Sergio Tardetti

DI UNA CITTÀ

Foto di PublicDomainPictures da Pixabay
 
Di una città mi hanno sempre affascinato i vuoti, più che i pieni, i silenzi più che i rumori, le solitudini, più che le folle. Una figura intravista in lontananza, che, così come appare, scompare, tanto da farti credere di averla immaginata, labile come il ricordo di una certa ora di un certo giorno. I vuoti si riempiono facilmente con i lampi della memoria, restano pieni quel tanto che basta a convincersi di essere esistiti in quell’istante, nel lampo di una confessione a sé stessi. In un angolo in ombra osservi il rado strato di muschio che cresce, il filo d’erba che spunta tra le fessure di un rivestimento in travertino, il radicarsi ostinato di un’edera, che si aggrappa a quel poco di terra finita, chissà come, nel piccolo foro scavato pazientemente in un mattone dall’acqua e dal ghiaccio. Molti di quelli che passano, la mente tormentata da mille incombenze quotidiane e mille preoccupazioni, trascorrono in ognuno di quei luoghi appena il tempo necessario ad attraversarlo e affrettano il passo, turbati da quella inattesa quanto straniante solitudine, e timorosi che quello spazio vuoto possa nascondere chissà quali insidie. Il silenzio, la solitudine rappresentano elementi concreti di quell’horror vacui che assale la vita quotidiana, costringendo a riempire quel vuoto, seppure temporaneo, in ogni modo e con qualunque espediente, ad esempio parlando al telefono o ascoltando musica dalle cuffie. A nessuno ormai interessano i suoni della città, tutti preferiscono tenersene lontani, immaginando per sé luoghi esotici di svago dove ritemprare il corpo e la mente dopo una giornata, una settimana, un mese, a volte un anno, spesi ad inseguire un lavoro, un risultato soddisfacente, un successo personale o professionale, insomma qualunque cosa possa gratificare e giustificare quell’affannarsi a rincorrere qualcosa a cui non saprebbero dare nome né forma né volto. Di una città amo le ombre che si stendono lentamente su case, alberi, strade, piazze, auto, verso l’ora del tramonto, rendendo tutto un unico piatto scenario nel quale continuiamo a muoverci e ad agitarci, recitando la parte che il destino ci ha assegnato e che crediamo, illudendoci, di avere scelto.

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DI VENTO E DI GINESTRA (Recensione)

di Sergio Tardetti
Cosa va cercando il lettore in un libro di poesia? Un elemento di contatto con l’autore, un filo diretto con l’anima di chi scrive, mediato dalle suggestioni scaturite dal titolo in copertina, consapevole fin dall’inizio che riuscirà a trovare soltanto quello che va cercando. L’autore, d’altro canto, deve far fronte a centinaia di interrogativi, moltiplicati per quanti sono i lettori, consapevole delle difficoltà del suo compito, certo che non potrà mai fornire una risposta esaustiva a tutti gli interrogativi. Intanto, il lettore, procede a sfogliare le pagine, compulsandole con un’idea ben precisa in mente, che troverà o meno conferma nel corso della lettura. Quasi sempre si giunge a un apparente punto di incontro, finendo per trovare risposta a qualcuna delle tante domande, anche se il prezzo da pagare è rappresentato spesso dal fraintendimento delle intenzioni di chi scrive. Del resto, il fraintendimento è lo strumento moltiplicatore dei significati di un testo, il necessario rischio che un autore sa di correre nel momento in cui inizia a mettere i suoi pensieri nero su bianco. In questo caso, l’autrice Elisa Piana opera un tentativo di esplicitare il senso del titolo nella breve prefazione, lasciando tuttavia al lettore la libertà e il margine sufficienti per individuare tra le pagine un senso più proprio e personale, anche distante da quello che chi scrive si era proposto. In apertura, i versi di Giovanni Ciao, prezioso ed elegante omaggio alla raccolta poetica di Elisa, vanno a costituire la più delicata delle prefazioni e suggeriscono una ulteriore possibile chiave di lettura.
Eccoli, dunque, gli elementi costitutivi delle poesie che arricchiscono il testo: il vento e la ginestra. Il vento che trascorre tra le pagine della memoria, rapido e fuggitivo, muovendosi irrequieto in ogni direzione; la ginestra che rimane ben salda, aggrappata al terreno con le sue radici solide piantate ovunque possa germogliare e crescere. Ecco due nature così dissimili che, mescolandosi, hanno la capacità di produrre un’anima che, al tempo stesso, vorrebbe essere ovunque e cercare la sicurezza in un luogo nel quale potersi riconoscere e identificare. Entrando nelle pagine del volume e percorrendone i testi, si coglie fin dal principio la notevole capacità di Elisa di scegliere le parole più appropriate per comunicare con chi legge, rendendolo partecipe delle proprie emozioni e delle proprie esperienze di vita. Elisa Piana è poetessa convincente e “solida”, aggettivi forse inusuali per riferirsi a chi scrive poesie, ma che intendono denotare la capacità di scegliere modalità espressive in grado di trasmettere suggestioni e musicalità e realizzare componimenti dal contenuto complesso e concreto e al tempo stesso intellegibile e accessibile. L’autrice ha la particolare e non comune capacità di avvicinare alla poesia anche chi non la frequenta abitualmente, senza indulgere tuttavia in concessioni al lettore che rischierebbero di banalizzare i testi. Essere leggibili e accessibili da parte di certi autori è considerato un limite, perfino un difetto, tanto che si impegnano con tutte le loro forze a rendersi, per quanto più possibile, oscuri e incomprensibili. Tra i componimenti mi piace citare, perché particolarmente degna di nota, la poesia dedicata ad Alda Merini, nella quale Elisa delinea un ritratto intenso con pochi accenni non banali alla vita dell’autrice, senza mai scivolare nel luogo comune.
Riesce a emergere dalla lettura il ritratto di Elisa? Non il ritratto, ma un ritratto, uno dei tanti possibili, quello percepito attraverso la sensibilità del lettore, guidata e condizionata dalle personali esperienze di vita. Quanto a me, colgo nei versi il ritratto di un’autrice che sembra avere acquisito ulteriore sicurezza e maturità nello scrivere e che merita sicuramente un pubblico attento e partecipe. A tratti, nel corso della lettura, compare e si fa più pronunciata una nota di durezza; le parole non scorrono fluide, ma sembrano come impigliarsi in qualche asperità, quasi a voler indicare che la superficie della vita non è mai del tutto liscia. Il segno che le esperienze della vita lasciano un po’ a tutti sull’anima, si fa più marcato, ma viene subito stemperato da una parola o una frase delicata, come a voler dire che, in fondo, non importa se la vita è così, la si accetta come viene, non supinamente ma cercando di comprenderla e farne una propria costruzione. Tra i tanti pregi, si sottolinea la presenza di due elementi che, a mio parere, determinano la qualità poetica di un testo. Il primo è l’utilizzo del meccanismo dell’ellissi, quello che serve a costruire il massimo coinvolgimento del lettore, nella consapevolezza che il non detto aiuti chi legge a riflettere e ad immedesimarsi nei pensieri di chi scrive. Il secondo, aspetto non secondario, è rappresentato dalla qualità della scrittura usata nei versi, che risultano curati, veri, torniti, musicali e ritmici, capaci di avvolgere il lettore in un abbraccio che lo rende compiutamente partecipe dell’atmosfera creata di volta in volta dalla poesia. Leggere questo libro significa immergersi per tutto il tempo nella vera e lucida poesia. Consigliato a chi ha fatto della poesia una sua condizione di vita.
© Sergio Tardetti 2022
Elisa Piana – DI VENTO E DI GINESTRA.  Bertoni Editore, 2022

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Favole (Recensione)

di Sergio Tardetti
Sulla scia dei favolisti classici, come Fedro ed Esopo, e moderni, come La Fontaine, si inseriscono questi brevi racconti poetici in versi liberi di Luca Biancardi, autore poliedrico che fa della parola quasi una ragione di vita. Come i favolisti, mette in scena piccole quotidiane vicende, che ruotano tutte intorno al tema del rapporto amoroso, e che hanno per protagonisti non solo esseri animati ma anche in prevalenza oggetti. Si avverte in ciascuna di queste storie il piacere che ha messo l’autore nel comporle e provato nell’inventarle e raccontarle. A differenza dei favolisti classici, che raramente mettevano in scena soggetti inanimati – qualche rara eccezione in Fedro con la maschera e la volpe, o le rane e il re travicello – spesso la coppia di innamorati è formata da oggetti di uso quotidiano, dei quali non verrebbe mai in mente di immaginare un rapporto di coppia così intenso come lo descrive Luca. Colpisce, ad esempio, la storia della penna e del suo cappuccio, separati ad un tratto a causa di un evento accidentale e che si perdono di vista, disperando di poter ritornare a congiungersi in un qualche futuro. O l’amore tragico e fatale tra il leone e la cerbiatta, che termina drammaticamente, come è nella tradizione del mondo animale, ma anche, purtroppo, di quello umano. Sotto le spoglie dei leoni e delle gazzelle possono celarsi tanti drammi quotidiani di femminicidi, divenuti ormai così comuni che corriamo il rischio di assuefarci. Ci sono poi le coppie stabili, quelle destinate a durare nel tempo, come la musica e il silenzio, o l’ignoranza e il sapere, coppie che si compensano e si arricchiscono a vicenda, nelle quali l’uno non può fare a meno dell’altra. La morale di questi racconti in versi si esplicita nel momento in cui proviamo a trasportare le storie nella realtà di tutti i giorni, perché allora vengono alla luce tutti i sentimenti e i risentimenti che si accendono nel rapporto amoroso, passione, gelosia, dolore, rabbia, fiducia nell’altra/altro, desiderio di confondersi in un’unica anima, desiderio di amplessi a volte impossibili. Il tutto rappresentato e descritto con un linguaggio che affascina e coinvolge il lettore, senza intenti moraleggianti, ma con l’attenzione rivolta a ricordargli che, in ogni caso, “de te fabula narratur”. Storie narrate con il consueto brio e l’abituale vivacità che costituiscono la cifra stilistica di Luca Biancardi. Consigliato a chi ama non solo la poesia ma anche le storie avvincenti e ben raccontate.
Luca Biancardi – Favole. Bertoni Editore, 2022

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E’ FINITO LO ZUCCHERO

di Sergio Tardetti

Fu quando si accorse di aver finito lo zucchero che si decise ad uscire di casa. Non lo aveva fatto quando era finita l’acqua minerale – berrò quella del rubinetto, aveva pensato. Né lo aveva fatto quando era finito il vino – magari, una volta tanto, riesco anche a smettere di bere. Lo zucchero no, quello non poteva mancare, l’acqua minerale sì, il vino sì, lo zucchero no. Uscire, però, gli costava fatica, uscire significava lavarsi, vestirsi, pettinarsi anche, pettinarsi quel cespuglio ispido che era diventata la sua testa. Uscire era una gran fatica, ma per lo zucchero, solo per lo zucchero, lo avrebbe fatto. Allora, un bagno, ma un bagno no, richiede troppo tempo. Una doccia, allora, sì, una doccia, poi cercare camicia, pantaloni, biancheria, calzini puliti, ce ne deve essere ancora un paio da qualche parte. Passò un bel po’ di tempo prima che si ritrovasse sulle scale di casa, meravigliato di vederle ancora lì, meravigliato persino che ci fosse ancora qualcosa, oltre le scale, fuori di casa.
Il giardinetto, con le siepi basse di nuovo da tagliare, anche quello era ancora lì, i fiori nel giardinetto, freschi, qualcuno doveva averli innaffiati tutti i giorni, lui non aveva avuto tempo per quello, non aveva avuto tempo per niente. Tranne che per Elisa, tutto il suo tempo – quanto ne era passato? – era stato per lei, tutto il suo tempo, fino a quando era mancato lo zucchero. Prima era mancato il vino, era mancata l’acqua minerale, e prima ancora era mancata Elisa. Ogni volta lui aveva sempre pensato: “Farò senza il vino, senza l’acqua minerale. E anche senza Elisa”. Fino a quando era mancato lo zucchero. Non era uscito di casa, neppure quando era mancato il vino o l’acqua minerale, neppure quando era mancata Elisa. Al vino e all’acqua minerale non ci aveva pensato nessuno, lui solo, ad Elisa ci avevano pensato in molti, alcuni li conosceva, altri non ricordava di averli mai visti. Visi lunghi e tirati, qualcuno pallido, occhi rossi. I suoi non li aveva guardati, non gli mancavano.
Vide il cespuglio delle rose, un paio di boccioli ancora chiusi sulla cima di rami senza foglie, accanto a quello che rimaneva di un fiore, tre petali bianchi, scossi dall’aria mossa dal passaggio delle auto. In quel momento se ne staccò uno, rimase per un breve istante sospeso nell’aria, poi cadde, planando quasi in verticale sopra la siepe incolta. Lo guardava cadere così, come aveva guardato Elisa, quando il coperchio di legno aveva nascosto il suo viso per sempre. Ad un tratto, pensò che non aveva ancora pianto, doveva essersi dimenticato, o forse gli erano mancate le lacrime, adesso poi gli era mancato persino lo zucchero. Il sole aveva appena superato il tetto del palazzo di fronte, la luce improvvisa lo costrinse a strizzare gli occhi. I limoni, anche quelli erano finiti, ce n’erano voluti quasi cinque ogni giorno per Elisa, quella sete che non smetteva mai di bruciarla. Li strizzava così, tra le dita, mentre lei lo guardava e sorrideva, con quel poco di sorriso che era rimasto sulle labbra secche.
Si passò una mano davanti al viso, come per togliersi la tela di un ragno, la ritirò bagnata. Si appoggiò al muro, proprio accanto alla buca delle lettere, passò di nuovo la mano davanti agli occhi, era sempre bagnata. Lo zucchero. Si ricordò che era finito, ma per quello adesso c’era tempo.

© Sergio Tardetti 2015-2022

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DISUMANITÀ

di Sergio Tardetti

Il potere decisionale incondizionato attribuito ai computer – di seguito, per brevità, chiamati “macchine” – è incredibilmente cresciuto negli ultimi tempi e rischia di aumentare ancora. Colpa non certo delle macchine, del resto prive di volontà e coscienza propria, quanto piuttosto degli umani che a loro si rivolgono come ad antiche divinità oracolari, in cerca di un responso dal quale fare dipendere il proprio incerto futuro e le proprie improbabili decisioni. Che i computer – pardon, macchine! – non siano intelligenti nel senso pieno del termine, nonostante la volontà di volerli supporre tali, è dato per scontato fra gli addetti ai lavori, che riescono, al massimo, a programmarne le funzioni. L’unica forma di “intelligenza” è un certo grado di flessibilità che dipende dall’organizzazione e dalla complessità del programma che la macchina riesce ad eseguire. Il resto sono chiacchiere da bar dello Sport o da sala da tè. Eppure, in questo terzo decennio del secolo ventunesimo, dopo oltre quaranta anni trascorsi in compagnia più o meno stretta di queste macchine, c’è chi è convinto che siano in grado di pensare, di decidere e persino di sbagliare. Le macchine sono diventate spesso un comodo capro espiatorio a cui poter attribuire tutte le colpe dei numerosi errori che gli umani commettono. Le macchine non possiedono in sé il concetto di giusto o sbagliato, eseguono semplicemente quello che è stato loro ordinato di fare. Gli uomini, al contrario, possiedono razionalità e libero arbitrio, anche se molto spesso danno prova del contrario, scendendo a livelli di intelligenza ben inferiori a quelli delle macchine. Esempi in grado di avvalorare queste tesi se ne potrebbero citare a bizzeffe, molti di noi sono stati involontari coprotagonisti di vicende farsesche o surreali, che hanno visto al centro le macchine e i loro fedeli custodi tutor. Quando l’umanità decide di affidarsi alla “intelligenza” delle macchine, diventa disumana, abdicando al suo compito principale, quello di scegliere – e decidere – per sé ma anche, spesso e sempre più spesso, per gli altri. Con il rischio evidente di poter sbagliare e il conseguente dovere di assumersi responsabilità e, se del caso, anche colpe. Ma è per questo che siamo umani.

Immagine di Activedia |Pixabay

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