Cultura convergente

Dove collidono i vecchi e i nuovi media

di Henry Jenkins

Prefazione
di Wu Ming

Nel migliore dei mondi possibili, la pubblicazione di questo libro scuoterebbe come un terremoto il dibattito italiano su Internet e le nuove tecnologie di comunicazione. Se non produrrà nemmeno uno scarto, significa che quel dibattere è una parvenza di vita, finestre sbattute dal vento in una villa disabitata, mortorio al cui confronto un poltergeist è il Carnevale di Rio.
Cultura Convergente è un saggio rivoluzionario per molte ragioni. La prima è un marchio di fabbrica anglo-sassone: l’essere comprensibile, appassionante, farcito di prove ed esempi. Nel testo si fa spesso riferimento ad autori europei, capaci di brillanti costruzioni teoriche, ma molto meno dotati nel tradurle in un linguaggio immediato e in pratiche sociali osservabili. Come per magia, nelle pagine di questo libro ogni oscurità concettuale si fa cristallina.
Il secondo merito è che il professor Jenkins si immerge nella cultura popolare del nostro tempo, fotografa in che modo le nuove tecnologie la stanno cambiando, poi torna in superficie e ci mostra un reportage che in realtà non è sui mezzi di comunicazione ma su coloro che li usano per comunicare. Nelle sue foto ci siamo noi.
A questo proposito, occorre fare subito una precisazione importante.
In Italia per “cultura popolare” si intende di norma quella folk, preindustriale o comunque sopravvissuta all’industrialismo. “Cultura popolare” sono i cantores sardi o la tarantella.
Chi usa l’espressione in un contesto differente, di solito si riferisce a quella che in inglese si chiama “popular culture”. Qui da noi siamo soliti definirla “cultura di massa”, espressione che ha un omologo anche in inglese (“mass culture”), ma Jenkins fa notare che il nome ingenera un equivoco, e inoltre c’è una sfumatura di significato tra “mass culture” e “popular culture”.
L’equivoco è che la “cultura di massa” – veicolata dai mass media (cinema, tv, discografia, fumetti) – non per forza dev’essere consumata da grandi masse: rientra in quella definizione anche un disco rivolto a una minoranza di ascoltatori, o un particolare genere di cinema apprezzato in una nicchia underground. Oggi la stragrande maggioranza dei prodotti culturali non è di massa: viviamo in un mondo di infinite nicchie e sottogeneri. Il mainstream generalista e “nazionalpopolare” è meno importante di quanto fosse un tempo, e continuerà a ridimensionarsi.
La sfumatura di significato, invece, consiste in questo: cultura di massa indica come viene trasmessa questa cultura, vale a dire attraverso i mass media; cultura popolare pone l’accento su chi la recepisce e se ne appropria. Di solito, quando si parla del posto che la tale canzone o il tale film ha nella vita delle persone (“La senti? E’ la nostra canzone!”), o di come il tale libro o il tale fumetto ha influenzato la sua epoca, si usa l’espressione “popular culture”.
tsolIl problema è che il dibattito italiano sulla cultura pop novanta volte su cento riguarda la spazzatura che ci propina la televisione, come se il “popular” fosse per forza quello, mentre esistono distinzioni qualitative ed evoluzioni storiche, altrimenti dovremmo pensare che Sandokan, Star Trek, Lost, il TG4 e La pupa e il secchione sono tutti allo stesso livello, o che Springsteen, i REM, Frank Zappa e Shakira vanno tutti nello stesso calderone, o che non esistono distinzioni tra i libri di Stephen King e quelli delle barzellette su Totti, dato che entrambi li ritrovi in classifica.
Ci sono due schieramenti l’un contro l’altro armati – e dalle cui schermaglie dovremmo tenerci distanti: da un lato, quelli che usano il “popolare” come giustificazione per produrre e spacciare fetenzie; dall’altra, quelli che disprezzano qualunque cosa non venga consumata da un’élite.
Sono due posizioni speculari, l’una sopravvive grazie all’altra. Le accomuna l’idea che a fruire della cultura pop siano le masse mute dell’Auditel, dei sondaggi di mercato, del botteghino.
La terza benedizione di questo libro è proprio questa: va alla radice di molti equivoci e li estirpa, sposta il cuore dei problemi, da un groviglio inestricabile di banalità a una nuova prospettiva, un modo di affrontare le questioni che spiazza e ridisegna ogni barricata.
Sul finire del 2006, Jenkins ha illustrato sul suo blog otto caratteristiche fondamentali dello scenario dei nuovi media. Non un campionario di strumenti e dispositivi, ma un insieme di pratiche e tratti culturali che ritraggono come gli individui e le società si relazionano ai mezzi di comunicazione.
E’ interessante notare che nel dibattito nostrano questi 8 elementi sono sì riconosciuti e accettati, ma il più delle volte in un’accezione triviale, inquietante o stereotipata. Sono quindi un’ottima mappa per analizzare nel dettaglio proprio il genere di equivoci che il libro aiuta a scacciare.
Secondo Jenkins, il panorama mediatico contemporaneo è:

1. Innovativo
Nessuno lo nega. La rapidità con la quale nuove tecnologie di comunicazione nascono, mutano e si mescolano non è in discussione. Il più delle volte, però, l’estrema velocità del processo è il pretesto per dire che nella fretta stiamo perdendo qualcosa – i libri, le relazioni, la vita vera. I giovani navigano su Internet, giocano alla Playstation, scaricano musica invece di sviluppare interessi culturali. L’innovazione tecnologica ci arricchisce sul piano materiale ma ci depaupera su quello umano, soprattutto se non ci dà il tempo di digerire, riflettere, scegliere. Simili affermazioni partono da (pre)giudizi di valore e molto di rado citano esempi chiari e concreti. Al contrario, questo libro illustra centinaia di situazioni reali dove le novità tecniche stimolano la creatività, aprono territori inesplorati, aumentano le opportunità espressive, diversificano la produzione estetica. Forse è vero per qualsiasi epoca, dall’invenzione della scrittura in avanti, ma ancor di più per quella che ci troviamo a vivere, sempre più partecipativa, “a bassa soglia d’accesso”, con un forte stimolo a creare e condividere e la sensazione diffusa che il proprio contributo “conti davvero qualcosa”.

2. Convergente
Una delle tesi di questo libro è che la collisione tra diversi media, vecchi e nuovi, sia più un bisogno culturale che una scelta tecnologica. Computer e cellulari hanno accorpato molteplici funzioni e si sono trasformati in telefono, televisione, stereo, fotocamera, tutto-in-uno. Eppure nessuno di questi agglomerati ha sterminato i singoli avversari. Piuttosto sono i contenuti della comunicazione che vengono declinati in ogni formato, per potersi spostare da un mezzo all’altro e ricevere così un distribuzione sempre più capillare e pervasiva. La stessa canzone trasmessa in radio diventa jingle pubblicitario in televisione, file da condividere sul computer, colonna sonora al cinema, videoclip su YouTube, suoneria del cellulare, slogan su una maglietta. Non c’è un singolo attrattore, computer o cellulare che sia, capace di trasformare ogni idea in un unico prodotto, fatto di immagine, suono, testo, relazione. Al contrario ogni idea è capace di molte facce, per attirare su di sé strumenti diversi e attraversarli tutti.
Da noi si parla molto più di convergenza tecnologica, di mostruosi cellulari multifunzione, che di cultura transmediale. Quando poi lo si fa, l’attenzione è sulla strategia delle multinazionali dell’intrattenimento, interessate a “spostare” i loro contenuti, come caramelle da un distributore all’altro. Nessuno ragiona sul fatto che lo stesso interesse è spesso condiviso, sovvertito e praticato in maniera “illegale” anche dai consumatori, che muovono storie, suoni e immagini da un territorio all’altro. Nessuno accetta l’idea che questo andirivieni risponda anche a un modello estetico, un nuovo modo di raccontare, informare, sabotare, divertire. E’ solo marketing. Se sei uno scrittore, devi scrivere un romanzo, un libro fatto di carta. Tutto il resto – siti web, booktrailer, forum, contenuti extra – è materiale promozionale, appendice spuria che puzza di soldi.

3. Quotidiano
Anche in questo caso, dire che i media e le nuove tecnologie fanno parte della vita quotidiana è discorso da autobus, a mezza via tra paura ed eccitazione, schiavitù egiziana e terra promessa. Questa quotidianità ha come sottoprodotto il famigerato multitasking, lo stato di “attenzione parziale continuata” che in Italia è la bestia nera di insegnanti, genitori e intellettuali gentiliani. Pochi ammettono che si tratta di un’abilità necessaria per affrontare il nuovo ambiente: mantenere un’attenzione diffusa e “a bassa intensità” su una molteplicità di stimoli, per poi focalizzarla ad alta intensità quando uno di questi stimoli si modifica in maniera significativa, ovvero ci avverte di prestare “più attenzione”. Il multitasking andrebbe insegnato a chi non ce l’ha nel sangue, non bruciato sul rogo. Purtroppo da noi la caccia alle streghe è sempre aperta e ben retribuita.

4. Interattivo
Grazie ai nuovi media, possiamo interagire più in profondità con suoni, immagini, informazioni. Possiamo determinarne il flusso, scegliere in ogni momento cosa vedere o ascoltare; possiamo archiviare contenuti, usarli in contesti nuovi, modificarli. Spesso il dibattito su queste opportunità scivola nello stallo tra chi sostiene che “tutto ormai si riduce a un mero taglia e incolla” e quanti ritengono che la rielaborazione è alla base della creatività. Oltre questo dilemma stantio, Jenkins mostra come l’abitudine a (ri)appropriarsi di contenuti abbia riportato alla luce un magma di produzioni amatoriali e creatività diffusa, forme di vita tipiche della “vecchia” cultura popolare, che erano andate in esilio sotto terra con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa.

5. Partecipativo
Fino a vent’anni fa la grande maggioranza del pubblico era soltanto audience e l’unico messaggio che poteva emettere si riduceva a una scelta binaria: ascolto/non ascolto, consumo/non consumo. Oggi abbiamo a disposizione diversi canali per far conoscere le nostre idee a una platea molto ampia. Certo non basta aprire un blog o una pagina su myspace: si tratta di una competenza che va appresa e affinata. Senza dubbio è un’abilità che fa la differenza in molti ambiti lavorativi, e la farà sempre di più.
Purtroppo, invece di interrogarsi su come formare individui che sappiano maneggiare certi strumenti, si preferisce evocare spettri. Ultimo esempio: la “nuova” ondata di teppismo giovanile – subito definito cyberbullismo – sarebbe partita da Internet, perché la possibilità di filmare le proprie bravate, caricarle su You Tube e “diventare famosi”, funzionerebbe da incentivo. Stessa cosa per la pedopornografia e altre mostruosità: tra le righe di inchieste in stile freak show, che accostano fatti e leggende, esperti e ciarlatani, si insinua sempre il dubbio che aprire un sito e attivare una rete di contatti sia troppo facile. Come dire che i circoli neonazisti esistono perché purtroppo, in Italia, incontrarsi e costituire un’associazione è un gioco da ragazzi. Così la diffusione libera e trasversale di contenuti diventa di per sé un fenomeno da contenere, ridurre, gestire. Salvo poi lamentarsi, alla prima occasione, del consumismo passivo di certi adolescenti.

6. Globale
Le nuove tecnologie ci permettono di interagire in qualsiasi momento con persone e situazioni, a prescindere dalla collocazione geografica. In Italia, il più delle volte, questa constatazione serve a brandire la minaccia di un’omologazione culturale sempre più forte. Il rischio esiste, senz’altro, ma perché non puntare lo sguardo anche su altri scenari, ad esempio l’eventualità, nient’affatto remota, che questa situazione faccia aumentare la diversità culturale, come risposta al crescente bisogno di uscire dal provincialismo e di costruirsi un’identità sempre più ricca e sempre nuova?

7. Generazionale
Tra “nativi” e “immigrati” dell’era digitale e partecipativa ci sono attitudini molto differenti, approcci diversi agli stessi media. Questo non significa che le comunità non possano confrontarsi ed educarsi a vicenda. Troppo spesso si preferisce erigere steccati, insistere su stereotipi come “i giovani sono tutti smanettoni” oppure “i giovani chattano e basta” e via discorrendo. Si prende atto che per molti aspetti il passaggio di conoscenze ed esperienze da una generazione all’altra è saltato, dunque andrà tutto in malora, e comunque “non c’è più niente da fare”.

8. Ineguale
Quando in Italia si parla di “digital divide” lo si fa sempre in termini tecnologici. Bisogna mettere i computer (e l’informatica) nelle scuole, bisogna portare la banda larga ovunque, bisogna accendere hot spot per la connessione wireless, e via dicendo. Fatto questo, il baratro digitale sarà colmato. Come dire che l’analfabetismo è una questione di diottrie. Alcune persone non sanno leggere perché gli occhi non gli funzionano bene. Attivando un programma di “occhiali per tutti”, il problema sarà debellato. Purtroppo, l’analfabetismo non si sconfigge nemmeno insegnando l’ABC, così come il “digital divide” non si elimina con i computer o la banda larga e nemmeno insegnando a usare linguaggi di programmazione e HTML.
Certo, se uno ha due gradi di vista, prima di insegnargli a leggere dovrò dargli gli occhiali. Certo, se uno non riconosce le lettere, deve imparare l’ABC. Ma poi leggere e scrivere implicano una serie di competenze più raffinate, così come far parte di una cultura partecipativa non è solo poter navigare a 10 mega al secondo.
Il punto non sono le abilità cognitive. Un quindicenne apre un programma qualsiasi, inizia a esplorarlo senza istruzioni e dopo qualche giorno lo padroneggia. Suo nonno non è in grado di maneggiare uno stereo diverso da quello che ha in casa e per usare la posta elettronica impiega una settimana di titanici sforzi.
Il vero problema è che a parità di mezzi e di capacità tecniche, adolescenti diversi si rapportano alla Rete secondo modalità molto diverse, tali da collocarli su versanti opposti di un crinale sociale molto discriminante.
La proverbiale facilità con la quale i ragazzini utilizzano i nuovi media fa credere a molti adulti che sia sufficiente fornire loro la tecnologia giusta per trasformarli in cittadini della nuova società digitale. In un recente intervento per la MacArthur Foundation, Jenkins ha criticato proprio questo approccio “liberista”, dove la fede nel laissez faire non fa che moltiplicare le ineguaglianze.
Il mito dell’adolescente in simbiosi con le macchine nasconde una realtà variegata, dove moltissimi ragazzini che hanno il computer, la posta elettronica e un software per scaricare musica, non sanno usare un motore di ricerca per trovare informazioni, notizie, prodotti. Altri lo sanno usare ma non sono in grado di selezionare, tra le tante risposte, quella che davvero gli serve, e così desistono prima di aver trovato davvero quello che cercavano. Altri ancora trovano ma non sanno di preciso cosa (un conto è copiare un articolo di Wikipedia, un altro è capire che cos’è quella fonte, come funziona, cosa implica).

Questo non bastaJenkins individua tre problemi nell’idea che gli adolescenti, usando Internet, sviluppino da soli le competenze di cui hanno bisogno, così come da soli diventano campioni di videogame o utenti di YouTube.

Il primo è un problema di partecipazione: non basta aprire una porta perché le persone entrino. Per molti la Rete è uno spazio importante, un’esperienza ricca di stimoli, un mezzo da usare in maniera attiva; per altri resta un ambito residuale, poco noto, limitato, da consumare in modo passivo e senza interazioni significative.

Il secondo è un problema di trasparenza, che si pone già per i media tradizionali. Una qualsiasi notizia di solito è opaca rispetto a una serie di caratteristiche cruciali: chi la diffonde, per quale pubblico, per quale committente, con quali interessi, su quale sfondo ideologico. Allo stesso modo, un articolo di Wikipedia non ci dice nulla sul sapere diffuso e l’intelligenza collettiva, così come una canzone scaricata in maniera illegale non ci interroga sui temi del diritto d’autore, il ruolo dell’artista, la diffusione della cultura.

Il terzo è un problema etico, come evidenzia il cyberbullismo di cui si parlava prima. Pochi osservano che il problema non è YouTube o le potenzialità della Rete, ma il fatto che ancora non abbiamo sviluppato una percezione etica chiara di quale sia la differenza tra fare uno scherzo a un compagno di classe; fare uno scherzo e filmarlo; fare uno scherzo, filmarlo e renderlo fruibile da chiunque.

Cultura Convergente non si occupa di tematiche educative, ma è comunque evidente in molte pagine lo stimolo ad elaborare e diffondere un nuovo modello di alfabetizzazione mediatica. Ecco la quarta ragione che rende molto importante l’edizione italiana di questo lavoro.
Nel nostro paese, inutile dirlo, i pochi programmi attivati su larga scala riguardano la sicurezza. Si cerca di istruire i ragazzi a difendere la propria privacy, a evitare truffe, a filtrare comunicazioni e pubblicità indesiderate, a reagire in caso di soprusi, tentativi di adescamento, raggiri. Inoltre, si fa informazione rispetto ai reati che potrebbero commettere con pratiche largamente diffuse: download di contenuti protetti, condivisione di file, pubblicazione di filmati.
Nessuno sembra capace di attivare un confronto sulle “competenze digitali” che sempre più determinano la formazione sociale, culturale e professionale degli individui. L’Età della Partecipazione, inaugurata dalla Rete, è carica di promesse: cittadinanza attiva, consumo consapevole, creatività diffusa, intelligenza collettiva, saperi condivisi, scambio di conoscenze. Tuttavia, se ci si aspetta di vederla sorgere all’orizzonte come un’alba scontata e inevitabile, si finirà per trasformarla nel suo contrario, producendo una nuova, vasta massa di esclusi.

Wu Ming 2 e Wu Ming 1, luglio 2007

Henry Jenkins – Cultura convergente. Apogeo. Milano, settembre 2007

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