Vogliamo anche le rose

di Ines Valanzuolo

I diari di tre donne vissute tra gli anni sessanta/settanta nell’ultimo film di Alina Marazzi

L’anteprima dell’ ultimo film di Alina Marazzi, presentato a Roma il tre marzo, è stata accolta come un evento da ricordare e valutare in rapporto alla “miseria”del presente ma aggiungerei, soprattutto, da godere.

Sono infatti “rose” quelle che ci offre la produzione filmica sapiente ed ironica di Alina Marazzi, proprio quelle “rose” che l’abitudine alla rinuncia spesso oggi ci impedisce di chiedere.

Ci consente di ripercorrere anni di ricerca faticosa e felice, di emozioni e cambiamenti, finalmente liberati dalla retorica didattica, ideologica, religiosa, partitica, patriarcale, matriarcale, fraterna e sororale. Ci rassicura dell’esistenza di donne che si sono informate e formate, e informano e formano, su una produzione culturale di donne o su donne, considerate per il loro esistere e significare.

Con leggerezza. Italo Calvino in “Lezioni americane” a proposito della leggerezza nel linguaggio letterario dice “…nel momento in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio , devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”.

Questo ha fatto Alina col linguaggio filmico. E’ difficile parlare di quanto è accaduto tra gli anni sessanta/settanta nella vita delle donne senza rischiare di deformarlo sotto il peso dell’attualità di volta in volta osannante, revisionista, negazionista.
Servono altri metodi di conoscenza e di verifica. I diari di tre donne vissute tra gli anni sessanta /settanta, Anita, Teresa Valentina, presi dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, vengono letti con l’ausilio di materiali di repertorio dell’epoca: inchieste e dibattiti televisivi, spezzoni di film, di filmini familiari, riprese di manifestazioni, fotografie, fotoromanzi, pubblicità, musiche.

Si riesce a sorridere quando la deliziosa ragazza con sottogonne inamidate e vitino di vespa si chiede fiduciosa e trepidante quale sarà il suo futuro di sposa, amata e amante e nella magica sfera di cristallo compare il corpo nudo di una ragazza che balla su un prato circondata da ragazzi; si ride delle presuntuose e disarmanti risposte, durante inchieste e dibattiti, di uomini/patriarchi ma quando l’indicibile, l’irrapresentabile si impongono, il colore, le linee, le immagini, la musica sostituiscono efficacemente le parole ed ecco ancora la leggerezza, originale e graffiante: la sofferenza fisica, la paura, di Teresa, ragazza del sud costretta ad abortire, si racconta con piedi nudi femminili che camminano su lastre di ghiaccio.

Il Paese delle donne, 5 marzo 2008

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Bassolino e il dovere di andarsene

di Rita Guma*

Antonio Bassolino, alla decisione della Procura di indagarlo per presunti reati commessi nel corso del suo mandato di commissario per l’emergenza rifiuti, tra il 2001 e il 2004, e di fronte alle attese dei colleghi di coalizione e dell’opinione pubblica su una sua scelta di lasciare l’incarico, ha risposto con un supposto “dovere” di restare al suo posto per dare il suo contributo al commissario per l’emergenza Gianni De Gennaro.

Ci si chiede innanzitutto come possa – dopo essere stato egli stesso commissario straordinario per l’emergenza rifiuti per tanti anni senza cavare un ragno dal buco – affermare l’utilità di un suo ‘aiuto’ a De Gennaro. Inoltre – al di là dell’inchiesta giudiziaria, è’ la stessa relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti in Campania approvata a dicembre 2007 a gettare una luce sinistra sulla gestione commissariale in questi anni.

In essa infatti si afferma, con esclusione delle ultime due gestioni, un “giudizio incondizionatamente negativo sull’apparato commissariale, le cui inefficienze strutturali si sono rivelate, lungo questi anni, di entità tale da pregiudicarne, in modo irreversibile, operativita’ ed efficacia. La struttura del Commissariato, infatti – dicono i parlamentari – ha finito sovente con il dirottare parti consistenti delle risorse per la propria auto-sussistenza, assumendo sempre più l’aspetto di un orpello inutile e dannoso”.

“La storia del Commissariamento, inoltre, – prosegue la relazione – ha registrato numerose ed allarmanti vicende criminose che hanno visto come protagonisti rappresentanti anche apicali dell’apparato burocratico commissariale, tanto da contribuire a radicare nei cittadini campani una percezione di sostanziale inaffidabilità, se non proprio di collusione con la criminalità di impresa e di tipo mafioso, delle istituzioni preposte alla soluzione dell’emergenza-rifiuti”.

Quindi a Bassolino, che parla di una presunta “necessità politica di andare avanti”, rispondiamo che è stata proprio la politica – cioè il parlamento guidato da una maggioranza di centrosinistra – a fargli capire che la vera necessità per lui sarebbe quella, piuttosto, di fermarsi.

*presidente nazionale
Osservatorio sulla legalita’ e sui diritti onlus

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Congedarsi da queste storie anonime non e’ facile

di Vincenzo Andraous

Lutrec non c’è più, lo hanno trovato privo di vita, riverso sul ciglio della strada, con la siringa nella vena e gli occhi grandi spalancati.
Questa assenza è un dolore che lacera in profondità, perché si tratta di una persona conosciuta, un giovane con tante capacità al fondo recintato delle apparenze.
Lutrec l’ho conosciuto anni fa in un oratorio, aveva 13 anni, tosto al punto giusto da farmi rammentare l’acqua ferma del lago dietro casa, uno scoglio e un ragazzino, una storia anche quella amara, ma in una vita tutt’ora nella ricerca mai stanca di un aggrappo da consolidare, da condividere e consegnare, per resistere alle proprie derive.
Ricordo bene i sussurri, i bisbigli nei riguardi di Lutrec, un presente senza passato, storpiato da chi ha meno, da chi ha poco, da chi ha nulla, come se essere nato con le dita strette a pugno, fosse già condanna, più ancora di una madre che non c’è, di un padre in galera, di un fratello che si fa coinvolgere sempre più spesso dagli spiccioli facili.
Quel giorno ritornando a casa pensavo: destinazione vicolo cieco, mentre una strana sensazione mi aggrediva alle spalle.
Noi, il mondo adulto, così presi dai medagliamenti, dai lavori in corso per ricollocare  i luccicanti curriculum, ci siamo disposti in cerchio per consigliare Lutrec, ognuno a fare valere le proprie ragioni, nessuno ad ascoltarlo veramente.
Il piccolo duro se n’è andato giovane, e questo silenzio non  rende meno opprimente il carico delle responsabilità, per non essere riusciti a tracciare un percorso di promozione umana, ove riconoscere caratteri emancipanti, aiutando Lutrec a passare da una posizione di rincalzo a una da protagonista della propria crescita personale.
Non è possibile accettare il rifiuto di vivere da parte di un adolescente, senza lottare, insieme, accettarne la resa, prima ancora d’aver iniziato a sognare, prima ancora d’esser stato scalciato da una buona fatica.
Genitori, insegnanti, educatori, impegnati anche con ciò che non vorremmo, con ciò che accentua la nostra incapacità a farci i conti, ma forse quel che è un sogno, sovente è un lamento pietoso, il tentativo di salvare dal proprio destino chi è ripiegato su stesso come Lutrec, a gambe divaricate in mezzo al piazzale dell’oratorio, a sfidare il mondo nei pochi metri di periferia, nei residui di tempo che sta inesorabilmente scemando, senza far rumore, senza dare fastidio.
Congedarsi da queste storie anonime non è facile, per farlo occorre che quel sogno nel petto di ognuno non faccia mai arrendere la volontà a continuare ad allungare la mano in una presa forte, perchè leale, dove l’attenzione sia più tenace dei fallimenti che pure interverranno, più ostinata del cieco apparire.
Lutrec e l’incontro con il  vicolo cieco, quello che non fu per scelta, ma corrisposto all’età del fuoco che brucia senza scintille d’avvertimento.
Proprio da questo capolinea di ogni speranza, occorre riconsegnare alle differenze generazionali gli strumenti di difesa per non cadere nella delusione, scandagliando il cuore senza ipocrisie, perché per reggere l’urto delle difficoltà, don Enzo Boschetti ci ha lasciato detto: si educa e si rieduca solo con l’amore a la fiducia.

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Sulla Moratoria delle esecuzioni.

Il primo marzo 1847 il glorioso Michigan aboliva la pena di morte, dimostrando così che persino negli Stati Uniti è possibile vivere senza ammazzare la gente.

Non fatevi ingannare dal silenzio piombatoci addosso dopo le celebrazioni della Risoluzione sulla Moratoria delle esecuzioni: il brutto deve ancora arrivare, visto che una sessantina di paesi forcaioli ha scritto al Segretario delle NU promettendo battaglia alla prossima Assemblea Generale.
Il capofila dei “soliti sospetti” (Cina, Corea del Nord, Islamici assortiti, Birmania, Zimbabwe, ecc.) è il “boia del mondo” Singapore e la loro posizione è estremamente solida perché, al contrario della tortura, la pena di morte non è (ancora) vietata dalle norme internazionali.
Gli incauti che, ignorando i consigli di Eric Prokosch, si sono avventurati in territori a loro sconosciuti, non sapevano che questa pena è vietata solo per i minorenni, i minorati e le donne gravide, che la Dichiarazione Universale non ne fa cenno, che l’Articolo 6 del l’ICCPR può essere letto in senso abolizionista, ma che, come le Garanzie ECOSOC, limita (ma non vieta) l’uso della pena capitale ai “most serious crimes” e che il dimenticato Secondo Protocollo è solo opzionale, anche se importante.
Insomma, l’Italia abolizionista di qualche mese fa non aveva bisogno di propaganda ma di buone letture. Purtroppo, come per la sventurata Corte Penale Internazionale di cui ricorre il decimo inutile anniversario, il danno è fatto.
I paesi forcaioli poi aggiungono che:
“Ogni stato ha il diritto inalienabile di scegliere il suo sistema politico, economico, sociale, culturale e legale, senza interferenze esterne” e che “Nulla nello Statuto delle NU autorizza queste a intervenire in materie che sono interne alla giurisdizione di uno stato.” (tradotto in italiano significa che i paesi abolizionisti sono pregati di pensare ai casi loro).
A settembre il Movimento Abolizionista italiano avrà bisogno di gente preparata e di personale competente per combattere questa battaglia, ma
“This commodity is, as always, in short supply”

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”Alla fin fine, ammazzare mia madre mi è venuto facile”

di Ghismunda

Di parricidi, reali o metaforici, è piena la letteratura del Novecento. Di matricidi, invece, niente o quasi. Gli Edipi abbondano, le Elettre scarseggiano. Troppo sgradevole, forse, l’argomento, percepito quasi come sacrilego, indegno del rapporto più intimo, dolce e consolatorio che ci sia; e troppo irriverente verso una figura, la Madre, i cui significati affondano nel mito e assumono, nel tempo, connotazioni simbolico-religiose sempre più profonde, fino a farne oggetto di venerazione e indiscutibile amore. Ma la realtà profana, quella che si consuma tra le quattro pareti domestiche giorno dopo giorno, anno dopo anno, è spesso diversa. In particolare, la relazione tra madre e figlia è una delle più complesse e ambivalenti che esistano e l’amore, se c’è, quando c’è, può arrivare ad assumere le forme più diverse e contraddittorie, spesso compresenti: attaccamento morboso, dipendenza, oppressione, invidia, rivalità, gelosia, emulazione, ma anche tanta cura, attenzione, premure, pietà. Fino a non farcela più. Fino all’odio. E a pulsioni liberatrici inconfessabili. Raccontare tutto ciò, districare tali grumi emotivi ed esistenziali, è difficile. Ma Alice Sebold c’è riuscita. Ne “La quasi luna” eguaglia, e forse supera, il precedente successo di “Amabili resti” e scrive un romanzo impegnativo, sgradevole a tratti, sconvolgente, eppure ironico, delicato, struggente; sempre, comunque, lucidissimo, asciutto, teso. Fino all’ultima pagina.Non voglio qui raccontare come Helen, che ha 49 anni ed è l’io narrante, uccide sua madre, che ne ha 88 e che è ormai arrivata al capolinea. In fondo, come dice nell’incipit, ammazzarla le è venuto più facile di quanto avrebbe pensato (se mai l’avesse consapevolmente pensato). Preferisco parlare della struttura del racconto, che procede per flash-back, intermittenze della memoria, squarci di luce su momenti della vita passata, alternati ai gesti prima della morte inflitta, poi di ciò che ne resta, di un corpo da pulire, accudire ancora (spogliare? vestire? nascondere? recuperarne un pezzetto, per sé?). E il lettore scopre pian piano una figura totemica di madre, “malata di mente”, chiusa in casa per paura del mondo di fuori, una donna un tempo bellissima, una sorta di Garbo, di musa ispiratrice, in gioventù modella di lingerie, fasciata in sottovesti di seta, come dimostrano le foto sparse per tutta la casa, che tanto ammaliavano la sua bambina trascurata, colpevole forse di ricordarle la delusione di una vita spentasi sui binari di un’anonima routine di provincia: “A casa nostra si faceva l’elenco delle delusioni di mia madre e io me le vedevo davanti tutti i giorni come fossero appiccicate sul frigorifero, un elenco statico che la mia presenza non riusciva a mitigare”. Una presenza, quella della madre, divorante, asfissiante, al centro delle attenzioni di un marito buono e vanamente innamorato, solo, sempre più solo, che finirà coll’ “andarsene” e lasciare alla figlia tutta la pesante eredità di cure e protezione che richiedeva la moglie. Per Helen sarà una vita dura, sospesa tra senso del dovere, bisogno d’amore e desiderio spasmodico di libertà, di autonomia (un matrimonio – fallito – dei figli, un lavoro). Ma è questo il punto: riuscirà mai, Helen, a “liberarsi” dalla Madre? E noi, ci riusciamo? Qualcuno potrebbe obiettare: e perché dovremmo? Forse per non riprodurre in noi i modelli genitoriali, per non ripetere di loro quello che più detestiamo, che non accettiamo, in fatto di carattere e di relazioni umane; per non essere (non dover essere) come loro, come lei; per essere, come figlie femmine, noi stesse, uniche e libere. Ma, scrive la Sebold, “quand’è che una persona arriva a capire che nel DNA portiamo intessuti tanto il diabete o la densità ossea dei nostri consanguinei quanto le loro deformità relazionali?”. Checché se ne dica, ancora oggi per una figlia è più difficile avere una vita propria: in genere, quando c’è, è una conquista strappata con i denti e sottoposta a continui “ritorni”; è una parentesi o una fuga. Condivido in pieno queste parole della Sebold: “Oggi, nel XXI secolo, a chi viene ancora attribuito il dovere di sacrificare la propria vita per badare agli altri? Alla figlia femmina. E in questo stesso XXI secolo le conquiste raggiunte in campo medico fanno sì che gli anziani vivano sempre più a lungo, per cui la figlia femmina rischia di arrivare a settant’anni continuando ancora a occuparsi dei genitori. Mi dispiace, ma questa è una specie di prigione per chi non ha un rapporto assolutamente meraviglioso e idilliaco con la madre o il padre (e a quanti capita davvero?). Ho visto centinaia di donne portare il peso di un fardello che con i progressi della medicina e dell’antica convinzione che il ruolo di una donna sia quello della balia e della badante, non ha fatto altro che aumentare”. E quanti sensi di colpa, quanta solitudine, nelle desolate province della nostra opulenta società, accompagnano oggi questo ruolo antico? “nessuno sapeva com’era diventata la mia vita con mia madre”. Una vita destinata a non finire mai, nemmeno “dopo”, anzi, come Helen intuisce, soprattutto “dopo”:

“… non riuscivo a cancellare l’immagine di mia madre che si decomponeva strato per strato, finché anche lei non diventava tutta ossa. In quell’idea, in quella lenta muta verso un ammasso di calcio ingiallito che bisognava tenere unito per evitare il crollo, c’era qualcosa di spaventoso e di consolante a un tempo. L’idea che mia madre fosse eterna come la luna. In quella posa goffa, la realtà ineluttabile mi ha fatto venire voglia di ridere. Viva o morta che fosse, una madre, o la sua assenza, ti plasma la vita. Mi ero illusa che fosse semplice? Che il disfacimento della sua sostanza mi avrebbe restituito una me stessa vendicata? L’avevo fatta ridere facendo il giullare. Le avevo raccontato storie. Avevo sfilato come un buffone alla mercé di altri buffoni e così facendo mi ero sincerata che quella donna non si perdesse nulla, anche se aveva deciso di voltare le spalle al mondo. Sacrificando a lei tutta la mia vita, compravo in cambio dei brevi momenti per me: potevo leggere i libri che mi piacevano; potevo coltivare i fiori che volevo… Solo quando ho creduto di aver raggiunto la libertà sono riuscita a capire fino a che punto fossi imprigionata”.

Alice Sebold
La quasi luna
Edizioni e/o, 2007

La voce di Ghismunda, 27 febbraio 2008

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