Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione

Fondazione “Giuseppe Mazzatinti” – Liceo Statale “Giuseppe Mazzatinti”
GUBBIO (PG)

Quinto Seminario Nazionale di Informazione-Formazione

Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione
Nuove Tecnologie in rete
Competenze di base e competenze evolute

Auditorium
Liceo Statale “G. Mazzatinti”
Gubbio (PG)

18 aprile 2008 – dalle 15.00 alle 19.00
19 aprile 2008 – dalle 9.00 alle 13.00

Parteciperà al seminario Gianni Marconato

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Chi volesse presentare al seminario un proprio contributo sull’esperienza delle Tecnologie in rete
può segnalarmelo nei commenti dell’ articolo del 21 marzo o via mail
– Maria Teresa Bianchi –

Download:
SCHEDA DI ISCRIZIONE
(da inviare entro il 4 aprile 2008 per chi presenta contributi,
entro il 10 aprile per chi non presenta contributi)

Lettera ai Dirigenti Scolastici: Seminario 18-19 aprile

Aggiornamento:
sarà rilasciato Attestato di Partecipazione.
L’ESONERO dal servizio per il personale della scuola,
è previsto ai sensi della normativa vigente.

La Fondazione Giuseppe MAZZATINTI è ente accreditato per la formazione presso il M.P.I.
con Decreto del 25/07/2006

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Moonlighting

Venerdi’ 4 APRILE ore 21.30

Presentazione libro

Moonlighting di Gianni Giovannelli

Conduttori

Dino Silvestroni – Gianfranco Coccari

MAMA’S CLUB – Via S.Mama, 75 RA

Per la prima volta viene affrontato con esame lucido e critico il rapporto fra lavoro nero (moonligthing, appunto), organizzazioni criminali ed evasione fiscale: democrazia e legalità risultano un onere insostenibile per l’economia globale.
Sei milioni di lavoratori ogni giorno partecipano al ciclo italiano di accumulazione della ricchezza, svolgendo attività nell’economia sommersa.
Sono i fantasmi dei vari territori moonligthing. Sfuggono alle statistiche, alle ricerche, è difficile contarli. Ma sono il pilastro dell’intero sistema.

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Era uno di quelli

di Vincenzo Andraous

Su un quotidiano c’era un articolo posizionato in modo da esser letto poco e male, diceva che nella parte abbandonata di un Ferrotel,  era stato trovato sopra un materasso lacero e sporco, un extracomunitario privo di vita.
E’ trascorsa una settimana per scoprire nei sotterranei di una mensa-accoglienza, il corpo senza  vita di una persona, di un ultimo perfino nella malattia.
E’ quanto meno indecente che un episodio del genere passi sotto silenzio, come fosse la risultanza  di un dazio collaterale da mettere in conto, da sopportare e digerire, a fronte di un’inondazione dell’essere “diverso”, che tanto fa adirare  e imprecare chi in casa propria non ha più diritto di vivere in sicurezza.
E’ formidabile l’atteggiamento indifferente e anche intimidatorio dei mass-media, quando intendono cavalcare la tigre nazional-popolare, che vorrebbe le strade pulite, mai più auto in doppia o tripla fila, ma anche e soprattutto poter mandare a quel paese il vigile che redige l’eventuale sanzione.
Indifferenza come strumento di difesa al dilagare della minaccia incombente, del bisogno di sicurezza e protezione, indifferenza verso chi muore senza fare baccano, verso chi disturba da vivo e finalmente diparte senza più scocciare alcuno.
E’ indifferenza a voler allontanare un peso, un carico, perfino il ritaglio di un giornale, è fastidio per quanti s’affannano a non volersi mischiare nelle differenze, quelle che tracciano un confine alle parole spese male, avvinghiate con il filo spinato delle bugie, quelle che non concedono scampo, non consegnano giustizia, invece lacerano disponibilità e buoni sentimenti, menzogne come gli atteggiamenti mentali volutamente disattenti.
E’ morto un immigrato, non un clandestino, un uomo in possesso del necessario permesso di soggiorno, con i requisiti richiesti ben conservati al fondo delle tasche.
Intimidazione mascherata dalla tragicità dell’evento, perché nelle poche righe a epitaffio, c’è malcelata e irriverente la stoccata alla cultura dell’accoglienza, verso quella politica eretta a  norma da rispettare, nei riguardi della fede e delle fratellanze allargate, c’è intimidazione  oltre che indifferenza, nella facilità con cui dividiamo, sommiamo, per meglio rendere conforme e accettabile un onere fastidioso.
“Lavora e non commettere reati, il resto è affar tuo, chiaramente anche il morire, nel massimo rispetto della pace altrui”.
Un piccolo articolo a margine, in fin dei conti se ne è andato uno dell’est, uno di quelli regolari, che fatica davvero nei cantieri, nelle fabbriche, uno di quelli che non ha creato disturbo precario, né problemi all’imprenditore di turno per qualche sfortunato incidente.
Uno di quelli che non intaccava la libertà degli altri, di coloro che neppure lo vedevano, un uomo invisibile, di quelli usati per le braccia sempre pronte all’alzo, quelli delle otto ore di lavoro, e delle altre più dure, a comando.
E’ morto uno di quelli che non  consumava la cena in famiglia, lavorava di giorno e arrancava la notte nel sonno, nel tentativo di rimettere insieme qualche nuova speranza.
Della sua storia personale, della sua dignità e di noi stessi sparsi all’intorno, non interessa a nessuno.

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Monaci o popolo del Tibet

di Enrica Collotti Pischel*

Sul Tibet esiste una pessima informazione, specie in questi giorni in cui la regione è all’onore delle cronache. Per fare un minimo di chiarezza sulla questione tibetana, riportiamo questo articolo della celebre sinologa Enrica Collotti Pischel, scomparsa nel 2003. L’articolo fu pubblicato da Il manifesto il 9 gennaio 2000. Naturalmente, narrare gli antecedenti e liberarli dalle speculazioni non significa legittimare la repressione violenta delle attuali autorità cinesi contro la protesta tibetana. Ringrazio l’amico Roberto Sassi per la segnalazione.] (V.E.)

La notizia della fuga dalla Cina del giovanissimo Lama Ugyen Trinley Dorje, terza autorità nella gerarchia delle reincarnazioni del buddhismo tibetano è stata ritenuta molto ghiotta dai giornali italiani e viene considerata un grave scacco per il governo cinese che non sarebbe riuscito a impedirla, nonostante il proprio apparato militare.

Quest’interpretazione ignora che i cinesi non hanno mai fatto nulla per fermare la fuga dei rappresentanti politici e religiosi tibetani dalla Cina: nel 1959 l’intera classe dirigente tibetana, con alla testa il Dalai Lama, si allontanò da Lhasa con una lunga fuga a piedi, nonostante il pattugliamento degli aerei da combattimento cinesi. Fa parte della politica delle autorità cinesi il pensare che gli avversari è sempre meglio tenerli fuori del paese che dentro, meglio lontani dai loro adepti che vicini. Se poi le circostanze equivoche di quest’ultimo episodio – cioè la mancata condanna di Pechino – possano far pensare a ipotesi di contatti con il Dalai Lama e di trattative di conciliazione, è difficile dirlo ora. Certamente il fatto che la grande organizzazione propagandistica che negli Stati Uniti (ma anche in Europa e nello stesso nostro scafato e realistico paese) sostiene la causa dell’indipendenza tibetana si sia buttata sull’episodio, non rende certo facile un’intesa: i cinesi sanno fare molto bene i compromessi e sono disposti a concluderli quando siano convenienti. Ma ritengono che debbano essere cercati e raggiunti con la massima discrezione e comunque al di fuori di pressioni che li possano far apparire come una resa a pressioni straniere. E non dimentichiamo mai che “straniero” per l’intera Asia orientale nell’ultimo secolo e mezzo ha significato umiliazione e asservimento: di essa fece parte anche il tentativo pi volte condotto di staccare il Tibet dalla Cina.

Il più povero

Molte cose dovrebbero essere dette a proposito del mito del Tibet che ha preso piede, anche nei ranghi della sinistra. Dal cinematografico Shangri-la, al di fuori del tempo, dello spazio e del clima, alle ovvie seduzioni di turismo “estremo”, dalle tendenze a vedere esempi validi in civiltà rimaste primitive e tagliate fuori dal processo della storia, alla sistematica disinformazione diffusa da potenti mezzi mediatici statunitensi e al fascino che sugli occidentali delusi esercitano le religioni e le ideologie esotiche ed esoteriche, tutto confluito in un’affabulazione della quale sono stati vittime in primo luogo proprio i tibetani.
Certamente sono uno dei popoli più poveri del mondo, esposti a molteplici forme di oppressione: tra esse quella cinese è stata con ogni probabilità meno gravosa di quella esercitata dai monaci e dagli aristocratici, dei quali i pastori e i contadini erano fino al 1959 “schiavi”, nel senso letterale del termine, in quanto sottoposti al diritto di vita e di morte dei loro padroni. Che poi tutti, ma con ben diverso vantaggio, trovassero conforto nel ricorso a una delle forme più degradate di buddhismo (il buddhismo tantrico tibetano popolato di fantasmi e di incantesimi ha ben poco a che vedere con la meditazione intellettuale e la creatività artistica dello Zen), si può anche comprenderlo.
Per fare un minimo di chiarezza è necessario comunque precisare alcune cose. Il Tibet non è stato “conquistato dalla Cina comunista nel 1950”: dopo precedenti più discontinui rapporti, fu conquistato dall’impero cinese nella prima metà del secolo XVIII, e da allora è stato considerato parte dello stato cinese da tutti i governi della Cina, anche dal Guomindang. La Cina (in cinese “Stato del Centro”) è stato ed è uno Stato multietnico nel quale è in corso da millenni un processo di trasferimenti di gruppi etnici e soprattutto di fusione dei gruppi periferici entro quello più importante, che rappresenta nove decimi dei cinesi ed è sempre stato capace di offrire ai suoi membri una maggiore prosperità e i benefici di una cultura più concreta. Mettere in discussione la natura multietnica della civiltà e dello Stato cinesi significherebbe mettere in moto la più spaventosa catastrofe degli ultimi secoli. Quella praticata dalla Cina non è mai stata una politica di “pulizia etnica”, bensì di fusione entro un insieme non etnico ma contraddistinto da una comune cultura e da comuni pratiche produttive: più che sterminarle, i cinesi hanno comprato le minoranze.
E’ vero che i tibetani per ragioni geografiche sono, entro lo “Stato del Centro”, il gruppo più lontano dalla comune cultura, però da 250 anni sono stati sempre governati da funzionari cinesi nominati dal governo centrale: giuridicamente e istituzionalmente ciò ha un senso. Gli inglesi, all’apice del loro potere sull’India all’inizio del secolo XX, intrapresero, tuttavia, una serie di manovre per staccare il Tibet dalla Cina e porlo sotto la loro influenza, giungendo, nel 1913, a convocare una conferenza a Simla nella quale le autorità tibetane cedettero vasti territori all’India britannica. Nessun governo cinese ha mai accettato la validità di quella conferenza. Nel periodo precedente il 1949 il governo del Guomindang considerava il Tibet, a pieno diritto, parte del proprio territorio, tanto che durante la Seconda guerra mondiale concedeva il diritto di sorvolo agli aerei alleati.

Il ruolo della Cia

Non ha quindi alcun senso dire che la Cina conquistò il Tibet nel 1950; nel 1950 le forze di Mao completarono in Tibet il controllo sul territorio cinese; nel 1951 fu raggiunto un accordo con il Dalai Lama per la concessione di un regime di autonomia. Verso il 1957, nel pieno dell’assedio statunitense alla Cina, i servizi segreti inglesi e americani fomentarono una rivolta dei gruppi di tibetani arroccati sulle montagne delle regioni cinesi del Sichuan e dello Yunnan, lungo la strada che dalla Cina porta al Tibet. I cinesi repressero certamente la rivolta con pugno di ferro: nelle circostanze internazionali nelle quali si trovavano e nel loro contesto etnico non era razionale pensare che si comportassero diversamente. Alla fine del 1958 i servizi segreti inglesi annunciarono che, all’inizio del 1959, la rivolta si sarebbe trasferita a Lhasa e avrebbe cercato l’appoggio del Dalai Lama. Ed è infatti ciò che avvenne: sullo sfondo della rivolta, il Dalai Lama dichiarò decaduto l’accordo per il regime autonomo e fuggì con la maggioranza della classe dirigente tibetana in India, dove costituì un proprio governo in esilio e il proprio centro di propaganda. Nessun governo al mondo ha riconosciuto questa compagine. Recentemente la Cia (i servizi segreti americani sono infatti obbligati a rendicontare prima o poi le loro spese di fronte ai contribuenti) ha ammesso di avere finanziato tutta l’operazione della rivolta tibetana.

Pechino: autonomia no

Dopo il 1959 il governo cinese spossessò monasteri e aristocratici e “liberò gli schiavi”, iniziando una politica di modernizzazione forzosa (vaccinazioni, costruzione di opere pubbliche) e di formazione di una classe dirigente locale, figlia di schiavi, sottoposta a un bombardamento educativo razionalista e anti-religioso. Furono questi giovani che durante la rivoluzione culturale distrussero templi e monasteri.
Dopo la morte di Mao, i governanti cinesi hanno cercato di ristabilire i rapporti con i tibetani, migliorando le sorti economiche dell’altipiano ma importando anche gran numero di cinesi, non solo militari. Hanno anche trattato indirettamente con il Dalai Lama, che – politico asiatico molto scaltro – non chiede l’indipendenza, ma una più o meno larga autonomia: Pechino non ha mai tuttavia voluto concedere un reale autogoverno, che aprirebbe rischi di secessione e metterebbe in discussione tutti i rapporti etnici del vasto paese. Alle spalle del Dalai Lama si è sviluppato, intanto, un vasto insieme di interessi della classe dirigente tibetana che ormai è nata all’estero e vi ha ricevuto una formazione culturale moderna: è questa che chiede un’indipendenza che potrebbe essere ottenuta solo con una guerra spietata alla Cina e potrebbe essere innestata dal reclutamento di giovani guerriglieri in India – segnali “terroristici” in questo senso ci sono già stati. Erano proprio dissennati i governanti cinesi che ritenevano che l’attacco alla Serbia, motivato dalla difesa dei “diritti umani” in Kosovo, fosse in effetti la prova generale di un attacco alla Cina?

Carmilla, 25 marzo 2008

Monaci o popolo del Tibet di Enrica Collotti Pischel. Il manifesto il 9 gennaio 2000

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Donne nel dopoguerra

Un catalogo fotografico per la storia del Centro italiano femminile
di Gianna Proia

Un volume per dare una memoria storica visiva al Centro Italiano Femminile. A cura di Fiorenza Taricone è stato pubblicato di recente il catalogo fotografico dal titolo Donne nel dopoguerra. Il Centro Italiano Femminile 1945-2005: una storia per immagini.

Fiorenza Taricone, è studiosa da tempo dell’associazionismo in Italia tra l’Ottocento e Novecento e dell’evoluzione dei diritti civili e politici. Tra i tanti volumi di cui è stata autrice, Teresa Labriola: biografia politica di un’intellettuale fra Ottocento e Novecento, Ausonio Franchi: democrazia e libero pensiero nel XIX secolo, Isabella Grassi (diari 1920-21). Associazionismo e modernismo, Teoria e prassi dell’associazionismo italiano nel XIX e XX secolo; l’ultimo in ordine di tempo ha riguardato la figura di un appartenente al pensiero sansimoniano che svolse un ruolo cruciale nel movimento di liberazione femminile nella Francia del primo Ottocento: Il sansimoniano Michel Chevalier: industrialismo e liberalismo, pubblicato lo scorso anno.

In quest’ultimo volume, la curatrice ha ripercorso, come rivela il titolo, la storia, le tappe fondamentali del CIF attraverso le immagini, tanto da costruire un excursus storico per immagini dell’associazione dalle origini alla contemporaneità. “In primo luogo – ha precisato – si vuol far parlare le immagini. In secondo luogo, visualizzare l’intreccio teorico e operativo della sua azione. In terzo luogo, evidenziare i rapporti collaborativi con quegli uomini e quelle donne che tanta parte hanno avuto nella storia della Repubblica”.

F. Taricone con molta precisione ha illustrato le nove sezioni in cui è stato diviso il catalogo, dando la possibilità alle lettrici e ai lettori di rivivere avvenimenti, rivedere volti di persone che hanno segnato le tappe più significative del cammino: Angela Cingolati Guidi, Maria Unterrichter Jervolino, Tina Anselmi, Maria Federici solo per fare qualche nome, donne della Costituente quindi, della Repubblica, dell’associazionismo.

La prima sezione è dedicata alle linee direttive del Centro Italiano Femminile, esplicitate nello statuto elaborato nel settembre 1944, la seconda mette in evidenza l’impegno sociale e politico, come si configura attraverso l’elaborazione dei primi statuti e l’azione in merito alla condizione femminile.

I compiti a cui le donne erano chiamate a impegnarsi erano contenuti in un opuscolo “sorto dalla necessità di raggruppare e coordinare le forze femminili di attiva e franca professione cattolica, in vista dei grandi compiti morali, sociali e civili che la pace affiderà alla responsabilità della donna italiana”. La donna doveva, quindi, essere pronta a sostenere principi morali e sociali, a difendere la famiglia, e a contribuire alla ricostruzione del Paese.

Dedicata al lavoro è la terza sezione che illustra le tante attività lavorative che impegnavano quotidianamente le donne. “Il Cif ha avuto il merito di sapersi distaccare da una visione originaria cara agli ambienti cattolici non progressisti della donna lavoratrice che, in quanto tale, sarebbe stata di disgregazione dell’unità familiare. Pur dando la precedenza a quest’ultima, erano riconosciuti alle donne i meriti del doppio lavoro, svolto in casa e fuori, e il valore economico di uno stipendio aggiuntivo, anche se quello del capofamiglia restava la fonte di reddito primaria”. Il volume contiene foto che mostrano le diverse attività che impegnavano le donne: i lavori sartoriali, le donne al telaio, le tipografe, le donne che svolgevano lavori in muratura, le venditrici di agrumi e di vino, le impagliatrici, le donne che lavorano in miniera, fino ad illustrare le prime due donne commissari di polizia: Anna Maria Jannuzzi Coniglio e Francesca Milillo Taldone.

“Con il progredire della scolarità femminile – ha sottolineato F. Taricone – si riconoscono via via anche le ambizioni professionali e intellettuali delle giovani generazioni, che cercano di farsi spazio in un mondo lavorativo a totale dimensione maschile. Il Cif affianca le iniziative di numerose associazioni femminili e soprattutto azioni legislative tendenti a capovolgere le discriminazioni cui erano fatte oggetto anche donne provviste di curriculum e titolo di studio adeguato”. Il Cif cambiò anche la visione della famiglia “vista non solo come luogo di conservazione e riproduzione di valori, ma anche e soprattutto come luogo di solidarietà e di apertura alla società”, con una modificazione dei ruoli maschili e femminili, genitoriali e affettivi. L’idea di indissolubilità della famiglia portò comunque il Cif a schierarsi contro i progetti di legge divorzisti a partire dagli anni Sessanta.

“Dell’attenzione all’istituzione familiare è testimonianza sia il lavoro assiduo di studio che il Cif dedica alla riforma del diritto di famiglia, sia l’interesse per i consultori come strutture di sostegno; infine, il Centro incontra nelle sue riflessioni sulla famiglia anche quelle legate alle politiche sulle pari opportunità, attinenti alla conciliazione dei ruoli e dei tempi all’interno delle famiglie, con il coinvolgimento inevitabile della partnership maschile, operando negli organismi preposti quali la Commissione Nazionale per le Pari Opportunità fin dal suo nascere con la presenza di Alba Dini, presidente del Cif dal 1997 al 2003, e di Maria Chiaia, presidente dal 1988 al 1997. (15) A chiudere la sezione sono due foto che ritraggono rispettivamente una manifestazione di uomini e donne medico e un corteo di lavoratori e lavoratrici a Roma negli anni Settanta.

La quarta sezione è dedicata al settore dell’educazione, la quinta illustra l’impegno profuso nella società civile e politica, la sesta pone l’attenzione alle generazioni del futuro e il cammino dell’idea d’Europa, la settima delinea i momenti più significativi delle udienze papali, l’ottava è dedicata alla cura della memoria storica e la nona al materiale tratto dal periodico del Centro Italiano Femminile.

L’attenzione del Cif andava, quindi, dall’educazione, al lavoro, dai giovani alla famiglia fino all’idea di Europa. Nel V Congresso nazionale dedicato all’Educazione della donna, alla conoscenza dei suoi doveri e diritti del 1953 il catalogo mostra l’on Maria Federici. In una foto compare lo stendardo del Cif con il motto che era stato di Santa caterina da Siena, patrona del dell’associazione: “Non si dorma più che noi siamo chiamati e invitati a levarci dal sonno. Dormiremo noi nel tempo che i nemici nostri vegliano?”.

Il Cif promuoveva incontri, dibattiti, cicli di conferenze per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni rilevanti e il catalogo ha ripercorso attraverso le immagini le tappe dell’evoluzione di un pensiero e di un impegno che ha sviluppato il Centro in modo originale, ispirandosi con lungimiranza all’idea di una democrazia solidale e paritaria.

“Le immagini – ha sottolineato F. Taricone – riflettono ciò che era realmente nelle intenzioni del Centro: l’agire come un segnalatore delle conquiste, ma anche dei nodi della modernità e della contemporaneità, dell’importanza del quotidiano in cui erano tollerate eccessive disparità sociali a danno dei deboli e dei non protetti; ciò restituisce a noi oggi, attraverso una testimonianza tangibile come la fotografia, una ulteriore possibilità di conoscenza e di riflessione su un passato che in termini di realtà è prossimo, ma appare più remoto e meno afferrabile di quanto la vicinanza del tempo faccia credere” .

Taricone Fiorenza (a cura di), Donne nel dopoguerra. Il Centro Italiano Femminile 1945-2005: una storia per immagini. – Roma: Edizioni Studium, 2005.

il paese delle donne, 23 marzo 2008

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