si accendono in testa mille domande: si può essere “gravi” e al tempo stesso leggeri? Si può stare con i piedi per terra e insieme sollevarsi in volo? Si può essere duri e delicati al tempo stesso? Domande necessarie, preparatorie in qualche modo alla lettura di quello che troveremo all’interno, al netto delle conferme e delle smentite.
Ma è “Gravità” anche prendere le cose sul serio, dire pane al pane e vino al vino, senza finzioni né edulcorazioni, perché così è la vita, e il non detto, o anche il semplicemente sottaciuto, spesso può causare più danni di ciò che viene detto a cuore aperto. Ed ecco, fin dalla prima pagina, fin dalle prime parole, la vita presentarsi come uno strenuo e incessante combattimento tra chi va perennemente alla ricerca della verità e chi invece, per convenienza, connivenza o quieto vivere, preferisce evitarla. Guendalina Pace vuole, fin dall’inizio, porre con insistenza la realtà sotto gli occhi del lettore, senza ipocrite finzioni né mistificazioni, perché così è la vita, ed è con la gravità, in ogni senso, che dobbiamo fare continuamente i conti. Il procedere in direzione temporale inversa, rispetto allo scorrere di una esistenza è già di per sé una scelta programmatica, quasi un voler ricordare che il senso della vita lo si comprende solo alla fine e che, se fosse possibile, sarebbe meglio conoscerlo da subito. Riprendendo la metafora della vita come viaggio, anche qui si insiste sul fatto che ciò che conta del viaggio è il viaggiare e della vita è il vivere.
Man mano che si avanza nella lettura, si avverte in ogni capitolo, pur nella crudezza della verità, una sensazione di piena e completa adesione al testo che si va leggendo, un invito a una riflessione ed a un ripensamento della propria esistenza. Colpisce particolarmente una considerazione che emerge a un tratto dalle pagine, un punto di vista che non si può non condividere, quello di non prendersi mai troppo sul serio, perché è proprio credersi superiori agli altri l’origine di tutti i malanimi e i dissapori, qualcosa capace di causare nel corso della vita danni irreparabili, fino al punto di odiare tutto e tutti e farsi odiare da tutti.
Della scrittura di Guendalina Pace mi piace sottolineare soprattutto l’esattezza nell’uso delle parole e la leggerezza dello stile; la “lezione americana” di Italo Calvino è qui compresa e applicata magnificamente. L’esattezza è una virtù misconosciuta che si apprezza particolarmente in un’epoca di sciatteria grammaticale e sintattica; quanto alla leggerezza, non è certo da correlare all’idea di superficialità ma alla capacità di rendere piacevole e scorrevole anche la lettura di pagine di elevata intensità e densità di significati. Una scrittura, insomma, elegante e raffinata che si fa apprezzare soprattutto in certi passaggi che richiedono l’attenzione del lettore, quasi un implicito invito a inoltrarsi nella lettura della pagina, gustando il piacere di ogni singola parola. Per come è concepito e organizzato, il libro di Guendalina può anche considerarsi una specie di eserciziario di stile, mediante il quale l’autrice affronta e propone diverse modalità di scrittura, dalla narrativa alla prosa poetica alla poesia tout court, un romanzo senza protagonisti né antagonisti, tranne lo scrittore e il lettore al quale l’autrice si rivolge. Ne risultano una prosa rivestita dei toni morbidi della poesia e una poesia che ha la durezza e la ruvidezza della prosa. Particolarmente avvincente il capitolo scritto senza punteggiatura, un vero flusso di coscienza emozionante e coinvolgente, nel quale, nonostante l’assenza di segni di interpunzione, si riesce facilmente a individuare e seguire il filo della narrazione.
A un certo punto, da lettore curioso quale ammetto di essere, non ho resistito alla tentazione di accantonare la lettura sequenziale e correre direttamente alle pagine finali. Ed è stato proprio qui che ho trovato la vera sorpresa! È stato come se il realismo pessimistico delle pagine precedenti si fosse stemperato – non dico dissolto, perché continuava ancora ad aleggiare fra le righe. L’incoraggiamento che i due immaginari personaggi di un piacevole duetto – un medico e un’ostetrica – rivolgono al neonato che hanno appena aiutato a venire al mondo è decisamente commovente, soprattutto perché viene rivolto da adulti che hanno conosciuto e sperimentato tutte le durezze della vita, continuando tuttavia a trovarla ancora bella. È soprattutto l’invito ad essere un uomo in armonia con se stesso e con il mondo quello che si apprezza e si percepisce in quelle pagine e tra quelle righe, l’invito che quotidianamente, come un mantra o come una preghiera, mi sento anch’io di rivolgere a me stesso, in primo luogo, e poi anche agli altri. Un libro “differente”, che emerge in un panorama piuttosto povero di tentativi di innovazione, un libro che invito a leggere per apprezzare a pieno un’autrice che mi ha sinceramente stupito e coinvolto.
 
Guendalina Pace – GRAVITA’. Bertoni Editore, 2021

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Promemoria brasiliano su Bolsonaro, il giudice Moro e il lawfare contro Lula

di Gennaro Carotenuto

La cooptazione del giudice Sergio Moro nel governo di Jair Bolsonaro in Brasile era decisa da tempo e getta nuove ombre sulla condanna di Lula. Facciamo luce sull’arte del lawfare in America latina.

1) Oggi i media mondiali raccontano come un successo di Jair Bolsonaro l’accettazione da parte del giudice Sergio Moro (rappresentato come un eroe senza macchia e senza paura, che condannò Lula nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato), di diventare ministro della giustizia nel nuovo governo. Superministro dicono, accorpando giustizia e sicurezza, un potere immenso. Giova ricordare che Sergio Moro condannò Lula essendo lui stesso candidato in pectore alla presidenza della Repubblica, partecipando sistematicamente a manifestazioni politiche contro il governo. Oggi sappiamo da una fonte al di sopra di ogni sospetto, niente meno che il vicepresidente di Bolsonaro eletto in Brasile, il generale Hamilton Mourão, apertamente nostalgico del regime civico-militare, che lo dichiara senza pudori o politicismi al quotidiano “Valor Económico”, che l’accordo Moro/Bolsonaro (che evidentemente comportava la desistenza del primo in cambio di un ministero) fosse ben anteriore. Dobbiamo credere alla terzietà di Moro al momento di condannare Lula?

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