Lettura

Chi siamo, italioti miei?


Chi siamo, italioti miei? Bonus tracks di Paola Amadesi e Marina Sangiorgi. Introduzione di Tahar Lamri. Edizioni Discanti. Bagnacavallo (RA), 2010.

Racconti che raccontano. Un piacevole libro da incontrare. Certi libri si incontrano come le persone, magari al caffè (attenti a non versarlo sulle pagine). Il piacere della lettura è dato dalla semplicità delle storie che non fotografano la realtà, ma descrivono storie quotidiane filtrate da ogni carattere di notizia. Geografie e dialetti diversi si mischiano per costruire nuovi ricordi.  Le persone e i personaggi dei racconti sviluppano storie che almeno una volta si possono leggere senza pre/giudizi. Scelgo a conferma delle mie righe il racconto: “Non per lui”, dove lo straniero non è la “badante”: leggere per credere.

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E il Novecento finisce su una nave dei clandestini

di Ines Valanzuolo

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli: il 900 in sette storie di donne.

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli “livre de chevet” non da “ombrellone”, in quattrocentosessanta pagine ricostruisce momenti particolari della storia del Novecento. D’amore e d’odio – come dice il titolo del libro – ma anche di speranze e tenerezza è fatta la storia d’Italia che sette donne ci consentono di conoscere e in parte rivivere.

Nora, Elvira , Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina contemporaneamente sono generanti, generate e maieutiche di una data indimenticabile della storia italiana del Novecento: dal 1917, anno della sconfitta di Caporetto, via via al 1922 dello squadrismo fascista a Torino nella cosiddetta “ notte di San Bartolomeo” contro le organizzazioni operaie, al 1943/46 dell’Italia del Sud tra l’armistizio e la fine della guerra, al 1972 di Bologna di operaie, studentesse e probabili connivenze tra il movimento studentesco e le Olimpiadi del “massacro” di Monaco, al 1989 della caduta del muro di Berlino, al 1994 del litorale ionico a nord di Siracusa, tra il disastro dell’inquinamento industriale e del terremoto, fino al 31dicembre del 1999 e la tragedia dei clandestini.
In un lingua italiana fluida, in cui il lessico dello storico, della passione politica, accetta di ammorbidirsi nella semplicità del quotidiano, nella tenerezza dell’amore, di registrare rapidi spostamenti nel tempo e nello spazio con semplici intercalari dialettali, é un romanzo storico complesso.
Il vero storico è rappresentato dalla complessa e circostanziata ricostruzione di un avvenimento particolare del Novecento, nel quale si delinea di volta in volta il vero poetico di una figura femminile che accelera il processo storico in atto, non tanto partecipando, quanto portandovi un di più di intelligenza, ricerca, coraggio, rompendo schemi, ordine sociale, convenzioni.

E così Nora, di famiglia atea, militante pacifista, dopo la morte del marito da cui si era separata perché interventista, nel 1917 va come infermiera volontaria al fronte con la Croce Rossa. Guardata con sospetto come disfattista, denunciata dal Cappellano militare ad una ispettrice, nel dolore della morte e delle ferite che cura coscienziosamente non cerca l’espiazione per il suo comportamento nei riguardi del marito ma, nel culmine del disastro bellico, in corsia, osando dire ”bisogna avere il coraggio di chiamarli per quello che sono: morti, non caduti. Morti ammazzati…….Nora ha trovato la conferma delle sue ragioni e del torto del marito Matteo Fenoglio che era socialista ma aveva accettato la guerra..” e la forza di continuare la sua attività politica.
La stessa tecnica narrativa è intrigante e complessa “suggerita”, dichiara l’autrice, da Abraham B. Yehoshua: le vicende sono ricostruite da un personaggio che narra e risponde a domande e ragioni di un interlocutore le cui parole non sono scritte ma solo ascoltate, intuite e spesso mentalmente formulate anche da chi legge emotivamente coinvolto.
Queste donne quindi sono tutte raccontate da altri, spesso uomini, solo l’ultima, Delina, rispondendo per posta elettronica “diventa testimone di se stessa”.
Alla fine del secolo, dicembre 1999, fotografa inviata a Crotone per seguire le vicende di 300 curdi raccolti nel Mediterraneo in attesa di permesso di sbarco, riesce ad accettare la sua storia di figlia di un italiano e di una albanese, abbandonata alla fine della seconda guerra mondiale. Il percorso ormai è segnato dalle donne che l’hanno preceduta e finalmente può raccontarsi. Ricorda: sulla nave dei clandestini in attesa “Fu come infilarsi in uno strappo della realtà…..m’infilai là dentro e navigai all’indietro..” e nel presente, perché tra quei clandestini ritrova lo stesso “odore caldo e fradicio della treccia di sua madre”, odore che” adesso arriva a folate da ogni angolo del Mediterraneo.”
E il Novecento su quella nave nel Mediterraneo è veramente finito.

Maria Rosa Cutrufelli – D’amore e d’odio. Editore Frassinelli

Il Paese delle donne on line, 8 settembre 2008

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Un elfo in famiglia

Non mi convince quello che ho letto in rete. L’essenza del testo non sta tanto, secondo me, nella difficoltà di convivenza con il diverso, con l’unknow fuori di noi riflesso pauroso dell’unknow che ciascuno di noi si porta dentro, quanto in un problema, o in una serie di problemi che, a distanza di molti anni dall’ambientazione del romanzo, sono più che mai attuali: la famiglia, i figli soprattutto, sono necessariamente garanzia di felicità? Può la maternità, possibilmente ripetuta e spontanea, essere ancora considerata la scelta più naturale per una donna? E chi è più condizionato, più vittima degli stereotipi e della retorica: colui che nella vita opta a freddo per la famiglia tradizionale o colui che la rifiuta?

Sono questi alcuni degli interrogativi più coinvolgenti che pone “Il quinto figlio” di Doris Lessing, premio Nobel 2007. In tempi di liberazione sessuale e boom contraccettivo, una famiglia volutamente numerosa costituiva un’eccezione, proprio come oggi. Ma essa era il sogno di David ed Harriet, due giovani “antichi”, alla ricerca, rispettivamente, dell’anima gemella e della “prima volta” come dono e non come svendita. Si trovano, si attraggono naturalmente, si amano, l’uno lo specchio dell’altra. “Almeno sei” era il loro programma, sei figli con i quali vivere senza lacrime e senza fatica in una grande casa, sempre aperta, a Natale, a Pasqua, d’estate, ad amici e parenti, in spirito di collaborazione e semplicità, esempio vivente di felicità possibile. I figli arrivano come Dio li manda, in un clima idilliaco da cartolina illustrata, da pubblicità patinata. Sembra il sogno realizzato, lo schema astratto della felicità calato nel reale, ma la vita, quella vera, bussa alle porte. David, nonostante il super lavoro a cui si sottopone, non ce la fa a mantenere casa e figli e sempre più spesso è costretto a dipendere dalla generosità degli assegni paterni; Harriet, spossata dalle gravidanze problematiche e troppo ravvicinate, è costretta a dipendere in casa dall’abnegazione di sua madre, nonna infaticabile e generosa ma anche risentita per l’incoscienza “senza precauzioni” della figlia. Quando arriva il quinto figlio, di nuovo troppo presto e, così dicono, stavolta puro “incidente” di percorso, la situazione precipita. Harriet non può dirlo esplicitamente, nemmeno a se stessa, sarebbe come tradire i suoi ideali e il suo progetto di vita, ma lei, questo figlio, non lo vuole, non lo sopporta. L’insolita e devastante vivacità del feto, tutto calci e colpi, più che l’annuncio premonitore di una creatura “diversa”, sembra a me la somatizzazione del desiderio materno di espellere da sé quel corpo estraneo, alieno, nemico, che le succhia la vita da dentro. Quando il bimbo nasce, ciò che Harriet vede è un mostro, una sorta di elfo, di creatura tozza e deforme alla Victor Hugo, selvatica e appartata, non amata né amabile. Man mano che il “mostro” cresce, la casa si spopola, gli altri figli partono per nonni e collegi, mentre la coppia finirà per allontanarsi, in quanto Harriet, tormentata dal senso di colpa per non aver voluto e per non amare questo suo figlio diverso, dedicherà proprio a lui tutte le sue restanti energie, mentre David si immergerà sempre di più nel lavoro, diventando quello che mai avrebbe voluto essere. Molteplici significati si addensano nel personaggio di Ben, il quinto figlio. Come dicevo all’inizio, la sua storia non è emblematica tanto della difficoltà di accettare e vivere con un “diverso”, quanto di quello che sono o potrebbero essere i figli, comunque sempre “diversi” da noi: non bambolotti a nostra immagine e somiglianza, piuttosto alieni problematici, che non sai da quale verso prendere; esseri in proprio che richiedono tempo e fatica e causano, più spesso di quanto si sia disposti ad ammettere, ansie e sofferenze; esseri che è legittimo (e rispettoso) anche non desiderare, senza sensi di colpa, a dispetto di tanta retorica familista. Credo sia questo il messaggio della Lessing, una scrittrice impietosa nello scandaglio del cuore femminile e delle relazioni umane.

Lessing Doris – Il quinto figlio. Feltrinelli, 2000

Pubblicato in La voce di Ghismunda, 23 agosto 2008

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Il potere della stupidita’ e’ anche un libro

Il potere della stupidita’ e’ un libro scritto da Giancarlo Livraghi, Gandalf per la rete, pubblicato da M&A.
Proponiamo la prefazione dell’editore Andrea Monti

Come editore mi fa particolarmente piacere presentare questo lavoro di Giancarlo Livraghi – non a caso il primo di una nuova collana – che ottiene un risultato, per questi tempi, inusuale: trattare un tema difficile e raramente approfondito in modo divertente, intelligente e tale da non appesantire la lettura.
Il potere della stupidità offre al lettore tante differenti e originali prospettive sui comportamenti umani. E può essere letto come un’opera di tagliente ironia, come un saggio di costume o ancora come uno studio seriamente impegnato che analizza con occhio acuto e preoccupato i malanni delle culture umane. Ma, a prescindere da questo, ciò che rende speciale Il potere della stupidità è l’essere un libro che non si abbandona a sterili sociologismi, compiacimenti intelletualistici o inutili manierismi. Il tema della stupidità umana, infatti, è trattato con un taglio molto rigoroso ispirato da una ampia e robusta base di cultura umanistica e di esperienza.
Benché ci siano spesso spunti divertenti, questo libro non cade nell’equivoco, spesso dominante quando si tratta l’argomento, di perdersi in banale e inconcludente “comicità”. In altri termini non è uno “stupidario”, ma uno strumento per pensare e un aiuto pratico per riconoscere e capire l’insorgere del problema e – nei limiti del possibile – anticiparne gli effetti negativi o addirittura trasformare il danno potenziale in un vantaggio concreto.
Questo è un testo che induce il lettore a vivere e interpretare personalmente gli stimoli forniti dall’autore per trarne non solo utile di conseguenza pratiche ma anche una percezione gradevole di sapersi meglio orientare nell’intrico delle vicende quotidiane.
Un risultato di pregio reso possibile dal notevole bagaglio dell’autore che ha trasfuso in questo libro l’esperienza maturata nel corso di decenni trascorsi a studiare i comportamenti umani interagendo con le più grandi imprese di mezzo mondo, con le loro culture interne, con ogni diverso pubblico e relazione e con le molteplici complessità dei sistemi di comunicazione.
Il tutto, attraversato da un’acuta – e sanguigna – vena di umorismo che affiora nei momenti meno attesi e che, proprio per questo, rende la lettura di questo libro una bella esperienza culturale.

Recensioni

Giancarlo Livraghi
Il potere della stupidità (Seconda edizione 2007) – Collana Diogene.
Monti & Ambrosini. Pescara, 2007. pp. 158

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L’anima e la carne

di biblos

Il morbo” di Gian Ruggero Manzoni (Edizioni Diabasis)

Fossi stato nei panni dell’autore, avrei esitato a lungo prima di varcare la soglia del Palazzo della Letteratura, presentandomi al portone d’ingresso con un cognome così ingombrante. L’imbarazzo, poi, sarebbe senza dubbio cresciuto se avessi espresso il proposito di confrontarmi sullo stesso piano con il mio più celebre omonimo, scrivendo, cioè, un romanzo storico, ambientato per di più nel corso di un’epidemia di peste. Qui, però, terminano le affinità e i confronti, perché Manzoni (Gian Ruggero) decide di dare una forma completamente diversa ad una storia che avrebbe potuto facilmente correre il rischio di scivolare nella parodia.
Intanto, l’ambientazione delle vicende allarga il proprio orizzonte ben oltre le sponde di un tranquillo lago subalpino, toccando addirittura quelle opposte di un vasto e tempestoso oceano. Da un micromondo, conosciuto e ripercorso fino alla noia, a un macromondo ignoto, che può destare stupore e meraviglia al principio ma che la ragione riesce comunque a ricondurre al denominatore comune ad altri luoghi conosciuti, quello che si potrebbe sintetizzare nella abusata e logora formula “Tutto il mondo è paese”. Buoni e cattivi, amici e nemici, avidi e generosi, spavaldi e timidi si incontrano in ogni angolo della terra, anche il più remoto. A volte il viaggio e l’avventura sono pretesti per sfuggire a se stessi, altre volte stimoli per ritrovarsi e ricongiungersi con l’altra metà della propria anima.
In questo caso il protagonista sembra fermamente intenzionato ad attraversare la propria esistenza nelle vesti fiammeggianti dell’angelo vendicatore, consapevole di combattere una lotta che non potrà concludersi se non con la propria disfatta fisica, non certamente con quella dell’ideale che propugna.
Spirito libero, rivoluzionario, ribelle, anticlericale come possono esserlo solo certi romagnoli e – aggiungerei io – anche certi miei concittadini che ho conosciuto e che continuano a tramandare di padre in figlio i misfatti delle “Stragi perugine” di un secolo e mezzo fa, il protagonista viene proposto al lettore attraverso una fisicità che rasenta il più duro stile iperrealista. Niente ellissi né metafore, a voler celare i terribili dettagli di un fisico minato dal morbo e giunto ormai alla soglia della sua completa disgregazione, niente allusioni da romanzo ottocentesco, ogni cosa è descritta e narrata per come è.
Tra Luigi Compagnoni, il protagonista, e fra Martin de Campinas, l’antagonista che alla fine si fa amico e persino complice, si inserisce la bella e poetica figura di Jolanda, la creola che con estrema dedizione accudisce il Compagnoni morente. E’ una figura dipinta talvolta a leggere sfumature, talvolta con tratti decisi, che richiama e ricollega particolari dell’uno e dell’altro dei due attori principali della narrazione.
Luigi Compagnoni è soltanto un uomo, non un eroe romantico, non un martire, non un profeta, e come tale ci viene proposto dall’autore, anche se si tratta senza alcun dubbio di un uomo oltre la norma. Lui che della Chiesa ha conosciuto solo l’implacabile braccio secolare, che ha procurato a lui e ai suoi compagni sofferenze inenarrabili, non rinuncia, tuttavia, pur morente, a mantenere aperto il confronto e sgombra la mente da pregiudizi che gli impedirebbero di vedere l’uomo che si cela sotto il rozzo saio del monaco, consapevole che oltre l’abito, c’è sempre l’uomo, con i suoi vizi e le sue virtù. Allo stesso modo si propone anche il frate, attore di un duello verbale che si conclude solo con la morte del protagonista, un duello condotto sul filo di una dialettica dei fatti contrapposti a parole che di questi fatti risultano sempre una difficile ed ambigua rappresentazone.
Ben più pericoloso della peste è il morbo che corrode e consuma l’individuo, il morbo del pregiudizio, che scava incessantemente nella mente di ciascuno di noi fino a svuotarla di ogni capacità di discernere. La morte della ragione coincide inevitabilmente con la morte della libertà, nel momento in cui ciascuno di noi consegna ad altri il proprio spirito imbavagliato e drogato, la libertà muore.
Un’ultima nota di merito va data alla lingua con cui sono state redatte le pagine del romanzo, una lingua ottocentesca che, anziché essere avvertita come un mero esercizio di stile, costituisce al contrario l’essenza stessa della storia, la materia che dà sostanza ai sogni dell’autore.
È un vero peccato che un’artista eclettico e a tutto campo come Gian Ruggero Manzoni non si dedichi in maniera più sistematica alle lettere, nelle quali potrebbe senza dubbio figurare ben più degnamente di tanti “besselleri” che continuano a riempire gli scaffali delle librerie. In un Autore si cerca sempre ciò che, al termine della lettura, ci fa sentire migliori di quando abbiamo preso in mano la sua opera. In questa difficile e spesso impossibile impresa Gian Ruggero Manzoni è sicuramente riuscito.

Il piacere di leggere, 21 aprile 2008

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