poesia

Ra  ta    tu…      ie

di Andrea Zuccolo

Poesia dedicata alle vittime e ai feriti dell’orrenda strage di Bologna 2 agosto 1980.

Scese dal treno
così
senza nemmeno un discorso.

Fra sé.
Senza neppure aver dato
un cenno intorno.

Un piede rimbalzò
lungo la linea delle rotaie
dilaniato dal sole
fattosi caldo di sangue
nel dolce mattino
di un due d’agosto.

Conficcato nel palmo
l’istante d’uno scoppio
fra i malleoli
lo schianto rovinoso
come di un martello
in mi b molle.

Le bandiere stavano in fila
schierate
nell’ultimo prato di Piazza
in attesa dell’imminente attacco.

Atroce estate di santi patroni
di agate
polvere
e pietrame.

Rrrra ta taaa ta

Quando gli aerei
nel vespro domenicale
s’agguantano a stormi feroci
mentre i languidi baci
atterrano ai piedi d’una viola
gementi e piangenti
di lacrime colmi
davanti il genio
delle fosse non comuni.

Ta ta ta

In principio ed in fine
per le sinfonie del mondo
a piene mani
a pieni polmoni urlanti
scaraventati fragori
di cento palpiti
pulsanti
di cento corpi incendiati
di un nulla che arde lontano.

Ta ta

Ancora lo schianto
orrendo
e l’eco
di un’unica nota
guaito di cagna pregna
azzoppata.

ta

Le baionette scintillavano
a quattro quarti di luna
in grisaglia
con le braccia tese di latta.

Taaaa rra !!!

Tiratevi indietro!

Canaglia!

Il vostro ringhio
accende la sfida
e di notte dirompe la mitraglia.

Scoppio di cento ghirlande
e cadono a pezzi
i vetri
le statue
i palazzi
le vecchie poltrone.

In ginocchio per Dio!

Ora stentate a dire
che i fiori
non cedono i gambi.
Ma i fiori sputavano corolle
ma calpestati i fiori
non avevano mani.
Ma ai fiori sfalciati
recisero le lingue e le gole.

Ora cadano in ginocchio
le lame confitte.

In gi noc chio!

Mani nei fianchi.

In
gi
noc
chio!

Ra   ta

tuie tuie

tuiieee

E tu
bandiera d’agosto

sventola!

La foto è del Prof.Quatermass CC BY 3.0 da Wikimedia Commons

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Poesie di Andrea Zuccolo

Bastano poche poesie ad Andrea Zuccolo per definire con chiarezza le coordinate di una scrittura che ha radici profonde nella poesia del Novecento, ma forse ancora di più nel lavoro di autori capaci di accostare testi importanti e musiche preziose, quali Gianmaria Testa o Boris Vian. Come questi ultimi infatti Andrea Zuccolo, quando rivolge il suo sguardo acuto e spesso amaro verso la contemporaneità, non si limita a osservarne o denunciarne le insensatezze ma le vive in prima persona, le interiorizza sotto forma di inquietudine e tensione. Evitando ogni deriva moralistica, queste poesie si caricano piuttosto di tutta la solitudine che accompagna l’agire etico di un uomo, e al tempo stesso spremono la rabbia come se fosse una gemma da cui si spera possa sbocciare un futuro più giusto.

Francesco Tomada

                                                                                                           

Giallo tulipano

Fratello Jenin
quando leggeranno le nostre parole
saremo ormai altrove
appena dopo le tante storie
sempre disuguali.

Le nostre parole
non avranno più
nemmeno il senso
di un fiore color lampone.
Eppure questa
è Pasqua di sangue
di polvere e urla.
E il libro più sacro
accanto il cantico
avrà parole di orrenda vendetta.

E mi domando
la brama di Dio
del suo popolo
la lingua prediletta.

Che cosa allora
il sollievo di un dito
che tocca il giallo tulipano?

La corsa di un uovo
che rotola tra fili di erbe?
La lama affilata che separa la carne?

Il sordo silenzio
dopo un colpo di pistola?

La notte che viene
dopo il canto del merlo?

L’ultima notte fratello
prima che torni l’alba
dopo l’ultimo abbraccio
dopo l’ultimo sorriso
per restare sempre insieme

Ho fiori di ciliegio negli occhi

Ho fiori di ciliegio negli occhi
e rumore d’acqua per cuscino.
Ti regalerò la mia cravatta.
Legala stretta intorno al ramo.
Stringila forte fratello
perché canti fino a sera
la nostra rossa primavera.

Prendi una scodella
raccogli la bocca del mare.
Non senti il canto delle sirene?

Non senti?
Lo sciame di mille papaveri rossi
sbocciati nel prato
dove baciammo le nostre fidanzate
dove corremmo felici gli amori.

Ho fiori di ciliegio negli occhi
e male alla testa come il lampo
come il temporale che avanza
come la frusta che schiocca
come l’uragano che tuona.

Ho fiori di ciliegio negli occhi
e ai piedi tormenti di gelo.

Così sia

Se non vedo il vostro piede
se non ascolto il vostro passo
non per questo non leggo
le infinite vie
delle nostre vene.

Con l’inchiostro io scrivo
il destino del nostro sangue
ancor prima che il sole
si rapprenda e scompaia.

L’apostolo dagli occhi spenti
predica e predice
la parabola che
sborda il margine
e si schianta sull’orlo
della terra.

Ehi voi … doganiere in divisa …
scansatevi in tempo … per diooo!
Venite meno al precetto
d’un ordigno?
Costituitevi parte lesa
offesa, vilipesa.
In nome della patria, dell’arma
in nome di vostra cognata
di tutta l’armata.

Risuolatevi le scarpe.
Gendarmi di tutte le unioni
pieee … t … arm!!!

Un minuto di silenzio
niente corone
le rose per le vostre puttane.

Vi attendo in paradiso
dove i conti si regolano
a sberle di bronzo.

Se non lo sapete
aprite i denti
le resurrezioni
sono monumenti.

Così sia.

Ho urlato ai petali di girasole

Mentre guardo
il tramonto al declino
provo a contare
le vostre corolle
e so di perdere il conto

Lampo di lingue gialle
baci al vento
dondolio di ghirlande
screziati orizzonti
crepuscolo scuro
listato a lutto

Spalanca gli occhi
spaurito il barbagianni
atteso all’acacia

Formiche composte
seguono lente il corteo
di straziante dolore

Perché domani
sarà la tua mano
a stringere il laccio
o perdere la scarpa

Ho urlato ai petali di girasole
perché si voltassero
verso il sole d’oriente
perché con fiamma ardente
cantassero il gusto
del pane
della mora che geme
della cazzuola
che smalta un muro

Quando un mattone
è il nome
di una tomba
Ho urlato ai petali di girasole

« Annuncio… al mondo… ».

Come se non fossimo
e non se n’è accorto nessuno.

Il lampione si è innamorato
della pozzanghera
si specchia vergognoso
e a mattina si spegne.

Ho acceso la prima sigaretta
deciso a smettere di fumare
per dirmi che in fondo
anche il fumo ha le sue parole
contorte talvolta
diradano in proclami.

Mentre la folla fattasi plebe
tintinna con i gomiti
e picchia ai vetri delle credenze
dalla radio giunge a valvola
con voce magna
l’annuncio al mondo
che la guerra è finita.

« Annuncio al popolo e al mondo
che il pane è rincarato ».

Il placido popolo
dorme placido
e zampilla
e cade
la debole sorgente.

Bocche come pani
a piedi nel deserto
vagano fra sabbie che scottano.

Bacio il tavolo
mi inginocchio ai tuoi piedi
fino alla radice dell’albero
fino a farmi coprire
dal diluvio di stelle.

Arca dell’arca
fra i fiumi
ali di colomba
battute dai venti
volate alte e leggiadre
fino a deporvi
sul primo
e ultimo
mattone
del tempio di fango.

                      cielo!
                   al
        innalzo
    mi
Io
Nel
    canto
          di
            tutte
                  le
                   lotte.

Per tutte le veglie
per tutti gli abbracci
gli allarmi gli amori
i barili di alcool e petrolio
esplosi e rinvasati
per celebrare
con passo lento nel corteo
i riti funebri del mondo.

Il canto si leva
e indosso scuri occhiali
per scontrarmi col sole
per stringergli il polso
prima che pulsi il chiarore dell’alba
e sorprenderlo nel sonno.

La marcia dei panni
e delle lenzuola
mantelli pietosi
a coprire cupole di cadaveri
a diecine e diecine
distesi
a piedi scoperti.

Benedetti i piedi
nati scalzi
giocarono
nel talco dei vicoli
fra risa splendenti.

Dita come datteri
addentarono
grumi di sabbia
fino a sollevare
la tempesta
e seppellire
le braccia di palma
sotto una duna.

Mausoleo
a nessun dio.

I miei amici poeti

I miei amici poeti
non mi scrivono più
Osip Mandel´štam è morto
nel campo di transito
di Vtoraja rečka
il compagno Stalin ha stabilito
di congedarlo

Pier Paolo gioca a pallone
in un campetto
accanto al Lido di Ostia
il motore della sua auto
è ancora acceso

Su Dante
pende una condanna a morte
per via dell’esilio
cambia spesso indirizzo
e prova sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale

Esenin si è impiccato
in una stanza dell’albergo Angleterre
Majakovskij lo ha rimproverato
scrivendo che
in questa vita non è difficile morire
vivere è di gran lunga più difficile
eppure si è sparato al cuore
ma molti non ci credono

Non mi scrivono più
li hanno messi a tacere
perché la loro poesia
frantumava i vetri
con la forza di un sasso
scagliato da una fionda

Dunque le questioni sono due
o io sono un poeta mediocre
magari è anche vero
oppure ho avuto sorte
di vivere in un paese
democratico
emancipato
liberale
dove il sole splende
sulla vite
l’olivo
l’arancio
dove le statue carezzano i ponti
dove si vive ignari ridendo
ma i miei dubbi non hanno calcolo
chiunque nel mio paese
può andare in piazza
mettersi un paio di mutande in testa
e dichiarare
d’essere
un
Napoleone

Foto di günter da Pixabay

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Collezionisti di nuvole

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RICORDO DI ESULE

di Sergio Tardetti
 
Nel Giorno del Ricordo, pensando ai tanti che hanno dovuto lasciare tutto, portando con sé solo sé stessi e i propri ricordi…
 
 
Zara, mi disse, è la città della mia infanzia
Non saprei dire perché, mi commosse
Quella parola, infanzia. Immaginavo
 
Vicende dolorose, incerto stanco vagare
Da una città ad un’altra, finché un giorno
Approdi a un luogo che puoi chiamare casa
 
E lì pianti radici, cresci, esisti, fruttifichi
E il tuo tronco si fa ogni giorno più forte
E le generazioni di ogni tempo affollano
 
Certe tue stanze vuote e silenziose
Dove trascorri nell’ombra quei momenti
Dolorosi dell’anima, al ricordo di quando
 
Zara era ancora la tua città, il tuo mondo
Lasciato indietro, insieme alla tua infanzia
 
 
© Sergio Tardetti 2023
 
 
Foto di pubblico dominio

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SPORGENDOSI OLTRE L’ORLO DELL’ABISSO

Ho avuto il piacere di conoscere Vincenzo Calò Di Coste in occasione della pubblicazione della sua ultima raccolta poetica “La Sicurezza e Il pensiero cardiopatico”, edita da Bertoni Editore nella collana Aurora curata da Bruno Mohorovich. Per questo volume ho scritto la prefazione. Ieri Vincenzo avrebbe compiuto 40 anni, è venuto a mancare agli inizi del mese di ottobre di quest’anno (2022). Ci eravamo tenuti in contatto anche dopo la pubblicazione del suo volume, scambiandoci considerazioni sul nostro comune interesse per la poesia. Vorrei ricordarlo pubblicando il testo della prefazione alla sua raccolta di testi poetici fuori da ogni schema e da ogni convenzione. Ci mancherà come ci mancheranno le sue poesie innovative e dirompenti.

UNA PREFAZIONE

di Sergio Tardetti

Entri senza bussare né chiedere permesso nelle poesie di Vincenzo Calò e ti ritrovi, a un tratto, sull’orlo dell’abisso oscuro e insondabile dell’infinito spazio-temporale. La vertigine che ti assale a una prima lettura è talmente forte che vorresti allontanarti da lì, distogliere il pensiero che si è già impaniato in quei suoni, in quelle parole, in quelle frasi e in quei versi e riportarlo alla materialità quotidiana che circonda, abbraccia e rassicura.
Un’operazione apparentemente possibile e persino elementare, ma che incontra una qualche resistenza ad essere compiuta e completata, in virtù del fatto che ormai quelle poesie ti sono penetrate nel profondo della mente, ma soprattutto si sono insediate stabilmente nella psiche, e sollecitano a viva voce la tua presenza, per una seconda e più determinata lettura, almeno quanto la prima era stata decisamente cauta e frenata.
Torni così ad immergerti di nuovo tra quei versi, teso e concentrato nello sforzo di capire, anche se sai perfettamente da sempre che la poesia, quella che chiede e pretende di essere tale, non la si “capisce”, quanto piuttosto la si “comprende”. E non è certo una futile questione di semantica, un tentativo come un altro per prendere tempo, in attesa di venire folgorati sulla via di Damasco da una improvvisa illuminazione. Capire è un’azione della mente, un’operazione razionale; comprendere attiene più alla psiche, la parte istintiva e irrazionale di noi stessi. “Capire” è in un certo modo un accettare o un rifiutare tutto quello che è conforme o difforme rispetto alla nostra più intima natura razionale. “Comprendere” è, invece, un modo di includere nella propria anima quello che soltanto fino a un istante prima era rimasto fuori, in quanto sconosciuto, per la qual cosa è necessario attivare una modalità empatica di porsi in relazione con l’esistenza e l’esistente.
Se questo vale per la poesia in generale, a maggior ragione vale per quella di Vincenzo Calò, per la quale l’ispirazione sembra scaturire direttamente da situazioni oniriche indotte e/o autoindotte. Niente, dunque, di tutto quello che noi, lettori modicamente acculturati, abbiamo immaginato che fosse fino ad ora poesia, un antico retaggio derivante dalla frequentazione delle aule scolastiche, in giornate fatte di versi da parafrasare e mandare a memoria, perché questo chiedeva il docente di turno. Versi, peraltro, scolpiti in maniera talmente indelebile nei ricordi di ciascuno, che di tanto in tanto affiorano alla mente in funzione consolatoria o come aiuto per prendere sonno più facilmente in certe notti particolarmente difficili.
Dico questo, non certo per stigmatizzare comportamenti del tutto legittimi, derivanti dalla più o meno sollecita frequentazione delle aule scolastiche, che hanno generalmente contribuito a creare una identità sistematica della poesia, quella, appunto, appresa sui banchi di scuola, che ne consente una facile e immediata certificazione. Si tratta piuttosto di operare un confronto – o un riscontro, a seconda dei casi – fra l’appreso e quello che è rimasto escluso dall’apprendimento scolastico. Ogni scelta, ogni decisione, del resto, include elementi conformi a quella scelta, e ne esclude altri difformi. Come afferma l’autore nella poesia che dà il titolo alla prima raccolta “La sicurezza”, “Evidenziato un blocco cognitivo, si tenta di agire fuori dal normale”.
La poesia contemporanea, come quella di Vincenzo Calò, non è poesia per lettori pigri e assuefatti alla banale assimilazione di contenuti e alla ancora più banale memorizzazione di interi brani, con la complicità di ritmi orecchiabili e rime che addolciscono la potenziale cacofonia di certi componimenti. La poesia contemporanea, come quella di Vincenzo Calò, richiede, anzi pretende, il contributo attivo del lettore, chiamandolo a decrittare sensi possibili collegati e derivanti dalla sua sensibilità artistico/(ri)creativa. Accade così che, scaturita da un’attività di libera creazione, la poesia si ricrea nella mente e nelle multiformi interpretazioni del lettore, di ogni lettore di qualunque epoca, venendo ad assumere nuovi significati, capaci di trascendere il significante e amplificando quelli già presenti e suggeriti dalla suggestione degli insoliti e irrisolvibili accostamenti verbali.
L’operazione poetica realizzata da Calò rinvia ad illustri precedenti di autori del principio del secolo scorso, esponenti della corrente artistico/letteraria del Surrealismo. E fino a qui, niente di nuovo, si direbbe, se non fosse che l’autore spinge agli estremi l’operazione di accostamento di termini che si legano fra loro soltanto in situazioni oniriche e che, al contrario, nella realtà non trovano riferimenti fisici né concettuali. È proprio in questo andare oltre i limiti già sperimentati che consiste la novità delle composizioni di queste due sillogi, “Il pensiero cardiopatico” e “La sicurezza”, contraddistinte da una assoluta e perfetta omogeneità di stile, frutto di un’operazione che definire “tecnica” è decisamente riduttivo, e che potrebbe riassumersi in questa affermazione: “…il vocabolario della lingua italiana si apre da sé”. (Da L’indice alzato nella silloge “Il pensiero cardiopatico”)
Nel corso dell’accostamento alle composizioni, si avverte inizialmente un effetto di straniamento, nello sforzo di penetrare nel guscio dei versi, sforzo che nasce dalla sensazione quasi di attraversare una compatta distesa di roccia impermeabile e inaccessibile. Da una successiva rilettura ecco però trasparire il senso, quello che credevamo smarrito o perfino assente; appare, a questo punto, una poesia fatta di stratificazioni che vanno mentalmente rimosse, una ad una, per poter arrivare al nucleo ultimo, quel senso che ogni componimento racchiude e che è già accennato e suggerito a partire dal titolo. Si assiste a una completa decostruzione della realtà, che scompagina i rapporti tra gli oggetti e le parole, così come si mostrano nella nostra esperienza sensibile. Ne risulta per il lettore una sorta di rebus da risolvere, o di puzzle da ricomporre, il cui esito finale è la creazione di una nuova realtà, di una origine che non è azzardato definire psichedelica.
Una poesia, quella contenuta in questa silloge, che non si preoccupa di avere come riferimenti il bello e il buono, l’estetica e la morale correnti, ma che, invece, si pone il compito arduo e gravoso di anticipare gli elementi culturali di un futuro ancora tutto da disvelare e immaginare, del quale chi scrive si rende consapevole precursore. Il poeta non si fa condizionare e ipnotizzare dallo spirito dei suoi tempi, vacui e freddi, crea, piuttosto, uno spirito nuovo per tempi nuovi.
L’obiettivo finale, come afferma André Breton, nume e stella della poesia surrealista, resta sempre lo stesso: “La stretta poetica come la stretta carnale/ Finché dura/ Impedisce le prospettive di miseria del mondo”.

Vincenzo CalòLA SICUREZZA E IL PENSIERO CARDIOPATICO. Bertoni Editore, 2020

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