Sergio Tardetti

Sovversivi, non ribelli – parte seconda

di Sergio Tardetti

Il catalogo della mostra fotografica “ Sovversivi” di Giovanni Zaffagnini, oltre i quattro scrittori di cui si è già detto (Joyce, Dante, Calvino e Pasolini), ne propone altri quattro a lui particolarmente cari. Gianni Celati, Arthur Rimbaud, Dino Campana, Luis Sepulveda sono autori che si sono insinuati nell’anima dell’artista e con i quali Zaffagnini viene intessendo una muta conversazione attraverso i suoi scatti fotografici da un lato e le parole degli scrittori dall’altro. Domande senza risposta apparente, immagini da decrittare da parte di uno “spettatore” – nella sua più totale accezione, come “colui che guarda” – niente affatto passivo, anzi decisamente partecipe. Sovversivi sono, dunque, costoro, temutissimi, più dei ribelli, perché sanno quale direzione prendere e quale futuro voler raggiungere, e per questo osteggiati con maggiore veemenza. Caparbiamente perseguono un obiettivo, a qualunque costo, in qualunque condizione. Zaffagnini il fotografo poeta, “scrive”, attraverso le immagini, versi silenziosi, che sanno arrivare all’anima e all’immaginario di chi osserva le sue foto, esplorandole come si esplora un mondo nel quale ci si sente proiettati per la prima volta. Il muto colloquio di Zaffagnini con i suoi sovversivi continua.
Ripartiamo, allora, da Gianni Celati, del quale Zaffagnini cita ed estrapola un pensiero, una riflessione che serve a definire il rapporto fra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Un rapporto di “servaggio” – inteso come sottomissione e sfruttamento – nel quale l’uomo tiene l’ambiente, soggiogandolo alla propria volontà e rendendolo schiavo delle proprie abitudini e dei propri desideri. L’ambiente è una creatura viva, che si ribella e si oppone in ogni modo ai tentativi di volerlo trasformare anche con la violenza, esercitata in tutte le sue forme più deteriori. E tutto questo allo scopo di distrarci dal pensiero dominante di ogni esistenza umana, quello della precarietà della nostra presenza su questa terra, che, malgrado ogni tentativo e ogni sforzo da parte nostra, continuiamo ad avvertire. Noi, immaginari presuntuosi padroni della natura? Non sia mai! Siamo inquilini e anche scomodi, che continuano ad accumulare debiti nei confronti dell’ambiente in cui vivono. Zaffagnini documenta lo stato delle cose con l’obiettività e la freddezza di un anatomopatologo, anche se non riesce a trattenere dentro di sé, e trasferisce nelle immagini, il grido di dolore e di ribellione che si leva alto dalla sua cosciente presa d’atto di tanto scempio. Lo fa scegliendo emblematicamente di mostrare gli effetti di una delle tante frane che ogni anno si abbattono sul territorio del nostro paese. Per accentuare drammaticamente l’effetto delle immagini, non fotografa la scena alla luce del sole, ma al fioco riverbero di luci che illuminano soltanto tratti circoscritti di terreno, andando immediatamente al cuore dello scempio ambientale. Il messaggio che promana dalle immagini vuole renderci consapevoli che è la Natura la padrona di casa, è la Natura che ci avverte e ci ammonisce, quando abbiamo passato il segno. Ma le immagini rappresentano, al tempo stesso, la precarietà del nostro esistere: siamo pietre che rotolano sempre più in basso, fino alla fine della corsa. Anche noi partecipiamo a questa guerra non dichiarata alla Terra, anche noi, nella metafora delle immagini, finiamo per diventare tronchi mozzati e “stroncati” – mi si consenta l’involontario gioco di parole – come se fossero stati colpiti e spezzati da una granata. Le immagini per raccontare tutto questo si presentano con un colore grigio terreo, un colore piatto con scarse sfumature, immagini prese, sembrerebbe, alla luce dei fari di un’auto in piena notte, quasi il sopralluogo sulla scena di un crimine, con i cadaveri ancora non rimossi, e che quasi stanno esalando l’ultimo soffio vitale. Anche se non lo mostra in campo, ogni immagine parla dell’uomo e del suo vano tentativo di nascondere la finitezza della sua esistenza, tormentando l’ambiente del quale dimentica sempre di essere parte.
Il catalogo prosegue proponendo immagini ispirate a parole di Arthur Rimbaud, che raccontano il rapporto del poeta con la Bellezza e con il suo “amaro” sapore. Un sapore che, una volta gustato, pone l’uomo sulla difensiva, perché la Bellezza potrebbe avvolgerlo nelle sue spire e renderlo suo schiavo. Ma l’uomo sa anche che non potrà mai più assaggiare un sapore simile e allora lo finge amaro, per convincersi che quel sapore non esista e che la Bellezza altro non sia che il frutto della sua immaginazione e del suo inquieto fantasticare. E allora, come accade spesso in queste situazioni, si sente respinto dalla Bellezza e comincia ad ingiuriarla e a ferirla in tutti i modi possibili. Di questo parlano le foto di Zaffagnini, tutto ciò che è bello va deturpato per cancellarne e negarne la bellezza. Bello è tutto ciò che ci circonda, fin dal primo istante in cui veniamo al mondo; così, la Bellezza astratta si incarna nella bellezza dell’ambiente in cui viviamo. L’uomo, consapevole della precarietà della sua esistenza e della impossibilità di poter godere all’infinito della Bellezza, vuole lasciare comunque il segno del suo passaggio. Appena entra in contatto con lei, comprende come sia impossibile stabilire un confronto temporale fra lui e la Bellezza, che continuerà ad esistere anche quando lui non ci sarà più. Da qui la sua reazione di rabbia e dolore, che trovano sfogo nella deturpazione della bellezza. Così, negli scatti dell’artista passano davanti agli occhi immagini di plexiglas sporcati con pennarelli, per segnalare il passaggio dell’uomo sulla terra. Un uomo, tuttavia, incapace di migliorare il mondo nel quale si trova a vivere, ed è così che lo “ingiuria”, con segni, macchie, scritte, alcuni opera sua, altri lasciati dal tempo e dalle intemperie. Quello che del mondo appare ai suoi occhi è una visione offuscata, filtrata da lastre di materiale semitrasparente, che gli impediscono di vedere come è in realtà. Tutte le alterazioni che la presenza dell’uomo produce nella natura verranno cancellate e rimosse al momento della sua scomparsa. Dov’è il mondo? Oltre un velo che ci separa dalla realtà, quella che chiamiamo bellezza è solo un nostro modo di vedere il mondo. Dal momento in cui comprendiamo che la Bellezza continuerà ad esistere dopo di noi e ben oltre noi, e che non potremo portarla con noi quando lasceremo la terra, non potremo portarne con noi nemmeno il ricordo, e così lasciamo tracce del nostro passaggio, ingiurie delle quali la natura ride. In poco tempo, se si considera il tempo della Natura come misura del suo trascorrere, quelle tracce scompariranno. Ci mostriamo così più mortali di quanto si immagina, una fugace apparizione agli occhi della natura che osserva impassibile il nostro passare. Così, diventano assurde e ridicole le scritte lasciate a futura memoria, i graffiti di rabbie mal trattenute o di amori volatili, il tutto immerso in un paesaggio urbano surreale, dove l’uomo è un’assenza che fa sobbalzare il cuore e tremare l’anima. I pensieri si arrestano sulla soglia di un mondo che non conosciamo e non riusciamo ad accettare e ad immaginare, frapponiamo lastre di plexiglas per non essere feriti e quasi derisi dalla bellezza del mondo, noi che con la bellezza ci sentiamo a disagio ed esprimiamo tutto il nostro malessere, trasformandolo in segni che gridano la nostra sofferenza. L’uomo nella sua infelicità non potrà mai convivere in pace con la bellezza, né con il mondo che lo circonda, deve sempre violentarlo, per trasformarlo a immagine e somiglianza del proprio scontento.
Viene quindi introdotto Dino Campana, personaggio tormentato, la cui vita, come rappresentato anche dalle immagini fotografiche, è spezzata nettamente in due dal suo ricovero in manicomio. Alle “ultime notizie dalle montagne della Romagna toscana”, rappresentate da ampi e sereni paesaggi bucolici, si contrappongono gli spazi ristretti di scuri e tristi edifici e di cortili soffocati dall’insistere di quelle mura dall’aspetto carcerario. Come a voler mostrare la dolorosa spaccatura fra illusione di un’esistenza serena nei sogni di un adolescente e delusione di un adulto, ormai uomo fatto, per non essere stato capace di raggiungere la sua meta, il contrasto insanabile tra poesia e follia, quasi fossero due facce della stessa medaglia. Le immagini di Zaffagnini sanno rendere in maniera esplicita questa pesante dicotomia, che così tanto ha gravato sulla vita del poeta. Il percorso dell’esistenza di Campana prende avvio dalle selve montane e i paesaggi agresti, in cui lo spirito si smarrisce e si mescola con la natura, quasi a voler simboleggiare la giovinezza con tutti i suoi sogni ma anche con tutti i suoi rovelli, i suoi dubbi e le sue incertezze. Una “selva oscura” che è già di per sé lirica e metafora della adolescenza, ma anche immagine di un doloroso smarrimento nel quale il poeta finirà per confondersi e non più ritrovarsi. I paesaggi aspri della Romagna toscana introducono alla natura difficile e scontrosa dell’autore, paesaggi dai quali si ha la sensazione di essere accolti, inglobati e quasi soffocati, orizzonti di breve respiro, selve intricate dalle quali è difficile venire fuori una volta entrati. Così, il paesaggio deve avere lavorato sull’anima del poeta, accerchiandolo e avvinghiandolo in una morsa dalla quale la sua anima e, soprattutto, la sua mente doveva uscire sconfitta. Gli ameni, e al tempo stesso inquietanti, paesaggi dei dintorni di Marradi, nei quali la presenza dell’uomo è pressoché inesistente. Non un sentiero tracciato dal frequente e intenso andare e venire di uomini lungo quel cammino, abitazioni isolate e ormai in rovina che raccontano di una esistenza difficile, perdute in mezzo a campi incolti, lontane dalle vie di comunicazione, sono pagine di quel libro della Natura dalle quali il poeta deve avere attinto l’ispirazione per le sue liriche e le sue prose poetiche. Ma, al di là di quelle selve e di quelle montagne, un altro mondo lo chiamava, un mondo con il quale Campana si è scontrato, uscendone sconfitto. Lo prova la cruda e fredda ammissione: sono stato in manicomio. È la parabola discendente di una vita che non è riuscita a costruire il suo equilibrio e si è lasciata cadere nel baratro della disperazione. Le immagini dei luoghi di internamento, ormai quasi ruderi di un passato non così lontano, ci trasmettono l’atmosfera tetra e dolorosa di spazi in cui l’umanità sembra cedere il posto ad una razionalità che non ammette nulla oltre quella che viene considerata la norma della condizione umana. Non sembra esistere niente altro al di fuori di quell’allinearsi a comportamenti che la morale corrente non trovi riprovevoli e quel manifestare una funzione utile alla società in senso strettamente economico-produttivo. O si è individui socialmente ed economicamente utili o si è pazzi. Sempre più spesso si finisce per dimenticare che l’arte, e segnatamente la poesia, non ha alcun proposito economico, è spesso fine a se stessa e pertanto deve essere tenuta ai margini di una società le cui uniche ragioni di esistere sono la produzione e il profitto.
E, infine, il catalogo si conclude con le immagini ispirate dalle parole di Luis Sepulveda sull’inutilità di chiudere le porte che ci mettono in comunicazione con il resto del mondo e, soprattutto, sulla necessità di tenerle aperte. Così, le immagini mostrano spazi vuoti in cui il tentativo di tenere distinte due parti dello stesso terreno diventa velleitario, quando il tempo agisce su ogni cosa e la natura torna a prendere possesso in maniera indistinta di ogni luogo. Ritorna anche qui, in maniera sempre più accentuata, quello che sembra il motivo conduttore della raccolta di immagini, l’assenza dell’uomo, del quale istintivamente percepiamo la presenza che si materializza dietro l’obiettivo che inquadra e scatta la foto. Ma, al di là di quell’obiettivo, il mondo appare deserto, come se fosse avvenuta una improvvisa catastrofe, un accadimento universale che ha sconvolto la terra, lasciando però intatta la natura nelle sue forme vegetali. Come se tutti, uomini e animali, si fossero imbarcati su una ideale arca, abbandonando la terra e dirigendosi verso altre destinazioni. E, senza la presenza dell’uomo, questi sbarramenti difensivi, questi tentativi di contenere l’onda di migranti o di nemici che è pronta ad invadere spazi un tempo non loro, diventano privi di senso. Il tempo, poi, da grande corruttore, inizia ad agire con la sua infinita pazienza sopra i resti di questi oggetti inanimati, corrodendo i ferri del cemento posto a delimitare una terra da un’altra, un mio da un tuo, un nostro che si contrappone a un loro, che in un mondo deserto non hanno più alcuna ragione d’essere. È il tempo che dà e toglie il senso alle cose, alterando la realtà fino a renderla inconoscibile, indecifrabile e perfino assurda. La porta chiusa di cui parla Sepulveda, la separazione tra un dentro e un fuori, tra un qui e un lì, tra un adesso e un prima/dopo, diventa così una lontana perduta memoria, non ci sono più porte, perché non ci sono più sbarramenti capaci di contenere il vento e il tempo. Niente può impedire al vento di soffiare e al tempo di trascorrere. Così, le prime fessure cominciano ad aprirsi nella muraglia di cemento che si sgretola, dando l’avvio a un processo irreversibile che non potrà essere arrestato, fino a quando le memorie di quegli uomini. che eressero sbarramenti per proteggere e separare quello che ritenevano loro dal resto del mondo, scompariranno. Quando in un immaginario lontano futuro la terra verrà visitata da esistenze aliene, qualcuno, forse un archeologo del terzo millennio, si domanderà quale fosse la natura e il senso di quegli sbarramenti, forse anche senza trovare una risposta. Per una civiltà libera da volontà di sopraffare l’altro, queste recinzioni diventeranno inspiegabili e inimmaginabili. Come accade anche per Sepulveda, costretto a lasciare gli spazi sconfinati dell’America Latina per rifugiarsi e adattarsi agli spazi ristretti e limitati delle nostre terre.
Sfogliando l’intero catalogo, viene fatto di domandarsi dove sia l’uomo in tutte queste immagini e perché la sua presenza non si manifesti davanti all’obbiettivo del fotografo. Il suo è sempre e comunque un esserci stato, che appare per lo più come un “incidente di percorso”; della sua assenza la natura non sembra affatto soffrire, anzi sembra poterne fare decisamente a meno. Dell’uomo restano appena labili segni o immagini-ricordi, che incidentalmente affiorano lungo il percorso. La sequenza delle foto ci conduce attraverso un percorso che, partendo dalla delicatezza poetica delle immagini iniziali, arriva alla crudezza del bianco e nero finale, dove l’assenza dell’uomo è ormai un fatto consolidato. I manufatti umani vengono presentati sempre nella loro drammaticità, la natura nel suo quieto lirismo, che sa rimanere tale fino a quando l’uomo non interviene ad alterarla, costringendola a ribellarsi. L’operazione di “trasdurre” le parole in immagini, della quale Zaffagnini ci offre la sua “prova d’autore”, si rivela, infine, capace di suscitare emozioni e riflessioni ancora più elevate e suggestive di quanto riescano a farlo singolarmente la scrittura o la fotografia. Un risultato convincente, un’operazione decisamente da replicare.

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Caffè d’Africa

di Sergio Tardetti
“Mi ricordo di quella volta…”. Comincia sempre così il suo racconto, mio padre, ogni volta che beve il suo caffè. La prima cosa che fa, appena glielo porto, è mettere le dita intorno alla tazzina, per sentirne il calore. “E’ bollente”, fa lui. E poi aggiunge: “Certo, è stato sul fuoco!”. Sorride a questa battuta che ormai noi tutti conosciamo, ci guarda come per constatarne l’effetto, anche noi ci mettiamo a sorridere. Crederesti che lo ami bollente, invece versa con calma lo zucchero, due cucchiaini, altrimenti è amaro, dice lui. Poi comincia a girare il cucchiaino, prendendo di tanto in tanto un po’ di caffè e lasciandolo ricadere nella tazzina. Dopo un po’, accosta di nuovo le dita e prova a sentire se la tazzina è un po’ più fredda. Niente da fare, ancora troppo caldo per lui. “E’ bollente”, ripete, guardandoti da sotto in su, aspetta di vedere la tua faccia stupita del fatto che non l’abbia ancora assaggiato. Intanto, gli altri hanno già finito il loro, e lui chiede: “Ma come fate?”. Intende, a berlo così bollente, ma nessuno che abbia trovato finora il modo di spiegarglielo. Finalmente, dopo aver soffiato più e più volte nella tazzina, divertendosi a farne increspare la superficie, si prepara ad assaggiarlo, con tutta calma e usando una cautela che non riusciresti a immaginare in uno che di caffè nella sua vita deve averne bevuti migliaia, in ogni situazione e in ogni circostanza. Di solito, mentre sorseggia lentamente il suo caffè, mio padre parte con uno dei suoi racconti su qualcuno degli infiniti caffè che deve avere gustato negli oltre novanta anni di vita. Nei discorsi passano caffè bevuti a tutte le ore del giorno e della notte, durante una festa, un matrimonio, una veglia funebre. Ci sono quelli assaporati con gli amici, di prima mattina, e quelli consumati in mezzo a sconosciuti, in qualche posto sperduto, in attesa di un treno o di un passaggio. Caffè bevuti per rimanere sveglio, quando le circostanze e il bisogno lo richiedevano. Storici memorabili caffè d’Africa, di quando era militare e infermiere e doveva assolutamente rimanere all’erta, pronto a intervenire a qualunque ora, in attesa dell’arrivo dei feriti di una delle tante battaglie combattute in Africa Orientale. Bevuti in talmente eccessive quantità da ritrovarsi con un tremore addosso, così forte da impedirgli di compiere anche le più elementari operazioni di ambulatorio, come la preparazione dei vetrini per lo striscio di sangue. Perché lì la malaria era sempre in agguato.
Per molto tempo nei suoi racconti ci sono state solo vaghe allusioni a certi fatti accaduti, dei quali voleva cancellare la memoria, un po’ per non rinnovare il dolore provato in quelle occasioni, un po’ perché la gente non voleva sentir parlare di guerra e di morti, ognuno aveva il suo lutto da piangere in famiglia. Così, certi argomenti venivano tirati fuori soltanto nei soliti incontri fra reduci, che ne parlavano come per volersene liberare, sperando così di poter tornare ai giorni di prima, prima delle battaglie, prima dei morti, prima della prigionia. Poi, anche i reduci si stancarono di raccontare, avevano scoperto che niente del passato sarebbe cambiato, tanto valeva allora guardare al presente e al futuro. Solo così si sarebbero sentiti più liberi e più leggeri. Adesso, nominare luoghi e mettere in fila fatti costa sempre più fatica a mio padre. Giorno dopo giorno tutti i ricordi si rapprendono in un magma indistinto, si avvolgono in un gomitolo inestricabile, ancora vivo e vitale, ma dove tutto si intreccia con tutto e abbraccia tutto. La sua memoria di ultranovantenne in discrete condizioni fisiche a volte prende sentieri poco o per niente battuti, soprattutto per quei ricordi che forse ha provato a cancellare per poter tornare alla vita quotidiana, senza portarsi dietro il fardello di dolori, miserie e tristezze accumulato in quegli otto anni trascorsi lontano da casa, in condizioni non sempre facili.
“Avevamo finito tutto”. Comincia così il racconto di oggi, e la voce è più triste del solito. “Tutto, cosa?”, chiedo io. Da qualche tempo il suo raccontare va incoraggiato, non viene più spontaneo e istintivo come un tempo. Forse, più che a ricordare, sta provando a dimenticare, ma c’è sempre qualcosa che glielo impedisce. Deve essere uscito a fare la spesa, sicuramente si sarà accorto di quel manifesto funebre, incollato nella bacheca poco prima dell’ingresso del negozio. Lo conosceva, si conoscevano, era uno dei protagonisti del suoi racconti, quello del militare addetto alla pompa di benzina, che in quella giornata di sangue aveva fatto così tanti pieni da essere anche lui impregnato di carburante. Era bastata una scintilla. “Questo non ce la fa”, aveva detto l’ufficiale medico quando era arrivato all’ospedale da campo. “Era tutto una piaga”, ripete mio padre nel suo racconto. L’hanno curato per giorni con quello che avevano, alla fine ce l’aveva fatta, ma i segni delle ustioni gli erano rimasti per tutto il corpo. Solo il viso, stranamente, non aveva cicatrici. Ci vollero giorni di cure continue per poterlo finalmente dichiarare fuori pericolo. Intanto, però, la battaglia che si combatteva sul fronte dell’Africa Orientale Italiana era stata persa e i soldati fatti prigionieri. La guerra, in ogni caso, continuava su altri fronti. Il caso, o il destino, ha voluto che dopo molti anni mio padre e quel ragazzo, ormai diventato adulto, si incontrassero, quando acquistammo la prima auto e avevamo bisogno di un garage nel quale ripararla per la notte e durante la settimana, quando l’auto rimaneva quasi sempre ferma. L’auto, un bene prezioso che andava protetto in tutti i modi dai malintenzionati, l’auto che, di solito, si usava solo la domenica, per andare a fare visita ai parenti più lontani in campagna, con mia madre che gli faceva da navigatore, avvertendolo per tempo delle svolte e anche delle fermate agli stop e ai semafori. Il custode del garage era proprio quell’uomo, a guardarlo in viso non si indovinava il gran dolore che doveva portarsi dentro e addosso, il viso di un uomo sereno. Il sorriso con cui accolse mio padre diceva già tutto, il silenzio tra loro diventava più eloquente di qualunque discorso, come l’abbraccio che si scambiarono, quasi desiderassero accertarsi di essere ancora vivi e di essere lì.
Il racconto, come il caffè, anche per oggi è terminato. Mio padre solleva la tazzina alla bocca e vuota le ultime gocce rimaste di quell’unico caffè della giornata, al posto dei tanti bevuti in tempi in cui quel caffè d’Africa era un’abitudine per continuare a vivere.

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Sovversivi, non ribelli

di Sergio Tardetti

“SOVVERSIVI” – Un libro fotografico di Giovanni Zaffagnini Premessa. Ho iniziato a prendere appunti per fissare impressioni ed emozioni, man mano che andavo sfogliando questo libro fotografico, convinto di potermela cavare con poche righe, e invece adesso mi ritrovo ad avere quasi due pagine di parole che si sforzano di dare forma alle emozioni che le foto sono capaci di suscitare, quando sono attentamente osservare con gli occhi dell’anima più che con quelli del corpo. E sono appena a metà dell’opera. “Sovversivi” è il titolo del libro fotografico di Giovanni Zaffagnini, una raccolta di immagini scaturite e legate da temi letterari, enunciati attraverso brani di diversi autori, per l’esattezza otto. Sovversivi, non ribelli, si badi bene, intenzionati a cambiare lo stato delle cose con le parole e, a volte, anche con i fatti, ma avendo bene in mente un progetto alternativo, il che è ben diverso da un semplice andare contro, distruggere senza sapere come e cosa ricostruire. Per chi ha affrontato e affronta da lettore quei brani, non è immediato pensare a immagini in grado di rappresentare le parole che li compongono; solo l’occhio esercitato di un fotografo e la mente capace di immaginare analogie e corrispondenze saranno in grado di percepire l’aderenza della foto alle parole dei testi posti a premessa. Letteratura e fotografia, un rapporto all’apparenza complicato e difficile, se non impossibile, che Zaffagnini sa rendere e realizza con un’operazione che potremmo chiamare “trasduzione” dal testo all’immagine, da un mezzo espressivo a un altro mezzo espressivo, senza soluzione di continuità, come se scrittura e immagine fossero due mezzi appartenenti alla stessa espressione artistica. Ci occuperemo dei testi dei primi quattro scrittori, Joyce, Dante, Calvino e Pasolini e della interpretazioni che di quei testi Zaffagnini ci offre. Il volume si apre con una citazione di Joyce sulla musica e la musicalità del fluire di un fiume che l’autore trasforma in immagini capaci di trasmettere l’idea e l’insieme delle sensazioni che si possono provare. Nelle immagini, il fiume che scorre si percepisce mediante il confronto tra la superficie dell’acqua che fluisce e le sponde immobili. La musica della corrente è accompagnata e a volte anche sovrastata da quella delle sponde, arbusti, canne, alberi, con il fruscio del vento in mezzo a loro. Pur nella fissità dello scatto, la percezione del fluire è immediata, lo raccontano le luci che si riflettono sulla superficie dell’acqua e che sembrano mutare istante per istante. Guardando l’immagine, riviviamo un’esperienza del passato, quella del giorno in cui per la prima volta abbiamo visto un fiume, ne abbiamo ammirato la maestosità e la potenza, quasi trattenuta a stento dalle sponde, a rassicurare lo spettatore dell’intenzione di rimanere contenuto lì dentro. Le immagini riflesse che si scompongono e si ricompongono sulla superficie calma, frammentate dal minimo soffio di vento, sono una musica “visiva” che la mente percepisce e interpreta alla luce dei ricordi. Due inquadrature consecutive, due scatti a poca distanza di tempo, trasmettono a chi le guarda la sensazione del mutamento provocato dalla corrente che fluisce, trasportando con sé schiuma, foglie e arbusti; le piccole onde che scuotono come dita leggerissime gli arbusti affioranti, producono una musica “silenziosa” che solo l’anima riesce a percepire. Sorprende la poeticità delle inquadrature, realizzate attraverso la ricerca della luce più adatta, per mostrare quella serenità che l’artista percepisce in quell’istante e trasmette anche a chi non è e non sarà mai lì in quel momento. È l’attesa paziente dell’occhio del “cacciatore” che viene premiata.Il passaggio da Joyce a Dante, l’autore successivo, appare logicamente consequenziale e, direi, quasi scontato. Dante e la sua palude Stigia, introdotta con la citazione dei versi che la rappresentano nell’Inferno. La palude Stigia, descritta dalle parole del poeta e immaginata dal lettore immersa in un’atmosfera cupa e desolata, lancia una sfida alla resa fotografica di antichi ricordi risalenti ai tempi della scuola. La palude non presentata come un luogo immobile, e invariabile nel tempo, piuttosto un luogo che genera angoscia in chi lo guarda. Non suoni, non guizzi di onde, nessuna vita che venga ad animarla. Il fotografo, con la pazienza del cacciatore di immagini, resta in attesa dell’istante in cui l’inquadratura che coglie riesce a sovrapporsi quasi perfettamente a quella che la sua mente si è creata attraverso la lettura del testo. Il suo scopo rimane sempre quello di comunicare le sensazioni che la lettura del testo ha generato, aderendo il più possibile a quello che la mente del lettore immagina e ricostruisce, ma anche innovando rispetto a consuetudini ormai fissate nel tempo. La palude Stigia che viene mostrata negli scatti di Zaffagnini è presentata come un luogo malsano, insalubre, non tanto perché inquinato da inevitabili scarichi industriali, quanto piuttosto perché assediato e soffocato dalla selva che gli cresce intorno e che impedisce alla luce di penetrare e accarezzare la superficie immota delle acque. E qui, chi ha un minimo di dimestichezza con la fotografia non può non pensare a quanto l’occhio del fotografo abbia cercato quella luce e abbia atteso il momento ideale a scattare la foto. L’attesa si è rivelata necessaria perché il sole cambiasse posizione in cielo fino ad arrivare al punto in cui la resa della fotografia corrisponde – pur senza sovrapporsi e tanto meno coincidere – all’idea che la mente del lettore si è fatta del luogo infernale. La banalizzazione dell’immagine virtuale creata nella nostra fantasia avrebbe preteso un luogo simile a una enorme macchia di pece scura, soffocante, priva dei minimi guizzi di luce. Ma l’artista sa andare oltre il banale, oltre il luogo comune e riesce a darci un’immagine della palude Stigia moderna e innovativa, una pozza appena illuminata dai barbagli dei raggi che filtrano attraverso un groviglio di rami e tronchi, in parte caduti e semisommersi, che, a volte, sembrano quasi spuntare ed elevarsi dalla superficie immobile dell’acqua.È quindi la volta di Italo Calvino, del quale, più che un testo, si propone un episodio particolare, una circostanza legata ad un errore di impaginazione di una sua opera. Immaginiamo, e forse abbiamo provato in molti, il senso di spaesamento avvertito durante la lettura di un testo, quando, senza una ragione apparente, se non quella che si potrebbe attribuire a un errore di impaginazione e di rilegatura, il racconto che stavamo seguendo ha un improvviso quanto assurdo cambiamento di tono e di stile e di argomento, diventando a tutti gli effetti un altro testo. Così il fotografo è chiamato a rendere in maniera concreta, e soprattutto visibile, questo senso di spaesamento e di frastornamento, affidandosi ad un non senso apparente delle immagini, ad una loro incongruenza e non consequenzialità. Il percorso inizia, dunque, partendo da un “testo” coerente, rappresentazione, attraverso immagini in bianco e nero, di un luogo desolante e desolato, un luogo che all’apparenza non ha niente di particolarmente affascinante e ricercato, al punto da sollecitare la selezione e la conservazione di quegli scatti. L’artista, però, riesce a vedere nelle immagini che gli si offrono davanti qualcosa che ritiene degno di essere fissato nel tempo e nel ricordo. La ex fabbrica con i capannoni in rovina, le macerie abbandonate, in indefinibile attesa di una ristrutturazione o di una più probabile demolizione, sospese e fissate per sempre nel tempo. Si continuano a sfogliare le foto in bianco e nero, sperando che prima o poi qualcosa accada, ma tutto rimane immobile e uguale. Giunge, infine, improvviso lo scarto, il salto di pagina e di logica, l’elemento frastornante e distogliente, l’interruzione della consequenzialità: foto a colori, che riproducono un ambiente d’altri tempi, ma sempre vivo e vitale, come la scheggia di ricordo che si insinua di soppiatto nella tristezza e nella noia di un presente tutto uguale. A voler marcare la differenza, oltre le indicazioni della data e della denominazione del luogo, interviene anche il colore, quasi uno stacco deciso rispetto al bianco e nero del prima e del dopo, un pensiero senza senso che si insinua di soppiatto in una sequenza logica e coerente di riflessioni oscure e meditabonde. Questione appena di quattro immagini e poi la sequenza ritorna sui corretti binari, continuando a proporre le foto in bianco e nero di un luogo anonimo e vuoto di ogni presenza. Con Pasolini si entra nella poesia più intima, i versi citati in anteprima alle foto sono dominati da due elementi, il sole e l’urlo del morente. Giovanni Zaffagnini, per dare forma e corpo alle intuizioni scaturite dai versi pasoliniani, propone immagini che rappresentano il crudele spettacolo del sole che splende violento e accecante, con inquadrature che fanno entrare la luce direttamente nell’obiettivo. Appaiono sulle foto macchie colorate, che potrebbero sembrare banali errori di principiante, ma che al contrario sono voluti e forzati. Come rappresentare l’urlo di un morente? Con quella luce implacabile che si infila nell’obiettivo, come fa l’ultimo raggio di sole negli occhi di un uomo, quasi un estremo abbraccio con il mondo che il sole e l’uomo stanno abbandonando. Il morente giorno e il morente uomo, analogie rappresentate con la forza di un dolore indicibile a costruire una metafora di rara bellezza. La durezza dell’esistenza è l’unica verità rivelata al momento del nascere, le altre ce le dovremo cercare da soli, se mai poi le troveremo. Il trasformarsi – o il tradursi, non saprei dire cosa sia meglio a significare l’operazione, forse il “trasdursi” – delle parole in immagini costringe a un balzo interpretativo da un linguaggio a un altro, da un mezzo espressivo a un altro mezzo espressivo. Il sole pasoliniano viene “addolcito” dall’aria di mare, evocata da una lunga teoria di palazzoni condominiali deserti, che abbondano lungo la costa adriatica e si riempiono soltanto durante le vacanze estive. Costruzioni anonime, realizzate in serie, come avviene nelle periferie delle grandi città Costruzioni senza vita, morenti anche loro per gran parte dell’anno, edifici chiassosi e affollati in brevi periodi, ma sempre e comunque privi di esistenza, quella quotidianità alla quale soltanto possiamo dare il nome di vita. Intanto, scorrendo le immagini, la luce insiste a penetrare nell’obiettivo, per ravvivare quel gran deserto sofferente dove è completamente annullata la presenza umana, che si manifesta al più indirettamente con rari segni, rappresentati da auto polverose e cassonetti vuoti. Immagini di finestre sbarrate di appartamenti deserti, dietro le quali si consuma il cupo dramma del silenzio e della polvere, la dolorosa violenza dell’infinita solitudine degli spazi. La trasformazione – o traduzione – del testo scritto viene operata stavolta con l’estenuante ripetersi di immagini che non svelano la vita, come se l’uomo fosse definitivamente scomparso dalla terra e i suoi manufatti fossero gli unici superstiti, abbandonati a memoria di una umanità estinta.
(fine parte prima)

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di Sergio Tardetti

Riflessioni a margine della visione di “I segreti di Brokeback mountain
Entrato nella sala cinematografica per assistere alla proiezione del film “I segreti di Brokeback mountain”, ne sono uscito con molte meno certezze. Il fatto è che i rassicuranti stilemi del cinema classico hollywoodiano degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso si stanno vistosamente incrinando sotto i robusti colpi di registi che, pur attingendo ai cospicui budget e al supporto tecnico della grande fabbrica del cinema made in USA, riescono tuttavia a mantenerne adeguatamente le distanze. Figure di professionisti internazionali campeggiano sulla scena dei teatri di posa, directors di successo, che nulla hanno a che vedere con tante pallide ombre di registi del cinema classico, quando dominava incontrastata la temutissima personalità del produttore. Egli rappresentava allora una divinità incostante e perennemente adirata, la cui parola era legge, anche quando esigeva sacrifici narrativi o stilistici da parte del direttore del film, relegato al rango di maestranza tra le maestranze. Il produttore, a sua volta, si inchinava ad un solo padrone: il profitto. Il suo potere smisurato era tale da decretare successi e fallimenti di sceneggiatori, attori e registi che, provenienti da altri campi, quali la letteratura e il teatro, osavano avventurarsi per la prima volta, indifesi e senza una adeguato bagaglio di competenze, nel labirinto degli studios, scegliendo la macchina da presa come strumento di narrazione. Ne seppe qualcosa Scott Fitzgerald che, sebbene preceduto dalla sua fama di autore di successo, riuscì a collezionare solo una lunga serie di insuccessi come sceneggiatore, salvo cogliere poi una vendetta postuma con “Gli ultimi fuochi”, descrivendo a forti tinte, e quasi demonizzandolo, l’intero ambiente del cinema e la figura dell’onnipotente produttore Irving Thalberg.
La memoria corre ai tempi in cui il cinema – specie negli anni ’40 e in gran parte degli annui ’50 – proponeva al pubblico, che allora accorreva veramente in massa nelle sale, storie dai contorni nitidi, dove il bianco era bianco, il nero era nero. Personaggi a tutto tondo, senza sfumature, identificabili da parte dello spettatore perfino attraverso l’abbigliamento, campeggiavano sul set di film dai generi più disparati, dalla commedia al musical, dal western al noir, dal film di guerra a quello d’avventura, dal film in costume al melodramma. Fu proprio in quest’ultimo genere che cominciarono a comparire personaggi dalla personalità più sfumata, con contorni meno netti: il fatto è che il melodramma attingeva ad ampie mani dalla vita di tutti i giorni, ne era, in qualche modo, uno “specchio”, nel quale la vita si rifletteva con tutte le sue incoerenze e le sue possibilità. Nel frattempo – alla fine degli anni ’50 – la stessa evoluzione, da molti vista piuttosto come una involuzione, era entrata prepotentemente nel genere western, quel genere che sembrava allora più stilisticamente consolidato, con attori che avevano, nell’immaginario collettivo, assunto le sembianze del “buono” e del “cattivo” in maniera indelebile.
Ma questi generi e queste certezze non rientravano nel bagaglio culturale della X- generation, la generazione confusa e smarrita degli anni ’70, per la quale i richiami ai valori espressi dal cinema di papà non avevano più senso. Al loro posto subentravano altri generi, di identico significante ma di diverso significato, con nomi usati più per convenzione che per connotazione. Il western, a parole, restava ancora ad occupare lo schermo con le sue storie, in cui di classico c’era rimasta solo l’ambientazione nei grandi paesaggi della “frontiera”, ma, nei fatti, dei personaggi che lo animavano poco o nulla era rimasto. La commistione tra desiderio di classicità e volontà di innovare è forse rappresentata al meglio da “Butch Cassidy”, interpretato da Robert Redford e Paul Newman, che, con i suoi fuorilegge romantici colpisce l’animo dello spettatore più intransigente, fino al punto di parteggiare per questa coppia di rapinatori sempre in conflitto con le leggi di tutti i paesi. La realtà delle cose è che lo spettatore stesso appare confuso, circondato da un mondo in rapida e continua evoluzione, in cui nulla è certo e stabilito per sempre, tutto si trasforma rapidamente sotto i suoi occhi e diventa inafferrabile e non interpretabile. E se si accetta l’idea che il cinema, come ogni forma di espressione artistica, si rispecchia nel suo tempo e ne è figlio, si riesce a percepire inizialmente ed a comprendere poi quello che sta accadendo sullo schermo, sotto i nostri occhi aperti ed attenti a cogliere ogni nuova sfumatura che una storia narrata per immagini è capace di proporre. Butch Cassidy e Sundance Kid non possono che essere amati, universalmente, perché raccontano, attraverso una storia che appartiene ad un genere ma che allo stesso tempo ne è fuori, lo smarrimento dello spettatore, quando, fuori della sala, si trova ad interpretare quotidianamente il suo “ruolo” nel mondo reale in cui agisce. E sono amati al punto che la lacrima che ognuno di noi sta per versare sul loro tragico destino rimane sospesa come il fermo fotogramma su cui scorrono i titoli di coda: Butch e Sundance escono dalla storia, quella ordinaria e quotidiana, per entrare nella leggenda senza tempo.
E così giungiamo ai giorni nostri, giorni nei quali tutto ciò che sembrava ancora resistere all’usura del tempo è messo severamente in discussione. Intanto il genere western, se così ha ancora senso chiamarlo, ha attraversato una stagione infelice ed oscura, relegato a produzioni di serie B, realizzate con poca spesa ed ancor meno arte (è un caso a parte la felice ed eccezionale parentesi del cinema di Sergio Leone, che innova vigorosamente gli ultimi stilemi residui) ed approda fortunosamente al giorno d’oggi. A renderne opaca l’immagine hanno contribuito senz’altro mega produzioni fallimentari come “I cancelli del cielo”, che hanno segnato, oltre che uno dei punti più bassi nella storia del genere, anche la pressoché totale uscita di scena di promettenti autori, come ad esempio Michael Cimino, del quale si sono perse praticamente le tracce a partire da quel clamoroso fiasco.
Mi sto ancora chiedendo perché occorresse un regista, anzi un “autore” a tutti gli effetti, così distante dalla cultura della “frontiera” e dei cow boys, per riportare sugli scudi un genere tanto amato prima e tanto disprezzato e bistrattato poi. Il fatto è che Ang Lee, oltre ad essere un grande narratore di storie per immagini, come del resto sta a sottolineare la sua produzione precedente, è anche depositario di una cultura quale quella orientale, nella quale le tinte sfumate e le filosofie sobrie predominano sui tratti marcati e le interpretazioni dionisiache della realtà e della vita. Questo, già di per sé, può valere come risposta: la lettura che danno del mondo gli occhi di Ang Lee è quanto di più moderno e razionale possa essere proposto oggi. Moderno in quanto la modernità, a mio parere, non è tanto un’etichetta buona per incasellare il tempo che sfugge ad ogni delimitazione in epoche e stagioni, quanto piuttosto un modo di rapportarsi con la realtà che ci circonda, assecondandone le dinamiche e contribuendo, pur nel ristretto ambito della propria personale esistenza, a rendere meno conflittuale il rapporto con l’ambiente nel quale viviamo. Razionale perché assumere la razionalità come propria guida nell’attraversare l’esistenza contribuisce ad aprire gli occhi e la mente anche a fenomeni e realtà che sono spesso difficili da comprendere ed accettare. Ecco spiegata, a mio parere, la delicatezza con la quale viene affrontato un tema scabroso e poco omogeneo alla nostra società, ancora eccessivamente impregnata di fondamentalismi di ogni genere. L’autore non ignora di contribuire con forti colpi di piccone alla demolizione delle ultime vestigia di un mondo che non appartiene più all’immaginario collettivo contemporaneo, ma è altrettanto consapevole di costruire sopra queste macerie, e per mezzo di esse, una nuova visione ed un nuovo significato per un genere diventato da tempo troppo marginale nel panorama della produzione cinematografica. Chi vorrà cimentarsi in storie ambientate sotto i grandi cieli del Montana o del Wyoming, non potrà ignorare facilmente la nuova visione del mondo del western che è proposta da questo film e da questo autore.

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