Guerra Russia Ucraina

Contro la guerra, contro ogni guerra

di Clare Daly 

Discorso tenuto dalla parlamentare europea Clare Daly, irlandese, esponente del partito Independents 4 Change, facente parte del gruppo al Parlamento Europeo Gue/Ngl. La sessione del Parlamento Europeo è del 7 ottobre 2022. La traduzione è di Giorgio Riolo

La guerra in Ucraina sta velocemente progredendo verso un orrore di sempre più vaste dimensioni. E da ciò che praticamente posso vedere, nessuno in quest’aula si sta adoperando per scongiurarla. Di fatto, la gran parte delle persone sembra lasciare che l’escalation prosegua. E in questo momento preciso, naturalmente, come avviene di solito, le voci che sfidano la corsa alla guerra vengono attaccate e messe in silenzio, vengono diffamate quali voci di traditori, di compari, di fantocci di Putin, di leccapiedi del Cremlino, di essere agenti russi.
Francamente, è patetico. E non lo dico con leggerezza. Ma la rozzezza e il cinismo di questi insulti provenienti dai partiti dominanti dell’Unione Europea potrebbero benissimo essere stati scritti da Herman Göring. Il quale in modo infame disse che anche se il popolo non vuole mai la guerra, lo stesso può essere condotto a fare la guerra per mezzo di menzogne e di calunnie. Disse “tutto ciò che dovete fare è sostenere che esso è sotto attacco, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, mettendo così in pericolo il proprio paese”. Funziona sempre, in ogni caso. Dove esso viene condotto, voi seguite.
Questo parlamento dovrebbe vergognarsi per questo dibattito. Le parole vengono stravolte, il significato sovvertito e la verità rovesciata. Opporsi alla orribile follia della guerra non significa essere antieuropei. Non è essere anti ucraini. Non è essere filorussi. È buon senso. La classe lavoratrice europea non ha niente da guadagnare da questa guerra. Ha tutto da perdere.
E trovo risibile che coloro i quali chiamano alle armi per l’Ucraina, mai sollecitano alle armi per il popolo palestinese oppure per il popolo dello Yemen.
Diversamente da voi, mi oppongo a ogni guerra. Voglio che essa venga fermata. Non mi scuso per questo. E non farò da capro espiatorio e nemmeno voglio essere bollata per questo.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera l’11 ottobre 2022

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Le ragioni ignorate del pacifismo

di Giorgio Beretta

Ad oltre cinquanta giorni dall’invasione militare russa in Ucraina non accennano a placarsi le accuse nei confronti dei pacifisti. Una lunga lunga serie di epiteti è stata impiegata per etichettarli. Da quelli più volgari (“putiniani”, “filo-russi”, “pacifisti in poltrona”), a quelli più raffinati (“equidistanti”, “non interventisti”, “pacifisti passivi”) fino a quelli apparentemente più cordiali e, proprio per questo, più insidiosi (“utopisti”, “anime belle”, “pacifisti integrali”). Nonostante siano costantemente chiamati in causa nel “dibattito pubblico”, raramente sono stati invitati a presentare le proprie posizioni tanto che sorge spontanea una domanda: cosa hanno davvero detto i pacifisti? Proverò a rispondere richiamando alcuni interventi delle principali associazioni nazionali e di alcuni esponenti del pacifismo, tra cui alcuni dei miei.

Prevenire la guerra con la neutralità attiva

Un mese prima dell’aggressione militare della Russia all’Ucraina, con un comunicato stampa la Rete italiana pace e disarmo ha chiesto all’Italia e all’Europa di promuovere un’iniziativa di neutralità attiva per ridurre la tensione e favorire un accordo politico negoziato nel rispetto della sicurezza e dei diritti di tutte le popolazioni coinvolte, chiarendo la propria indisponibilità a sostenere avventure militari. In un successivo ampio documento, Rete italiana pace e disarmo ha spiegato cosa intende con “neutralità attiva” – che non è equidistanza – ma è ancorata al diritto internazionale con un effettivo impegno per una reale de-escalation militare, sostenendo la neutralità dell’Ucraina come parte del processo di distensione regionale e attivando un dialogo diretto tra le istituzioni europee, a partire dal Consiglio d’Europa, e la Federazione Russa, in una logica di sicurezza condivisa, di cooperazione e di promozione dei diritti umani e della democrazia. A partire da queste proposte, Rete italiana pace e disarmo insieme a numerose altre associazioni ha promosso la manifestazione del 3 marzo a Roma che ha preso il via esprimendo la chiara condanna dell’azione militare in Ucraina da parte della Federazione Russa, manifestando massima solidarietà alle popolazioni coinvolte e sostenendo tutti gli sforzi della società civile pacifista e dei lavoratori e lavoratrici in Ucraina e Russia che si oppongono alla guerra con la nonviolenza.

Le forniture militari italiane alla Russia

A chi accusa i pacifisti di essere “putiniani”, le associazioni pacifiste hanno ricordato che, a differenza di diversi rappresentanti politici italiani, hanno sempre denunciato le violazioni dei diritti umani e civili nella Russia di Putin. E che sono stati i primi – quando l’Italia nel 2011 con il governo Berlusconi ha cominciato a vendere armamenti alla Russia – a chiedere di revocare quelle vendite perché erano in palese contrasto con le norme della legge nazionale 185/1990 che vieta di esportare sistemi militari a regimi repressivi e che sono coinvolti in conflitti armati. Esportazioni che sono continuate anche dopo l’invasione russa in Crimea nonostante l’embargo di armi decretato nel luglio del 2014 dall’Unione Europea nei confronti della Russia. Con un’appendice che rivela la spregiudicatezza negli affari da parte del comparto militare-industriale: il tentativo di esportare in Ucraina i 94 blindati Lince che erano stati inizialmente destinati alla Russia ed erano bloccati per via dell’embargo. Un’iniziativa che fu prontamente denunciata da parte di Rete Disarmo e che portò il ministero della Difesa a smentire pubblicamente le notizie già diffuse dal governo ucraino.

No alle forniture di armi all’Ucraina

Rispondendo agli interventi di Luigi Manconi e di Gad Lerner, il presidente del Movimento Nonviolento, Mao Valpiana, ha esplicitato le motivazioni che hanno portato le associazioni pacifiste a contrastare la decisione del governo di inviare armi all’Ucraina. “L’invio delle armi non sposta nulla sul piano militare, ed è ipocrita perché configura una delega senza assunzione di responsabilità”, rispondeva Valpiana a Manconi. Valpiana, rispondendo a Gad Lerner, metteva in luce una serie di ragioni relative ai problemi della sicurezza e della possibile escalation del conflitto e concludeva: “Condannare l’aggressione e sostenere le giuste ragioni dell’Ucraina non significa automaticamente che si debba intervenire militarmente in quel contesto. Se così fosse, si dovrebbe fornire armi a tutti i popoli che lottano per la propria sovranità, come i palestinesi i cui territori sono illegalmente occupati da decenni da Israele. Non viene fatto perché inviare armi configura sempre una situazione di belligeranza”.

Etica della responsabilità e nonviolenza

Tutto questo va collocato nel contesto dell’etica della responsabilità e della nonviolenza che il filosofo del Movimento Nonviolento, Pasquale Pugliese spiegava in un ampio articolo per “Il Fatto Quotidiano” a cui ho dato il mio modesto contributo. Ricordando la regola aurea della nonviolenza (“Tra il mezzo e il fine c’è lo stesso inviolabile nesso che c’è tra il seme e l’albero”, Moandhas K. Gandhi) il principio responsabilità prescrive: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra”. La quale, da Hiroshima in avanti, è sotto la spada di Damocle della minaccia atomica, colpevolmente rimossa dalla coscienza collettiva dopo l’abbattimento del muro di Berlino, seppur oggi presente più che mai. Dunque qualunque azione politica, soprattutto all’interno di una dimensione di conflitto internazionale, non può non tenere conto della situazione atomica così come definita dal filosofo Günther Anders: “La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche armi atomiche è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di armi atomiche, è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica”. E’ responsabile e realistico tenerne conto ed agire di conseguenza a cominciare dalla gestione dei conflitti internazionali.

Le vie della pace dentro il conflitto

Alle critiche al movimento pacifista ha riposto anche Francesco Vignarca, coordinatore campagne di Rete italiana pace e disarmo. In un saggio per la rivista “Il Mulino”, Vignarca evidenziava che “l’avvento di una guerra porta sempre a una estremizzazione e a una polarizzazione nel pensiero e nelle azioni, anche in coloro che ne sono distanti. La reazione emotiva rischia però di essere pericolosa e controproducente”. “I percorsi di nonviolenza – aggiunge Vignarca – richiedono tempo, pazienza, passi concreti, mentre ora in poche settimane i riferimenti costruiti in interi decenni di lavoro sono stati spazzati via. Un punto di partenza però rimane: quando c’è la guerra non si può preparare la pace. La pace può solo essere costruita preventivamente, e con “pace” indichiamo non solo l’assenza di conflitto, ma soprattutto la presenza di diritti per tutti: una pace positiva, come ci ha insegnato Johan Galtung”. Per questo il movimento pacifista ha scelto chiaramente, e non da oggi, di schierarsi a fianco delle popolazioni civili, che rappresentano le vittime principali in ogni conflitto armato. Persone da entrambi i lati del fronte: in questo caso, dunque, sia gli ucraini sia i russi. “In tal senso – spiega Vignarca – riteniamo che non ci sia alternativa praticabile ai negoziati e al dialogo, anche con i governi che sono visti come nemici”.

La Carovana della Pace

A dimostrare che quelle del movimento pacifista non sono affatto chiacchiere da salotto, ma solidarietà attiva ed operante va ricordata l’iniziativa promossa da numerose associazioni che ai primi di aprile hanno dato vita alla “Carovana della Pace” a cui hanno partecipato oltre 200 persone che hanno portato aiuti umanitari a Leopoli, in Ucraina, e hanno portato in Italia le persone più fragili e bisognose. “Crediamo fermamente in un’alternativa agli schieramenti bellici e nella possibilità di andare oltre la violenza” – ha spiegato Francesca Farruggia di Archivio Disarmo. “Essere lì, con i nostri corpi oltre che con le nostre voci, ha voluto essere una testimonianza concreta». Partecipare alla Carovana della pace, ha proseguito Farruggia, “è stata un’esperienza unica che ha risposto alla forte esigenza di non rimanere spettatori della tragedia immane che si sta consumando sotto i nostri occhi. La guerra è molto più drammatica di quello che possiamo percepire attraverso le immagini e le testimonianze raccolte dai media”.

Per chi non ha ancora capito

Se c’è qualcuno che non ha ancora capito che il movimento pacifista e le sue associazioni fanno tutt’altro che chiacchiere, ma avanzano da anni proposte concrete e sono promotori di istanze che mettono in pratica di persona, possono essere utili le parole di Mao Valpiana. “A tutti quelli che ci dicono che il nostro è un pacifismo da divano, ricordo che dal 1948 come obiettori di coscienza siamo andati in carcere con Pietro Pinna e che da allora in poi non abbiamo perso un giorno di lavoro per il disarmo, per la riduzione delle spese militari, per la smilitarizzazione della Nato, per la smilitarizzazione prima dell’Unione Sovietica (siamo andati anche lì a manifestare e farci arrestare) e poi della Russia chiedendo che l’Italia non gli vendesse le armi, e abbiamo lavorato quotidianamente per far crescere il movimento dei resistenti alla guerra. E in tutto questo siamo stati isolati e ignorati dalla gran parte delle forze politiche e dei giornali che oggi si scoprono bellicisti e vogliono più armi e più fondi per aumentare ancora i bilanci militari di tutti i paesi d’Europa, felici di correre verso il baratro. A tutti questi bellicisti da divano, chiedo: dove eravate fino a ieri?”.

Giorgio Beretta
giorgio.beretta@unimondo.org

P.S.: Come ha evidenziato Mao Valpiana in un articolo per Aggiornamenti Sociali. “in Ucraina non c’è una sola voce. Il Governo chiede “armi, armi, armi”; invece altre voci, come la Croce Rossa ucraina, chiedono “cibo, cibo, cibo”, e altre ancora, come i pacifisti di Kiev, chiedono “verità, verità, verità”. Dunque le richieste sono molte e non è vero che c’è identità totale tra il popolo ucraino e la sue forze armate, così come non c’è solo una resistenza armata, ma anche una resistenza civile che non vuole partecipare alla guerra, ma vuole difendersi ugualmente”.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 17 aprile 2022

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L’economia della guerra permanente 

di Andrea Fumagalli

Nel messaggio che Mario Draghi ha rilasciato il giorno prima del summit europeo di Versailles, l’11 marzo scorso, si affermava: “L’Europa e l’Italia non sono in una fase di “economia di guerra”, ma il “futuro preoccupa” e “bisogna prepararsi”.
In realtà siamo già in un’economia di guerra. Tale termine implica l’adozione di “misure di politiche economiche al fine di adeguare il sistema economico nazionale alle esigenze che derivano dalla partecipazione dello Stato ad un evento bellico”.
La definizione citata fa ovviamente riferimento ad un reale stato di guerra militare, con morti, bombardamenti, profughi, ecc. – come sta avvenendo in questi giorni in molte città dell’Ucraina.
Ma negli ultimi decenni la metafora della guerra si è estesa e la logica economica sottostante è diventata parte della nostra vita, sino al punto di poter affermare che viviamo in un’economia di guerra: un’economia di guerra, che, senza andare troppo indietro nella storia, ha cominciato a diffondersi quando è entrato in crisi il paradigma fordista e il dualismo tra i blocchi Usa-Urss. La guerra economica, come la guerra sanitaria, è oramai una costante, mentre il ricorso alla guerra militare, pur cresciuto all’indomani del crollo dell’URSS e dello scioglimento del patto di Varsavia, è un’ultima ratio.
La logica tuttavia è più o meno la stessa. Guerra è sinonimo di distruzione e a ogni distruzione segue una ricostruzione, cioè si devono creare le condizioni per una nuova accumulazione capitalistica. Se la guerra può prescindere dal capitalismo, il capitalismo non può fare a meno dalla guerra. La guerra, la moneta e lo Stato sono forze ontologiche, cioè costitutive e costituenti, del capitalismo e le guerre (e non La guerra) sono da intendersi come il principio di organizzazione della società (Eric Alliez, M. Lazzarato,  Guerres et capital, Ed. Amsterdam, Paris, 2016).
Le sanzioni dei paesi Nato (Turchia esclusa), e non solo, sono la risposta di guerra economica all’invasione dell’esercito russo ai danni dell’Ucraina. Oltre a colpire il settore energetico, i trasporti, il commercio e la ricchezza privata di numerosi individui legati al governo di Mosca, la strategia sembra quella di estromettere la Russia dal sistema dei pagamenti internazionali.
Lo strumento principale è il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), che regola i pagamenti transfrontalieri che passano per il sistema bancario. Gli ordini di pagamento sono trasmessi tramite un consorzio internazionale di banche con sede in Belgio che collega attraverso una rete informatica circa 11.000 istituzioni finanziarie in tutto il mondo. SWIFT fu costituito nel 1977 per evitare che l’infrastruttura dei pagamenti internazionali fosse monopolizzata dall’americana Citibank. Per una ironia della storia, ha finito per diventare la principale arma degli Stati Uniti nell’esercizio dell’egemonia monetaria globale.
La prima volta che il sistema dei pagamenti viene utilizzato per fini militari e strategici è stato nel 2012 quando, sotto la pressione americana, SWIFT ha disconnesso il sistema bancario dell’Iran nel quadro del pacchetto di sanzioni impiegato per fermarne il programma nucleare. Il sistema dei pagamenti si è rivelato immediatamente uno strumento bellico estremamente efficace per garantire l’attuazione delle sanzioni. Infatti, è sufficiente sospendere il codice SWIFT di un individuo, di un’impresa o anche di un intero Paese per impedire a chiunque (compresi gli intermediari) di effettuare pagamenti verso il beneficiario identificato da quel codice.
Come scrive giustamente Luca Fantacci: “Le sanzioni finanziarie, quando sono comminate dagli Stati Uniti, possono avere effetti ancor più devastanti di un attacco militare. Sono “un’arma nucleare”, come ha commentato recentemente un banchiere occidentale, forse sperando di scongiurarne l’uso”.
Il paragone non è azzardato: infatti, al pari di un attacco atomico, seppure in maniera diversa, più lenta e più subdola, le sanzioni rischiano di provocare ripercussioni devastanti anche per chi le mette in atto, minando alla radice l’egemonia monetaria del dollaro.

Possibile crisi dell’egemonia del dollaro?

Le sanzioni economiche hanno l’obiettivo di depotenziare l’economia russa, sino a causare una recessione economica. Già a partire dal 2014, dopo l’annessione unilaterale della Crimea da parte di Mosca, le potenze occidentali, in primis gli Usa, avevano imposto sanzioni all’economia russa, così come, pur se in maniera diversa, era stato deciso da Trump nei confronti dell’Iran nel 2018 per la questione nucleare.  In questo caso, secondo i dati FMI, il Pil iraniano è calato del 5% nel 2020. Ma per la Russia la situazione appare diversa, grazie alla maggior indipendenza e autarchia della sua economia. Putin ha dichiarato a fine 2019 che le perdite causate dalle sanzioni all’economia russa erano inferiori a 50 miliardi di dollari. Uno studio ha stimato una mancata crescita del Pil tra lo 0,5% e l’1,5%, per una perdita complessiva fra 40 e 120 miliardi di dollari dal 2014 al 2018. Il lato debole dell’economia russa è la sua “dollarizzazione”, vista l’ingente quantità di valuta americana che entra nel paese a causa dell’elevato export di materie prime quotate in dollari (gas e petrolio, ma non solo).
Se questi dati vengono confermati, l’impatto è tutto sommato limitato. Ma queste sanzioni contengono delle novità importanti, soprattutto sul lato finanziario. Infatti, oltre al già ricordato blocco del sistema Swift per alcune banche (escluse quelle che intermediano i prodotti energetici), si prevede anche il congelamento delle riserve valutarie della Banca Centrale. Si tratta di un provvedimento che gli Usa avevano già intrapreso nei confronti di Iran, Venezuela e Corea del Nord ma che oggi per la prima volta viene usata nei confronti di un paese del G20, detentore di grandi riserve.
Secondo i dati della Banca Centrale Russa, al 31 gennaio 2022, le riserve valutarie russe ammontano a  oltre 630 miliardi di dollari (630,207, per l’esattezza), di cui circa 500 in valuta estera e 130 in oro, per un totale di 2300 tonnellate d’oro, circa un terzo  degli USA, due terzi  della Germania e poco meno di Francia e Italia. Si tratta di un ammontare che è cresciuto costantemente nel tempo, a partire da metà 2015 (poco più di 350 miliardi di dollari all’epoca), a seguito di una precisa strategia di Putin di creare una sorta di scudo per affrontare gli effetti recessivi delle sanzioni occidentali a seguito dell’annessione della Crimea. Contemporaneamente, la Banca di Russia ha venduto tutti i suoi titoli di stato americani fra aprile e maggio del 2018, nel tentativo di mettere le proprie riserve al riparo dagli Stati Uniti nel caso di un inasprimento delle relazioni (si veda Fantacci) .
Tuttavia, nonostante il tentativo di “de-dollarizzare” l’economia e le riserve valutarie, il 60% di tali riserve è detenuto ancora in dollari, escludendo una quota del 13% detenuto in valuta cinese (quota destinata ad aumentare). L’impatto immediato delle sanzioni, più ancora del parziale blocco dello SWIFT, è l’impossibilità per la Banca Centrale russa di poter vendere parte delle proprie riserve per sostenere il corso del rublo, che, non casualmente, ha perso circa il 30% nel giorno in cui le sanzioni sono diventate operative. È questo il rischio maggiore che può correre l’economia russa. Dopo questo iniziale tracollo (il cambio rublo/dollaro è passato da 82 rubli per un dollaro del 24 febbraio, giorno di inizio dell’invasione russa, a 152 rubli per dollaro il 7 marzo), attualmente il rublo viene quotato su valori intorno a 100 rubli per dollaro e il suo valore si sta stabilizzando. La svalutazione rispetto all’euro è inferiore, visto che l’euro in questo periodo si è svalutato rispetto al dollaro. I dati ci dicono che le sanzioni, dopo un iniziale pesante effetto, si stanno rivelando meno efficaci del previsto, probabilmente anche in seguito al ricorso di valute alternative non direttamente legate al dollaro (quindi non bloccabili) come la valuta cinese e le criptomonete. Le dichiarazioni di Putin del 23 marzo 2022 di continuare la fornitura di gas all’Europa, mantenendo fede ai contratti in essere, convertendo la valuta di pagamento da dollari in rubli, se da un lato intende proseguire sul processo di “de-dollarizzazione”, dall’altro intende confermare la tenuta della stessa valuta russa.
È troppo presto oggi per verificare gli effetti di questa guerra valutaria in corso. Di sicuro sappiamo che a differenza della guerra miliare sul campo (ristretto, al momento, al martoriato territorio ucraino), questa guerra si combatte su scala mondiale.
La questione è ben descritta da Luca Fantacci:

“Il blocco delle riserve (russe, ndr.) costituisce un precedente che si ripercuoterà inevitabilmente sullo status del dollaro come moneta internazionale: che strumento di riserva può mai essere quello che rischia di venire a mancare proprio nel momento del bisogno? Questo precedente potrebbe ridurre la disponibilità di altri Paesi, in particolare della Cina, a detenere le proprie riserve sotto forma di titoli del Tesoro americano e, in generale, titoli denominati in dollari, indebolendo la funzione del dollaro come strumento di riserva internazionale”.

Come anticipato da Giovanni Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, il nuovo secolo si prefigura come il “secolo cinese” in grado di sostituire il XX secolo come “secolo americano”. L’illusione statunitense di rimanere l’unica potenza egemone una volta crollata l’URSS si perde di fronte al crescente potere economico e tecnologico cinese. Gli Usa cercano di mantenere il potere militare, finanziario e mediatico (il quarto potere di Orson Welles) al fine di compensare il declino dell’egemonia economica. Il potere militare è il primo a cominciare a declinare proprio perché non adeguatamente surrogato da quello economico. Il tentativo di ripristinare l’autorevolezza USA del proprio raggio d’azione ha al momento successo per quanto riguarda l’Europa, sulla quale è strategico mantenere un’influenza ideologica e commerciale.
Ma se per rinfocolare il patto d’intenti con l’Europa (grazie alle sanzioni contro il comune nemico rappresentato da Mosca), si rischia di mettere a repentaglio quel poco di potere finanziario che ancora oggi il dollaro detiene, la situazione rischia di sfuggire di mano.
All’erosione dell’egemonia del dollaro potrebbe contribuire anche il crescente ricorso alle criptovalute. In effetti, le criptovalute potrebbero costituire un mezzo di pagamento internazionale e di detenzione della ricchezza alternativo per i cittadini, le banche e le istituzioni finanziarie russe colpite dal blocco di SWIFT, e in generale dalle sanzioni occidentali. Infatti, le criptovalute costituiscono una forma di asset virtuale che viene scambiato sulla blockchain senza alcun bisogno di intermediari, sfuggendo al controllo delle autorità.
Non è un caso che le quotazioni del Bitcoin da fine febbraio alla prima settimana di marzo sino aumentate del 20% sino a sfiorare i 40.000 dollari, per poi avere un andamento altalenante, ma mantenendosi su quei livelli.
Occorre allora domandarsi, quale tipo di governance finanziaria mondiale possa essere possibile e soprattutto conveniente. Quella governata dalla speculazione delle grandi oligarchie finanziarie, grazie alla totale deregulation dei mercati finanziari, come è stato sino ad oggi ma con crescenti rischi di instabilità, oppure una governance politico-finanziaria volta a ricreare le premesse di una nuova Bretton-Woods, questa volta più a trazione asiatica che occidentale e non basata su una sola valuta?
Ecco la nuova economia di guerra: la possiamo definire una “terza guerra mondiale”?

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 29 marzo 2022

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L’attacco russo in Ucraina conviene a tutti tranne che all’umanità

di Effimera

“Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri che muoiono”
(J. P. Sartre, Il Diavolo e il buon dio, 1962)

Il precipitare della situazione in Ucraina non sorprende del tutto. Ci sorprende, per quel che è dato sapere mentre scriviamo, nel pomeriggio del 24 febbraio 2022, la vastità dell’operazione che Putin ha deciso di scatenare.
Il casus belli va ricercato lontano, quasi un decennio fa, quando ci fu il cambio di governo a Kiev. Un movimento genuino iniziato con il movimento arancione nel 2004, trova il suo compimento dieci anni dopo nel 2014 con l’uscita di scena dell’allora presidente dell’Ucraina, Viktor Janukovyč (filo russo), in cerca di maggior democrazia (richiesta che potrebbe essere valida in qualsiasi paese, a Oriente come a Occidente) e viene di fatto strumentalizzato per insediare un governo nazionalista filo-occidentale (come spesso succede, pensiamo alle cosiddette Primavere arabe). Tali fatti innescano una spirale di eventi che acuiscono la tensione: la minoranza russa del Donbass comincia a sentirsi meno protetta, anche a seguito di alcuni attacchi di gruppi neo-nazisti che avevano già colpito a Kiev e a Odessa. La politica sovranista di Putin coglie l’occasione per annettere la Crimea, regione strategica fondamentale per la dottrina Monroe in salsa russa, rappresentando lo sbocco al mare e al Mediterraneo. La situazione rimane instabile in presenza di una guerra a bassa intensità nel Donbass, in qualche modo regolata dagli accordi di Minsk, che, in cambio dell’immediato cessate il fuoco, dovevano garantire maggiori poteri autonomi alle due repubbliche filorusse. Le violazioni alla tregua sancita a Minsk sono tuttavia ripetute e da ambo le parti, la maggiore autonomia di fatto non viene concessa: il risultato è un bilancio, fino a oggi, di oltre 14.000 morti.
Le elezioni del 2019 portano al potere in Ucraina l’ex comico (di lingua russa) Volodymyr Zelens’kyj, accentuando la svolta filo-atlantistica, con l’approvazione di un emendamento costituzionale che impone l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Una richiesta che viene subito definita da Putin inaccettabile. E la tensione ritorna a crescere.
Viene in mentre la crisi dei missili a Cuba, dopo che gli Stati Uniti avevano cercato di rovesciare il governo cubano con il fallito attacco alla Baia dei Porci. Proviamo a immaginare uno stato che confina con gli Stati Uniti (ad esempio il Canada) che entra a far parte di un’alleanza con la Russia o la Cina. La reazione Usa verrebbe immediatamente giustificata dai media filo-occidentali.
L’insistenza della Nato a trazione Usa con la collaborazione supina dei paesi membri europei ad accettare l’entrata di Kiev tra i paesi membri (e, in prospettiva, della Georgia) non giustifica l’aggressione russa ma ne fa comprendere le ragioni. Da questo punto di vista tra le due ex super potenze la differenza è minima. Entrambe attuano politiche egemoniche, giustificate dalla stessa dottrina Monroe pur con differente collocazione geografica. Ad entrambe, per ragioni diverse ma non opposte, questa guerra conviene. Putin mira al rafforzamento della sua potenza militare nazionalista e sovranista per recuperare terreno sul fronte economico. E ad aprire una possibile interlocuzione con la Cina, con un rapporto di forza maggiore. Biden e il partito democratico hanno un disperato bisogno di rallentare il declino americano, acuito da forti crisi interne, cercando di recuperare quella leadership militare che le vicende afghane hanno fortemente indebolito. E non è nascosto il tentativo di impedire una maggior partnership economica tra l’Europa e la Russia. Non è una novità che ciò avvenga quando alla Casa Bianca alloggia un presidente del Partito Democratico. Come in Italia sono i partiti di centro-sinistra ad aver partorito le peggiori leggi contro i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori (dal pacchetto Treu al Jobs Act), negli Usa, sono i presidenti democratici ad essere i più guerrafondai.
Si tratta, inoltre, di soddisfare le lobby delle armi che sono particolarmente potenti negli Usa oltre che in Russia e il cui ruolo non è affatto banale anche in Italia. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), un istituto internazionale indipendente che si occupa di conflitti, armi, controllo degli armamenti e disarmo, il valore annuale del commercio mondiale di armi ha superato i 75 miliardi di euro negli ultimi anni. Nel 2020 gli Stati Uniti hanno incrementato le vendite del 15% e rafforzato la propria posizione egemonica. Quasi il 40% delle armi importate negli ultimi cinque anni analizzati (2016-2020) è stato prodotto negli USA. Le esportazioni di Washington sono già quasi il doppio di quelle di Mosca, dopo pochi anni.
L’Italia, nel frattempo, non si sente affatto estranea alla contesa, anzi. Il ministro della difesa Guerini ha già dichiarato che l’Italia potrebbe schierare 2000 militari, mentre le basi Nato in Italia – Vicenza e Sigonella – sono già pienamente operative e la 173rd Airborne Brigade ha comunicato che «circa 800 soldati della 173/a brigata aviotrasportata Usaf di stanza a Vicenza sono in partenza per la Lettonia, dove saranno dispiegati per rafforzare le capacità difensive dell’alleanza Nato». Eppure per il coinvolgimento nelle operazioni della Nato dovrebbe esserci un voto del Parlamento.
A fronte di questa situazione, fortemente preoccupante, crediamo che per risolvere il conflitto in modo pacifico siano necessarie due mosse, entrambe in mano all’Europa. La richiesta di una neutralità dell’Ucraina sul modello della Svizzera (come suggerito anche da Sergio Romano, intervistato da Alberto Negri) e il distanziamento dalla politica internazionale degli Usa, chiedendo un ridimensionamento della Nato, un’organizzazione che non ha più ragione di esistere se non per finalità imperialistiche che oggi non hanno più storia.
Tuttavia l’Europa, parafrasando Metternich, è oggi, in campo internazionale, solo un’”espressione geografica”, a conferma dell’incompiutezza del progetto di unificazione, carente non solo nella politica estera ma anche nella politica fiscale e di difesa. È auspicabile che l’attuale situazione possa rappresentare un campanello d’allarme in grado di stimolare un processo di liberazione dalla sudditanza agli Usa, nata dopo la II Guerra Mondiale.
Il contesto attuale è infatti completamente diverso. Non solo non esiste più l’URSS come modello alternativo al capitalismo, ma esistono diverse forme di capitalismo fra loro in competizione, con diversi gradi di dirigismo. E tra queste, gioca un ruolo sempre più importante la Cina, che oggi è il vero convitato di pietra, in grado di sfruttare al meglio l’attuale crisi. E non esiste più neanche il Patto di Varsavia, sciolto da Gorbaciov (premio Nobel per la Pace) il 1 aprile 1991, con la promessa che la Nato non si sarebbe mai estesa verso Est. Promessa che, come abbiamo visto, non è stata mantenuta.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 25 febbraio 2022

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