Che fine ha fatto il poliziotto di quartiere?

25 Aprile 2008, Anniversario della Liberazione
Dedicato a Maria Giovanna Cortesi Giusti

“Non vorrete mica che arresti i miei elettori, vero?”
Sceriffo H. J. Lee, Jefferson Parish LA

Durante la campagna elettorale del 2001 il tema del poliziotto di quartiere era il cavallo di battaglia dei Berluscones. Questa entità leggendaria (in cui nessuno si è mai imbattuto) doveva risolvere tutti i problemi di sicurezza del Bel Paese. Grazie a lui saremmo dovuti entrati nell’era della pace e della tranquillità.
In quei giorni il Berlusconi condiva la sua campagna con le consuete falsità affermando che, con i governi di centro sinistra, gli omicidi erano triplicati e replicando, a chi gli faceva notare che era accaduto l’esatto contrario e si erano ridotti a un terzo, che la gente era scoraggiata e non denunciava i crimini.
Persino i padani sanno che una parte rilevante dei reati non è denunciata, che negli Usa almeno la metà dei reati gravi è sconosciuta alla polizia, ma che le autorità sono a conoscenza della quasi totalità degli omicidi e che solo una parte molto piccola di questi è rubricata come sparizione, incidente, morte naturale o suicidio. Ma questi sono discorsi da grandi e non interessano l’italiano medio che invece adora farsi terrorizzare da qualche morbosa trasmissione televisiva.
Così, al grido (ma pensa te) di legge e ordine, il Berlusca vinse le elezioni: ebbe una solida maggioranza parlamentare, formò un governo di soli 99 membri e fece sparire le statistiche sul crimine.
Il suo intento era lodevole: non voleva ci preoccupassimo scoprendo che sotto di lui i reati erano, come del resto i debiti, cresciuti, passando da 2,1 a 2,8 milioni, e che persino gli omicidi, dopo un crollo decennale, erano saltati all’insù di un buon 15 per cento.
Perché spaventarci con la realtà quando ci piace tanto essere truffati da un po’ di statistiche taroccate? Fu quindi a fin di bene che il Berlusconi ci elargì una serie di rassicuranti medie pluriennali, dalle quali risultava che tutto andava bene. (bugie, maledette bugie e statistiche)
Nella campagna elettorale 2008 invece il poliziotto di quartiere è scomparso ed è stato sostituito dalla “ronda padana” (che non è un formaggio di grosse dimensioni). La ragione di ciò sta nel fatto che i consumatori-elettori non vogliono poliziotti fra i piedi.
Soprattutto non vogliono il poliziotto di quartiere, perché questo non ha il compito di reprimere il crimine, non va in giro manganellando zingari e negri, non se ne sta acquattato dietro un cassonetto con il dito sul grilletto, pronto a sgominare bande di stupratori albanesi. Il suo compito è invece quello di reprimere il disordine. Egli fa le multe alle auto in doppia fila, impedisce il lavoro nero e gli abusivismi edilizi e non si limita a dare la caccia ai feroci lavavetri e agli spietati graffittari, ma cerca anche gli affitti in nero. Il poliziotto di quartiere reprime le infrazioni e i piccoli  reati che gli italiani considerano normale commettere. Al contrario delle ronde mette il naso nei nostri affarucci.

Questi sono i motivi per cui non abbiamo e mai avremo poliziotti di quartiere.

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L’anima e la carne

di biblos

Il morbo” di Gian Ruggero Manzoni (Edizioni Diabasis)

Fossi stato nei panni dell’autore, avrei esitato a lungo prima di varcare la soglia del Palazzo della Letteratura, presentandomi al portone d’ingresso con un cognome così ingombrante. L’imbarazzo, poi, sarebbe senza dubbio cresciuto se avessi espresso il proposito di confrontarmi sullo stesso piano con il mio più celebre omonimo, scrivendo, cioè, un romanzo storico, ambientato per di più nel corso di un’epidemia di peste. Qui, però, terminano le affinità e i confronti, perché Manzoni (Gian Ruggero) decide di dare una forma completamente diversa ad una storia che avrebbe potuto facilmente correre il rischio di scivolare nella parodia.
Intanto, l’ambientazione delle vicende allarga il proprio orizzonte ben oltre le sponde di un tranquillo lago subalpino, toccando addirittura quelle opposte di un vasto e tempestoso oceano. Da un micromondo, conosciuto e ripercorso fino alla noia, a un macromondo ignoto, che può destare stupore e meraviglia al principio ma che la ragione riesce comunque a ricondurre al denominatore comune ad altri luoghi conosciuti, quello che si potrebbe sintetizzare nella abusata e logora formula “Tutto il mondo è paese”. Buoni e cattivi, amici e nemici, avidi e generosi, spavaldi e timidi si incontrano in ogni angolo della terra, anche il più remoto. A volte il viaggio e l’avventura sono pretesti per sfuggire a se stessi, altre volte stimoli per ritrovarsi e ricongiungersi con l’altra metà della propria anima.
In questo caso il protagonista sembra fermamente intenzionato ad attraversare la propria esistenza nelle vesti fiammeggianti dell’angelo vendicatore, consapevole di combattere una lotta che non potrà concludersi se non con la propria disfatta fisica, non certamente con quella dell’ideale che propugna.
Spirito libero, rivoluzionario, ribelle, anticlericale come possono esserlo solo certi romagnoli e – aggiungerei io – anche certi miei concittadini che ho conosciuto e che continuano a tramandare di padre in figlio i misfatti delle “Stragi perugine” di un secolo e mezzo fa, il protagonista viene proposto al lettore attraverso una fisicità che rasenta il più duro stile iperrealista. Niente ellissi né metafore, a voler celare i terribili dettagli di un fisico minato dal morbo e giunto ormai alla soglia della sua completa disgregazione, niente allusioni da romanzo ottocentesco, ogni cosa è descritta e narrata per come è.
Tra Luigi Compagnoni, il protagonista, e fra Martin de Campinas, l’antagonista che alla fine si fa amico e persino complice, si inserisce la bella e poetica figura di Jolanda, la creola che con estrema dedizione accudisce il Compagnoni morente. E’ una figura dipinta talvolta a leggere sfumature, talvolta con tratti decisi, che richiama e ricollega particolari dell’uno e dell’altro dei due attori principali della narrazione.
Luigi Compagnoni è soltanto un uomo, non un eroe romantico, non un martire, non un profeta, e come tale ci viene proposto dall’autore, anche se si tratta senza alcun dubbio di un uomo oltre la norma. Lui che della Chiesa ha conosciuto solo l’implacabile braccio secolare, che ha procurato a lui e ai suoi compagni sofferenze inenarrabili, non rinuncia, tuttavia, pur morente, a mantenere aperto il confronto e sgombra la mente da pregiudizi che gli impedirebbero di vedere l’uomo che si cela sotto il rozzo saio del monaco, consapevole che oltre l’abito, c’è sempre l’uomo, con i suoi vizi e le sue virtù. Allo stesso modo si propone anche il frate, attore di un duello verbale che si conclude solo con la morte del protagonista, un duello condotto sul filo di una dialettica dei fatti contrapposti a parole che di questi fatti risultano sempre una difficile ed ambigua rappresentazone.
Ben più pericoloso della peste è il morbo che corrode e consuma l’individuo, il morbo del pregiudizio, che scava incessantemente nella mente di ciascuno di noi fino a svuotarla di ogni capacità di discernere. La morte della ragione coincide inevitabilmente con la morte della libertà, nel momento in cui ciascuno di noi consegna ad altri il proprio spirito imbavagliato e drogato, la libertà muore.
Un’ultima nota di merito va data alla lingua con cui sono state redatte le pagine del romanzo, una lingua ottocentesca che, anziché essere avvertita come un mero esercizio di stile, costituisce al contrario l’essenza stessa della storia, la materia che dà sostanza ai sogni dell’autore.
È un vero peccato che un’artista eclettico e a tutto campo come Gian Ruggero Manzoni non si dedichi in maniera più sistematica alle lettere, nelle quali potrebbe senza dubbio figurare ben più degnamente di tanti “besselleri” che continuano a riempire gli scaffali delle librerie. In un Autore si cerca sempre ciò che, al termine della lettura, ci fa sentire migliori di quando abbiamo preso in mano la sua opera. In questa difficile e spesso impossibile impresa Gian Ruggero Manzoni è sicuramente riuscito.

Il piacere di leggere, 21 aprile 2008

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Joë Bousquet – Il silenzio impossibile

di Alfonso Lentini

La misura breve della scrittura, che trova nell’aforisma la sua più nota espressione, ha morfologie svariate. Se l’aforisma è un giro di compasso che per quanto minuscolo risulta in sé concluso, altre forme di scrittura breve si accreditano in quanto puri e semplici frammenti e tendono verso l’apertura, somigliando a movimenti curvilinei la cui eleganza deriva proprio dal loro essere sospesi sul nulla, respiri solidificati, privi di inizio e di fine.
Antonio Castronuovo, squisito cultore di aforismi e scrittura frammentaria, opera in questo campo come autore in proprio, ma anche come traduttore e curatore, ed ha svolto negli anni in quest’ultima veste una preziosa ricognizione, spaziando in ogni tempo e in ogni latitudine, da scrittori della classicità antica come Sinesio di Cirene, al drammaturgo tedesco dell’Ottocento Friedrich Hebbel (i cui “Diari” erano vergati, si dice, su miriadi di foglietti volanti), allo scettico (e per questo inviso al fascismo) Giuseppe Rensi. Era naturale pertanto che prima o poi dovesse imbattersi nell’opera di Joë Bousquet, sospesa per sua arcana natura appunto fra aforisma e scrittura frammentaria.
Bousquet (1897-1950) è una figura appartata, ma non minore, di quella vasta spirale di artisti, poeti, pazzi e ribelli che fu l’esperienza del Surrealismo francese. Ferito in guerra e divenuto paraplegico, trascorse gran parte della sua vita intellettuale costretto all’immobilità nella penombra di una camera le cui pareti erano piene di quadri di Ernst, Mirò, Tanguy. Scrisse in queste condizioni una vasta teoria di opere (e abbozzi di opere, e ombre di opere, e sogni di opere) che formano nell’insieme le tappe di un unico journal.
Tutta l’opera di Bousquet sembra una sorta di rivisitazione allucinata del Viaggio intorno alla mia camera che un altro francese, Xavier De Maistre (fratello del più famoso Joseph) compose intorno al 1790 durante una sua forzata ma momentanea immobilità. A differenza di De Maistre, però, Bousquet non rimase chiuso nella sua camera solo nei 42 giorni di arresti domiciliari a cui l’altro era stato condannato: vi rimase per un’intera vita (al 41 di rue Verdun a Carcassonne), adagiato nel suo grande letto oramai tramutato in vascello di avventurose navigazioni mentali e afflitto da perenni sofferenze. Fra De Maistre e Bousquet, poi, c’è di mezzo il grande mare in tempesta del Surrealismo. La “malattia” del Surrealismo che cade a picco su una malattia materiale e inguaribile.
Il suo “viaggio” dunque non poteva essere ironico e scanzonato come quello di De Maistre, doveva essere per forza altra cosa: vagante, lancinante, onirico e sfrangiato.
Il silenzio impossibile (pubblicato a cura di Antonio Castronuovo dalle edizioni Via del Vento) propone ora per la prima volta in Italia un’ampia scelta di frammenti tratti da un quaderno di memorie, Le pays des armes rouillées (“Il paese delle armi arrugginite”) fra i tanti taccuini che Bousquet andava costantemente coprendo della sua fitta grafia, specialmente di notte.
Vi leggiamo righe (o solidificazioni di respiri) come queste: “Bisogna nascere di lato; ci si fa notare per gli sforzi compiuti a entrare nella fila. Un gatto in acqua, tutto qui”. E ancora: “Sono il punto di incontro in cui la luce è preda del buio”. “Sono sempre lo stesso e i miei giorni entrano dalla finestra: essi non giungono a me”. Annotazioni memoriali in cui però prevalgono ricognizioni oniriche: una specie di autobiografia del sogno, un capovolgimento del tradizionale genere memoriale che prevede il prevalere della veglia e del racconto realistico.
“Surrealizza il giorno, surrealizza la notte…” teorizzava infatti questo autore, il cui letto-vascello era divenuto intanto meta di visite sempre più frequenti da parte di poeti, filosofi e artisti come Ernst, Dalí, Bellmer, Miró, Klee, Valéry, Gide, Eluard, Aragon. La sua casa offriva rifugio ad ebrei perseguitati dal nazismo, mentre a distanza prendevano forma intrecci e amicizie con personaggi come Breton. Nel 1942 conobbe Simone Weil alla quale rimarrà legato sino alla morte.
Da lontano, nell’ombra, ma con un ruolo incisivo, Bousquet fu insomma una presenza-assenza, uno scrittore di grande finezza che le sofferenze e la prolungata immobilità trasformarono in uno straordinario “sensore predisposto all’ascolto dello spazio interiore” (Castronuovo).

Joë Bousquet
Il silenzio impossibile
a cura di Antonio Castronuovo

Via del Vento edizioni, Pistoia 2007. pagg. 35.

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Bando di concorso per collaborazione con la rivista Stratagemmi. Prospettive teatrali

Teatro e periferia. Un lavoro di lunga semina, quali risultati?

La rivista trimestrale di studi sul teatro Stratagemmi, giunta al suo secondo anno di vita, offre a tutti i suoi aspiranti collaboratori la possibilità di contribuire al sesto numero (giugno-agosto 2008) con la pubblicazione di un articolo dal tema Teatro e periferia. Un lavoro di lunga semina, quali risultati?
Nella sezione Taccuino (quella specificatamente dedicata all’attualità e con un taglio di inchiesta giornalistica) del quinto numero di Stratagemmi, la redazione ha avviato un lavoro di indagine incentrato sulrapporto tra teatro e periferie a Milano. Abbiamo incontrato i direttori artistici di alcuni dei molti teatri che popolano, spesso clandestinamente, la rete periferica della città e li abbiamo intervistati, scoprendo di volta in volta che tutti ritenevano superata o addirittura sbagliata la distinzione tra centro e periferia, soprattutto quando si parla di diffusione della cultura. Dalle loro parole abbiamo compreso che il lavoro di insediamento e integrazione nel territorio è uno sforzo continuo che spesso i piccoli e grandi teatri lontani dal cuore della città devono affrontare da soli, senza alcun tipo di sostegno e incentivo dalle pubbliche amministrazioni e dalle istituzioni che si occupano di teatro. Abbiamo incontrato proposte, programmi e realtà molto diversi; ma in nessuno di questi casi il termine periferia può essere disgiunto da alcune dinamiche di tipo sociale: la sicurezza, la mancanza di collegamenti con il centro, il disagio, il senso di non appartenenza alla città.
Con questo concorso la redazione vorrebbe aggiungere altre voci, da altre città italiane (e straniere?) per continuare a tracciare un itinerario tra coloro che si considerano, a ragione, “centri altrove” della cultura e della sua diffusione, specificatamente in ambito teatrale. Cerchiamo così aspiranti redattori che scovino, in qualsiasi periferia di qualsiasi città, volti sconosciuti di chi, lontano dai riflettori, ha ottenuto o cerca di ottenere risultati fuori dai centri istituzionalmente riconosciuti; storie nuove, in grado di raccontare le ricadute sulle periferie in cui si collocano e il rapporto col resto della città.
Il concorso è rivolto a tutti gli appassionati, cultori o studiosi di teatro, di giornalismo e di storie da raccontare, che vogliano cimentarsi in un articolo che, in caso di selezione, troverà posto nella seconda parte della rivista, il Taccuino.
Al bando possono partecipare tutti coloro che abbiano almeno un diploma di laurea triennale e non abbiano compiuto i 35 anni di età. Non è previsto alcun compenso in denaro. La redazione selezionerà tra tutti gli articoli pervenuti quelli meritevoli di pubblicazione.
I suddetti articoli dovranno essere di una lunghezza compresa tra le 8.000 e le 25.000 battute spazi inclusi.
La forma è libera, è ammessa (e incoraggiata) anche l’intervista, purché corredata da una introduzione comprensiva di una piccola biografia dell’intervistato/i. Con preferenza, gli intervistati devono essere i direttori artistici o comunque chi si occupa in prima persona dei cartelloni e del programma culturale dei teatri scelti. Ogni partecipante può presentare più di un articolo, e più candidati possono associarsi per presentare un dossier su più realtà di una stessa città.
Gli articoli devono essere inviati al seguente indirizzo mail: redazione@stratagemmi.it entro e non oltre il 15 maggio 2008 corredati da un breve c.v. dell’autore e la motivazione per cui si è scelto di parlare di quella realtà teatrale. E’ importante indicare il numero di telefono al quale i candidati potranno essere contattati in caso di selezione per la pubblicazione. Ogni candidato può richiedere a redazione@stratagemmi.it l’estratto in pdf dell’indagine pubblicata sul numero CINQUE, oltre a ulteriori informazioni.

www.stratagemmi.itcontattiabbonamenti@stratagemmi.it

Pontremoli editore, via Vigevano 15 – 20144 Milano tel. 0258103806 – fax 0258102157

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L’abete rosso

di Ghismunda

Mi piacciono gli alberi. Per motivi che poco hanno a che fare con l’ambiente o con l’estetica. Proietto in essi connotazioni antropomorfe: forza e saggezza in primis; ma anche pazienza, resistenza, dignità; come una superiore lungimiranza data forse dall’altezza o dal fatto di rimanere lì quando molti di noi non ci saranno più; capacità di sopravvivere, di rinascere al verde e alla vita anche in condizioni ostili. Per la forza delle radici.

La notizia è di ieri: in Svezia è stato scoperto l’albero più vecchio del pianeta. I suoi 8000 anni, datati al carbonio 14, ne fanno il più antico organismo vivente oggi conosciuto. Si tratta di una conifera, un abete rosso che ha superato “Matusalemme”, il pino Bristlecone di Las Vegas, sulle pendici della White Mountains, che ha “solo” 5.000 anni. Nel mio abbattimento presente, l’abete rosso, sfuggito al taglio indiscriminato delle foreste, si fa simbolo.

Forse ha ragione Nichi Vendola: di fronte alla scomparsa della Sinistra nel Parlamento italiano non ha senso cercare capri espiatori. Ma solo ricominciare, dalle radici e dalle viscere di ciò che è cambiato nella società in questi ultimi anni e che la Sinistra non ha saputo cogliere e capire. Prima di tutto quel voto operaio alla Lega, che tanto fa male e che forse non è solo espressione di protesta. Stamattina, spiegando in classe l’affermazione del nazismo in Germania e le ragioni del suo consenso, mi sono accorta, mutatis mutandis, di riecheggiare il presente: l’ascesa al potere del “nazionalsocialismo” fu garantita dall’appoggio non solo della grande borghesia industriale e agraria, ma anche da larghi strati medio-bassi della società, come gli operai dequalificati, asserviti alle moderne catene di montaggio della grande industria, e gli impiegati pubblici e privati, un largo ceto medio, ostile ai non-tedeschi, alle prese con le difficoltà, il carovita, e il grigiore del vivere quotidiano. Mentre l’ideologia nazista offriva risposte concrete in termini di sviluppo ed occupazione, la Sinistra si divideva: i comunisti facevano un tutt’uno di socialdemocrazia e fascismo, visti come varianti dello stesso dominio capitalista e perciò altrettanto ugualmente da avversare, favorendo così la deriva autoritaria della repubblica. Qualcosa si è ripetuto: la proposta liberal-moderata di Veltroni ha sdoganato l’estrema, a sua volta (auto)liberatasi dal perenne ricatto della coalizione che le aveva imposto scelte e votazioni in contrasto con la sua natura e la sua identità. Ma poi qualcuno ha giocato sporco: la pressione continua (un nuovo ricatto) del “voto utile” e la sbandierata esigenza di una semplificazione politica all’americana scambiata per vera democrazia, hanno portato o a qualche voto in più per il PD (per altro decisamente insufficiente rispetto all’oliata macchina berlusconiana) o ad una sofferta astensione. Dopo l'(auto)emarginazione, si è chiesto anche il suicidio ad una Sinistra che non ha trovato né il tempo né le forze né una proposta credibile da contrapporre alla sconfitta. Tutt’al più un provvisorio cartello elettorale, per giunta accompagnato da altre divisioni, un work in progress che non è mai partito. E che ora si traduce in disfatta. Ripartire, ora, bisogna dalla società, provare a rinascere, nelle forme di un anticapitalismo adeguato ai tempi, ma senza tagliare le radici, che affondano in una storia di conquiste che i giovani rischiano di non conoscere più. Già vedo prossima l’abolizione del 25 aprile, mentre con angoscia mi chiedo chi raccoglierà a livello istituzionale il grido dell’ennesimo operaio della Thyssen Terni, colpito a morte proprio ieri dal braccio meccanico di un escavatore. Mentre la Destra celebrava il suo trionfo.

Ricominciare, rimanere nella terra, nella società. Come l’abete rosso. A cui mi fa bene pensare.

La voce di Ghismunda, 15 aprile 2008

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