Sergio Tardetti

Di una città

di Sergio Tardetti

Di una città mi hanno sempre affascinato i vuoti, più che i pieni, i silenzi più che i rumori, le solitudini, più che le folle. Una figura intravista in lontananza, che, così come appare, scompare, tanto da farti credere di averla immaginata, labile come il ricordo di una certa ora di un certo giorno. I vuoti si riempiono facilmente con i lampi della memoria, restano pieni quel tanto che basta a convincersi di essere esistiti in quell’istante. In un angolo in ombra osservi il rado strato di muschio che cresce, il filo d’erba che spunta tra le fessure di un rivestimento in travertino, il radicarsi testardo di un’edera che si aggrappa a quel poco di terra finita chissà come nel piccolo foro scavato in un mattone dall’acqua e dal ghiaccio. Molti di quelli che passano, la mente tormentata da mille incombenze quotidiane e mille preoccupazioni, trascorrono in ognuno di quei luoghi appena il tempo necessario ad attraversarlo e affrettano il passo, timorosi che quello spazio vuoto possa nascondere chissà quali insidie. Il silenzio, la solitudine rappresentano elementi concreti di quell’horror vacui che assilla la vita quotidiana, costringendo a riempire quel vuoto, seppure temporaneo, in ogni modo e con qualunque espediente, ad esempio parlando al telefono o ascoltando musica dalle cuffie. A nessuno ormai interessano i suoni della città, tutti preferiscono tenersene lontani, immaginando per sé luoghi esotici di svago dove ritemprare il corpo e la mente dopo una giornata, una settimana, un mese, un anno spesi ad inseguire un lavoro, un risultato soddisfacente, un successo personale o professionale, insomma qualunque cosa possa gratificare e giustificare quell’affannarsi ad inseguire qualcosa a cui non saprebbero dare nome né forma né volto.

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I Viaggi di Maira (recensione)

di Sergio Tardetti

Maira Francavilla rappresenta il prototipo del viaggiatore, da non confondere con il turista, che è, piuttosto, un individuo in cerca di emozioni plastificate e senza rischi, di visioni preconfezionate e predigerite, e che viaggia soprattutto per poter raccontare a quelli rimasti a casa quanto fossero belle le stanze degli alberghi o le cabine delle navi da crociera, di quanto il cibo non fosse poi niente di speciale, di quanto si è divertito nei dopocena organizzati fino al minimo dettaglio e altre simili amenità. Non racconterà, invece, mai le emozioni che ha provato, non ne sarebbe capace, come non era stato capace di ascoltarle quando si presentavano alla sua mente; viaggia infatti con il corpo, non con l’anima, con la macchina fotografica o il telefonino sempre in mano, pronto a catturare immagini da mostrare al ritorno a parenti, amici e conoscenti, soprattutto per suscitarne invidia e rimpianto per non essersi aggregati alla bella comitiva. Le emozioni sono, al contrario, impalpabili, impossibili da fotografare e difficili da catturare, se non con tutti i sensi e con la memoria. Il viaggiatore, diversamente dal turista, si immedesima sempre nei luoghi in cui si muove, al punto da avere la sensazione di esserci già stato, anzi, di averci addirittura vissuto e forse di esserci anche nato, quasi certamente in un’altra epoca. Il viaggiatore è empatico, capace di avvertire la presenza, anzi, le presenze che lo circondano, capace di sfiorare con la mano una pietra, una porta o una colonna di qualche antica chiesa o edificio e avvertire la mano di qualcuno che si è già posata lì in qualche altra epoca. Maira non scatta istantanee a raffica, tentando di congelare l’attimo che sfugge, preferisce tenere gli occhi bene aperti, anziché incollarne uno dietro l’obiettivo, attraverso il quale si può focalizzare una limitata porzione dello spazio che ci circonda, dimenticando e infine perdendo di vista tutto il resto. Maira cattura, piuttosto, impressioni che continueranno a persistere molto a lungo, anche dopo il ritorno, sa che la vera ricchezza del viaggio è proprio quella di moltiplicare le emozioni, aggiungendole alle tante già presenti nella propria anima. Sarà poi, una volta a casa, che quelle emozioni si condenseranno in parole che potranno dare vita a brevi narrazioni oppure, come in questo caso, a poesie di una nitidezza e di una raffinatezza che non deludono le attese. Nella loro essenzialità contengono tutto quello che ha attirato l’attenzione di Maira nel corso del suo viaggio, trasmettendo a chi legge le stesse emozioni che ha provato in quegli istanti e condividendole con la stessa spontaneità con la quale si presenterebbe un comune fatto quotidiano. Sono, a mio parere, opere di alta oreficeria poetica, lavori di finissimo cesello, capaci di mettere in risalto elementi di particolare pregio per la memoria di chi ha visto e vissuto quei luoghi e quelle atmosfere. I componimenti della raccolta possono essere considerati “Poesie DI viaggio”, ma anche “Poesie DA viaggio”; scritte, cioè, con l’occasione del viaggio ma anche da portare con sé in un viaggio, se si dovessero visitare quei luoghi dei quali le poesie raccontano e ripercorrere quell’itinerario. Un resoconto necessariamente infedele – conosciamo tutti bene i tradimenti della memoria – ma veritiero al tempo stesso, quasi un raccontarsi a se stessi, mentre dentro l’anima si sentono scaturire le emozioni. Il percorso, descritto attraverso immagini di intensa bellezza, si snoda attraverso luoghi facilmente identificabili sopra una carta geografica, ma nei quali, quando avessimo l’opportunità di raggiungerli, non troveremmo mai quello che è balzato con tutta evidenza agli occhi di Maira. Ognuno viaggia con il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze ed è proprio attraverso quelle che riesce a filtrare le immagini, i suoni, i profumi e i colori dei luoghi che si offrono ai suoi occhi. Tutto può diventare pretesto per una poesia, perfino la partenza, non così avventurosa come la si immaginerebbe ma perfino comune e ordinaria. Eppure, quanta poesia si respira fin dalle prime battute! Le parole sembrato accuratamente decantate dal depositarsi e dal sedimentarsi delle emozioni, il lembo di carta del quale si parla nel titolo appare a un tratto, quasi a volerne ricordare la presenza reale e a giustificare il senso del titolo. Il resto, tutto quello che a questo punto ometto intenzionalmente, potrete scoprirlo leggendo “Fino a Capo Nord con un lembo di carta”.

Maira Francavilla – Fino a Capo Nord con un lembo di carta. Bertoni Editore, 2021

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Gravità (recensione)

di Sergio Tardetti

Quanto conta il titolo di un libro nella decisione di acquistarlo? E in quella di leggerlo? Perché, è inutile, si acquistano molti più libri di quanti se ne possano leggere, magari incuriositi proprio dal titolo, con l’intenzione di prenderli in mano, un giorno o l’altro, e quanto meno di assaggiarli, se non proprio di divorarli fino in fondo. Leggi “Gravità” in copertina ed è subito un richiamo immediato a quella forza che ci consente di stare con i piedi per terra, ma che, per poeti e narratori che amano circondarsi di poesia, è l’ostacolo che impedisce di volare, di librarsi in aria con disinvolta leggerezza. E già fin da questo punto si accendono in testa mille domande: si può essere “gravi” e al tempo stesso leggeri? Si può stare con i piedi per terra e insieme sollevarsi in volo? Si può essere duri e delicati al tempo stesso? Domande necessarie, preparatorie in qualche modo alla lettura di quello che troveremo all’interno, al netto delle conferme e delle smentite.
Ma è “Gravità” anche prendere le cose sul serio, dire pane al pane e vino al vino, senza finzioni né edulcorazioni, perché così è la vita, e il non detto, o anche il semplicemente sottaciuto, spesso può causare più danni di ciò che viene detto a cuore aperto. Ed ecco, fin dalla prima pagina, fin dalle prime parole, la vita presentarsi come uno strenuo e incessante combattimento tra chi va perennemente alla ricerca della verità e chi invece, per convenienza, connivenza o quieto vivere, preferisce evitarla. Guendalina Pace vuole, fin dall’inizio, porre con insistenza la realtà sotto gli occhi del lettore, senza ipocrite finzioni né mistificazioni, perché così è la vita, ed è con la gravità, in ogni senso, che dobbiamo fare continuamente i conti. Il procedere in direzione temporale inversa, rispetto allo scorrere di una esistenza è già di per sé una scelta programmatica, quasi un voler ricordare che il senso della vita lo si comprende solo alla fine e che, se fosse possibile, sarebbe meglio conoscerlo da subito. Riprendendo la metafora della vita come viaggio, anche qui si insiste sul fatto che ciò che conta del viaggio è il viaggiare e della vita è il vivere.
Man mano che si avanza nella lettura, si avverte in ogni capitolo, pur nella crudezza della verità, una sensazione di piena e completa adesione al testo che si va leggendo, un invito a una riflessione ed a un ripensamento della propria esistenza. Colpisce particolarmente una considerazione che emerge a un tratto dalle pagine, un punto di vista che non si può non condividere, quello di non prendersi mai troppo sul serio, perché è proprio credersi superiori agli altri l’origine di tutti i malanimi e i dissapori, qualcosa capace di causare nel corso della vita danni irreparabili, fino al punto di odiare tutto e tutti e farsi odiare da tutti.
Della scrittura di Guendalina Pace mi piace sottolineare soprattutto l’esattezza nell’uso delle parole e la leggerezza dello stile; la “lezione americana” di Italo Calvino è qui compresa e applicata magnificamente. L’esattezza è una virtù misconosciuta che si apprezza particolarmente in un’epoca di sciatteria grammaticale e sintattica; quanto alla leggerezza, non è certo da correlare all’idea di superficialità ma alla capacità di rendere piacevole e scorrevole anche la lettura di pagine di elevata intensità e densità di significati. Una scrittura, insomma, elegante e raffinata che si fa apprezzare soprattutto in certi passaggi che richiedono l’attenzione del lettore, quasi un implicito invito a inoltrarsi nella lettura della pagina, gustando il piacere di ogni singola parola. Per come è concepito e organizzato, il libro di Guendalina può anche considerarsi una specie di eserciziario di stile, mediante il quale l’autrice affronta e propone diverse modalità di scrittura, dalla narrativa alla prosa poetica alla poesia tout court, un romanzo senza protagonisti né antagonisti, tranne lo scrittore e il lettore al quale l’autrice si rivolge. Ne risultano una prosa rivestita dei toni morbidi della poesia e una poesia che ha la durezza e la ruvidezza della prosa. Particolarmente avvincente il capitolo scritto senza punteggiatura, un vero flusso di coscienza emozionante e coinvolgente, nel quale, nonostante l’assenza di segni di interpunzione, si riesce facilmente a individuare e seguire il filo della narrazione.
A un certo punto, da lettore curioso quale ammetto di essere, non ho resistito alla tentazione di accantonare la lettura sequenziale e correre direttamente alle pagine finali. Ed è stato proprio qui che ho trovato la vera sorpresa! È stato come se il realismo pessimistico delle pagine precedenti si fosse stemperato – non dico dissolto, perché continuava ancora ad aleggiare fra le righe. L’incoraggiamento che i due immaginari personaggi di un piacevole duetto – un medico e un’ostetrica – rivolgono al neonato che hanno appena aiutato a venire al mondo è decisamente commovente, soprattutto perché viene rivolto da adulti che hanno conosciuto e sperimentato tutte le durezze della vita, continuando tuttavia a trovarla ancora bella. È soprattutto l’invito ad essere un uomo in armonia con se stesso e con il mondo quello che si apprezza e si percepisce in quelle pagine e tra quelle righe, l’invito che quotidianamente, come un mantra o come una preghiera, mi sento anch’io di rivolgere a me stesso, in primo luogo, e poi anche agli altri. Un libro “differente”, che emerge in un panorama piuttosto povero di tentativi di innovazione, un libro che invito a leggere per apprezzare a pieno un’autrice che mi ha sinceramente stupito e coinvolto.
 
Guendalina Pace – GRAVITA’. Bertoni Editore, 2021

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Viaggiatori o turisti?

di Sergio Tardetti

Dicono gli albergatori, i ristoratori e i commercianti della nostra città: “Mancano i turisti”. Replico io: “Non sono i turisti che mancano, sono i viaggiatori”. E non si tratta solamente di una sottile distinzione terminologica, quanto piuttosto di una sostanziale differenza di mentalità e di comportamenti. Ho conosciuto turisti di varie nazionalità che vagavano in diverse parti del mondo. Ricordo, ad esempio, un gruppo giapponese incontrato durante un mio viaggio in Turchia. Visitavamo la stessa località archeologica, forse Troia o Mileto, non saprei dire. Il caldo estivo era soffocante, così decidemmo una sosta all’ombra di un folto gruppo di eucalipti, sotto i quali si erano rifugiati anche i figli del Sol Levante, che male sopportavano quell’afa. Da una improvvisata conversazione, scaturita dalla reciproca curiosità di conoscere e di conoscersi, venimmo a sapere che erano “cristiani come noi”; la guida del gruppo, una signora di mezza età, sembrava tenerci molto a farlo sapere. Il loro frenetico e vagante itinerario li avrebbe condotti prima a Istanbul, poi a Gerusalemme, quindi ad Atene e infine in Italia, da dove, dopo avere visitato le mete canoniche di Roma, Firenze e Venezia, si sarebbero diretti a Monaco di Baviera, per fare infine ritorno in patria. Un tour de force che indubbiamente avrebbe lasciato qualche segno nelle loro memorie, oltre a qualche migliaio di foto da mostrare ad amici, parenti e conoscenti, una volta arrivati a casa. Ma avrebbero mai capito veramente l’occidente così come veniva riassunto dalle loro brochure di agenzia?
Personalmente, anche solo frequentando per qualche tempo una singola località, provo alla fine della visita una sensazione di inadeguatezza, convinto di non essere riuscito a capire il luogo dove ho soggiornato. Ogni città è infinita e lo sguardo che le dedichiamo è sempre troppo breve. I nostri amici giapponesi, inoltre, viaggiavano con casa al seguito, essendosi portati dietro bevande e cibi, nel timore di essere contaminati da quelli locali. A questo andava aggiunto il fatto che l’autobus su cui viaggiavano era dotato di cuccette, dalla curiosa forma a loculo, nei quali i nostri turisti riposavano durante le ore notturne. Che bisogno c’era di alberghi, bed and breakfast, pensioni, ristoranti, osterie, aree di sosta e di tutto quello che serve per intercettare la gente di passaggio e rappresenta la fonte di guadagno di chi vive di turismo? Il viaggiatore, invece, ha l’abitudine di muoversi individualmente o in piccolissimi gruppi e di andare proprio in cerca di un luogo, ristorante, pensione, camera d’albergo, preferibilmente al centro della città, in cui sostare per immergersi totalmente nell’atmosfera del posto. I turisti vanno e vengono, i viaggiatori restano e, a volte, ritornano. Essere turista è molto spesso una necessità, legata al poco tempo o al poco denaro o al frenetico desiderio di vedere, o a tutte queste cose insieme. Essere viaggiatore è una delle categorie dell’esistenza. Si può conoscere il mondo frequentandolo da turisti o da viaggiatori, si può conoscere la vita allo stesso modo. E’ l’eterna disfida tra chi vuole godere il viaggio e chi invece punta diretto alla meta, trascurando il paesaggio che attraversa e le persone che incontra. La vita, però, come sempre prodiga di occasioni e possibilità, consente a chiunque di diventare viaggiatore, da turista che era: sta a ciascuno di noi saper riconoscere e riuscire a cogliere quello che ci viene offerto.

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IL SILENZIO DEI PAZIENTI

Deve essere molto difficile per un medico restare in silenzio, mentre esegue un esame su un paziente e, successivamente, mentre compila il referto e la diagnosi. Deve essere davvero difficile resistere alla tentazione di lasciarsi sfuggire una frase, una parola, una sillaba, mentre il paziente è in impaziente attesa del responso. Immagino quale durissimo tirocinio avrà dovuto sostenere, lui che al bar con gli amici, in famiglia, negli incontro con i colleghi sarà senz’altro un gradevole e apprezzato conversatore. Immagino quali e quanti esami avrà dovuto inserire nel suo curricolo professionale e specialistico per apprendere le più moderne tecniche dell’afasia. Anni e anni di dura esperienza per raggiungere uno stato della mente molto prossimo alla trance. Ma forse c’è un’altra spiegazione possibile: il medico teme di lasciarsi sfuggire qualche segreto professionale che, una volta entrato in possesso del paziente, rischierebbe di esautorarlo dalle sue funzioni. D’altra parte, anche gli sciamani e gli stregoni, dai quali i moderni medici, volenti o nolenti, discendono, trasmettevano il loro sapere esclusivamente a coloro che erano destinati a prendere il loro posto in un qualche futuro.

Vorrei tranquillizzare i medici: anche se dovessi carpire il più piccolo dei loro segreti, prometto di non divulgarlo. Lo terrò per me e ne farò il migliore uso possibile, vale a dire nessuno. Quanto ho detto finora è solo per mantenere le mie considerazioni su un piano scherzoso e benevolo. Ma c’è qualcos’altro che temo, il medico non vuole perdere tempo a parlare con uno che, tanto, non capirebbe niente di quello che dice. Capisco, in questo momento, le ragioni dei tanti che preferiscono il fai-da-te piuttosto che consultare un medico, in ogni caso, alla fine, ne saprebbero quanto prima. Ammetto di pensare male, ma in questi casi, oltre a commettere un peccato, si indovina sempre. Vorrei, se possibile, ancora una volta tranquillizzare il medico: capisco l’italiano. Conosco di questa lingua quel tanto che basta a comprendere termini di uso comune come posologia, diagnosi, terapia e prognosi. Il monologo, qualcosa che deve temere più di qualunque altro al mondo, è pertanto scongiurato; potremo conversare amabilmente del mio stato di salute e, soprattutto, ottemperare all’obbligo da parte sua di informare il paziente. Se e quando riuscirà a rompere la ferrea regola del silenzio che si è imposto, potrà rendersi conto perfino del potere terapeutico della parola e di quello quasi taumaturgico di un sorriso e di una stretta di mano.

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