Dimenticare Draghi | Un’altra “Agenda”, un’altra onda

Foto di Elias da Pixabay

di Effimera


A cavallo di quest’onda, sballottato da sponda a sponda
Inseguendo un’altra volta la grande onda che ritorna

(La grande onda, Piotta )

Il governo Draghi è arrivato al capolinea e il 25 settembre si andrà a votare. Quasi tutti si disperano, dai grandi giornali (in primis Corriere e Repubblica) alle varie componenti della cosiddetta società civile. I più disperati sembrano essere i dirigenti del Partito Democratico, insieme alle loro costole che affollano il centro politico delle due Camere; ma li affiancano nel pianto dirotto gli scissionisti a 5 stelle, gli orfani di Berlusconi, la pattuglia che funge da complemento nella sinistra parlamentare. Il motivo di tanta disperazione per la caduta di Draghi è sempre lo stesso: la conclusione anticipata della legislatura non consente (a loro dire anzi ostacola e impedisce) di realizzare gli obiettivi emergenziali che il governo di unità nazionale si era proposto già all’inizio dell’investitura, e tra questi la cd. “agenda sociale”.

La stessa Cgil, che pure rivendica di essere il paladino più radicale dell’interesse dei lavoratori, in una nota stampa dello scorso 15 luglio, auspicava la necessità che si mantenesse “un governo in grado di dare risposte nel pieno delle sue funzioni” e ricordava il proficuo incontro tra le organizzazioni sindacali e il presidente del Consiglio Draghi del 12 luglio per individuare “interventi strutturali” per far fronte alla “crisi energetica, per il superamento della precarietà, per strumenti fiscali idonei a tutelare i salari e le pensioni dall’aumento dell’inflazione (leggasi: riduzione del cuneo fiscale, ndr), per un salario minimo e per una nuova legge che risolva finalmente il problema della rappresentanza”. L’azione sindacale iniziava, e al tempo stesso si concludeva, con una richiesta generica di ammissione al tavolo delle trattative, ferma l’esclusione dei sindacati di base, senza accenni alla posizione della CISL, apertamente e incondizionatamente schierata con l’esecutivo.

Non può non insospettire tanta preoccupazione per le condizioni dei ceti popolari, per il segmento crescente di povertà e per il precariato da parte di forze politiche sempre pronte a recidere i diritti di chi lavora. Quando si parla di “agenda sociale”, a che cosa si fa effettivamente riferimento? Il governo di unità nazionale, in questi 18 mesi, ha eroso le già prudentissime norme del decreto dignità, introdotto ostacoli all’erogazione del reddito di cittadinanza, ripristinato durante la pandemia la liberalizzazione dei contratti precari sottopagati. Ma non c’è stato un solo intervento legislativo – uno! – volto a rimuovere (o almeno cominciare a rimuovere) la discriminazione salariale in danno delle lavoratrici o capace di incidere sulle sacche di povertà assoluta o magari espressamente punitivo, con adeguate sanzioni, di chi usa il sottosalario sfruttando i bisogni esistenziali del precariato. Niente! Per lo più si è trattato di una politica di annunci a cui sono seguiti pochi fatti e questi fatti hanno spesso peggiorato, e non migliorato, le condizioni dei più deboli.

È oramai da più di un anno che il Ministro Orlando ha promesso il varo di una vera e strutturale riforma strutturale degli ammortizzatori sociali (luglio 2021), riconoscendo anzi che la misura era presupposto indispensabile per la ripresa. Quella che doveva essere una delle riforme essenziali per far fronte alla crisi si è poi tramutata nel varo di alcune misure particolari all’interno della legge di bilancio per il 2022, entrate in vigore lo scorso 3 gennaio. La cassa integrazione prevede ora un massimale unico, pari 1129,72 euro lordi mensili. Il sito del governo afferma che ci sarà un aumento di 200,00 euro mensili per i lavoratori che percepiscono meno di 2.159,48 euro. Non è proprio così, peraltro; il ritocco ha applicazione per fascia retributiva (200 euro lordi, pari a 154 netti, come tetto massimo), riguarda essenzialmente la fascia bassa, e per il tempo parziale va poi riproporzionato, senza tener conto dell’orario di fatto, ma conteggiando sulla base di quello formale senza prestazioni supplementari o straordinarie. Inoltre il massimale unico comporta un danno per chi invece percepisce di più di duemila euro lordi mensili, con una redistribuzione fra chi ne usufruisce di fatto. Oltre al nuovo massimale unico la riforma Orlando introduce un ampliamento a vantaggio degli addetti delle imprese in difficoltà per il caro-energia e l’ampliamento dell’ambito di applicazione del FIS, il Fondo di Integrazione Salariale. La misura sarà estesa a tutti i datori di lavoro appartenenti a settori e tipologie non rientranti nell’ambito di applicazione della Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria e che non aderiscono a un Fondo di solidarietà bilaterale. La riforma prevede pure l’estensione del contratto di espansione alle imprese di minore dimensione, con proroga al 2023 e ampliamento del campo di applicazione anche alle imprese con almeno 50 addetti.

Di fatto le misure adottate finanziano le imprese, esonerandole dal versamento della retribuzione (a carico di INPS) e riducendo il costo dei contributi a loro carico; il beneficio dei lavoratori, che comunque vedono diminuire le entrate, è solo marginale, di contenimento del danno subito.  Nulla è stato fatto, nonostante dichiarazioni di segno opposto, per avviare una serie ristrutturazione degli stessi ammortizzatori sociali verso una loro semplificazione e armonizzazione, facendo passare il principio universalistico che deve essere tutelata la persona in quanto tale e non la sua condizione lavorativa. Si tratta di un principio, quest’ultimo, di carattere politico che inevitabilmente apre la strada verso un reddito minimo incondizionato quale unico strumento di sicurezza sociale. Per questo, l’agenda sociale di Draghi si fonda su presupposti completamente diversi, di stampo essenzialmente tradizional-liberista: indifferenza per l’allargamento della forbice fra ricchi e poveri, risorse destinate per la più larga parte alle imprese.

E infatti, anche con l’ultimo Decreto Aiuti che ha determinato la caduta dell’esecutivo, si è provveduto a irrigidire ulteriormente le condizionalità di accesso al reddito di cittadinanza, consentendo la chiamata nominativa dei percettori direttamente dai datori di lavoro (senza dover passare dai Centri per l’Impiego), con la conseguente abolizione del sussidio in caso di rifiuto non giustificato. Poiché la chiamata del datore non è sottoposta a regole inderogabili, ma si presenta in buona sostanza come una proposta unilaterale non trattabile, il destinatario si trova di fronte ad un vero e proprio ricatto: o accettare o perdere il beneficio.

Il Decreto Aiuti ha evitato di toccare il delicato crocevia di un trattamento retributivo non derogabile in basso e questo ha acuito il livello di scontro interno all’area governativa. Sul tema del salario minimo sono stati versati fiumi di inchiostro, soprattutto dopo la delibera europea che chiede la sua introduzione (pur se non la impone). Il Ministro Orlando ha promesso, con estrema prudenza e con una certa ipocrisia, un intervento al riguardo, ma dopo consultazioni con le parti sociali (esclusi naturalmente i sindacati di base). Ricordiamo che Cisl e padronato sono contrari all’idea di un salario minimo legale che prescinda dalle condizioni lavorative; la stessa CGIL nicchia temendo di essere superata nella capacità contrattuale dalla legge di tutela. Non dimentichiamo che una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano ha ritenuto non congruo il minimo salariale di un contratto nazionale di settore sottoscritto da CGIL, CISL e UIL perché inferiore al minimo vitale garantito dall’art. 36 della Costituzione! Non sorprende quindi che la proposta governativa Orlando, appoggiata in pieno dalle associazioni datoriali, vada proprio in questa direzione, legando sul campo il salario minimo ai minimi tabellari dei contratti settoriali di riferimento, variabili e contrassegnati da rapporti di forza diversi.  Orlando, fra le altre cose, finge di non sapere che in Italia l’assenza di leggi attuative degli articoli 39 e 40 della Costituzione conferisce carattere privatistico alla scelta di un settore piuttosto che di un altro e soprattutto impedisce di estendere erga omnes la contrattazione collettiva. La Corte Costituzionale, con la sentenza 19.12.1962 n. 106 cancellò la c.d. legge Vigorelli che aveva concesso efficacia generale ai trattamenti dei CCNL di settore. E non indica limiti minimi di trattamento economico nella stesura dei contratti di categoria. Più che un miglioramento sembrerebbe, quello di Orlando, il tentativo, contro i lavoratori, di vanificare la portata dell’art. 36 della nostra Carta. Anche in questo caso, si vuole imporre una logica selettiva e non universalistica: la stessa degli  ammortizzatori sociali. Nell’attuale crisi della contrattazione collettiva e nella fase di perdurante perdita di potere d’acquisto, sino a far emergere una vera e propria questione salariale, solo l’instaurazione di un salario minimo legale per tutte e tutti, a prescindere dal tipo di prestazione effettuata, ad un livello minimo di euro 12 euro lordi, può creare quel pavimento che possa interrompere il dumping salariale verso il basso, conseguenza della precarietà dilagante e oggi fuori controllo e prima causa della crisi della contrattazione collettiva. Non sarà d’accordo il Giudice penale di Piacenza che qualifica come estorsione la lotta sindacale per ottenere trattamenti più favorevoli di quelli minimi nazionali; ma è invece prassi diffusa e ragionevole quella di fissare un limite minimo retributivo, lasciando al conflitto sociale trattamenti superiori. L’ordinanza del Giudice di Piacenza, in accoglimento delle istanze della Procura, è quella che ha disposto l’arresto di numerosi attivisti sindacali di USB e di SI COBAS nei giorni della crisi di governo e della discussione sul salario minimo.

Anche sul tema della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva si sono spese molte parole, ma senza nessun fatto. È diventato usuale in Italia, unico paese in Europa, rinnovare i contratti collettivi con un ritardo medio di tre anni. Al punto, che la ragione principale dei pochi scioperi che vengono indetti non riguarda il merito del rinnovo ma la richiesta di avviare le trattative. Si tratta di una politica contrattuale scientemente utilizzata dal padronato per risparmiare ulteriormente sul costo del lavoro. Infatti, quando il contratto viene rinnovato, la “vacatio” contrattuale viene risarcita con somme miserevoli, di gran lunga inferiori a quelle che sarebbero spettate ai lavoratori e alle lavoratrici se il contratto fosse stanno rinnovato nei tempi previsti.

Nel frattempo, l’”agenda sociale” di Draghi si materializza concretamente nel DDL sulla concorrenza, la cui logica si fonda esclusivamente sulla filosofia del New Public Management (NPM). Esso detta nuove regole di gestione del settore pubblico, sull’esempio delle pubbliche amministrazioni anglo-sassoni, dove si è diffuso il sistema di workfare, integrando le gestioni tradizionali di un ente pubblico con una metodologia più orientata al risultato economico (o al limite ad annullare le possibili perdite). La finalità è decretare la scomparsa della sfera pubblica senza che scompaia del tutto la proprietà pubblica, immergendola nelle leggi del mercato, non più improntata al buon andamento della società, in funzione delle esigenze della collettività. È il trionfo dell’individualismo anche nella sfera pubblica. La sanità, così come il sistema d’istruzione e la pubblica amministrazione, vengono amministrate in base a criteri che non contemplano la qualità dei servizi, dal momento che per il NPM la qualità non è altro che una proprietà derivata dalla quantità – e della quantità contano solo gli aspetti economici, che vengono valutati attraverso il benchmarking: invece di fissare gli obiettivi di un’istituzione in base ai suoi scopi (tipo curare i malati per la sanità, istruire per la scuola), si stabilisce uno standard astratto – il benchmark – che dovrebbe consentire di mettere a confronto diverse istituzioni.

Se si deve favorire la logica del mercato, ovvero le sue gerarchie, l’azione governativa si fa sentire. Se si deve intervenire sul tema della sicurezza sociale, alle parole non seguono fatti. Anzi. L’incertezza normativa e l’insicurezza sociale marciano insieme e diventano parte integrante del programma, ovvero dell’agenda sociale, di un esecutivo che non accetta più neppure l’ingerenza o la critica parlamentare. Maggiore ascolto viene dato, eventualmente, alla pressione lobbistica, o perfino all’arroganza criminale (la cronaca giudiziaria di queste ore narra di un compenso fisso, rilevato dall’inquirente milanese dottoressa Cerreti, versato alla ndrangheta per velocizzare le pratiche amministrative!).

È il caso, ad esempio, che abbiamo già ricordato su Effimera del venir meno della responsabilità in solido per le grandi imprese committenti nella logistica (Tnt, Amazon, Leroy Merlin, ecc.) quando le imprese subappaltanti non pagano adeguatamente i propri dipendenti. Un duro colpo per le condizioni di lavoro in un comparto già caratterizzato da ampi livelli di sfruttamento e di non rispetto delle regole. Altro che salario minimo: l’agenda Draghi tende a costruire la riduzione di quello reale!

Ma tutto ciò non basta. L’esperienza del governo di unità nazionale, dell’agenda Draghi, è quella di varare un modello di governo tirannico e liberista insieme; e sia destra sia sinistra sono pronte a raccogliere i frutti della velenosa semina in questo ultimo scorcio di legislatura. Si aggiunge, mentre cade l’esecutivo e si annunciano le nuove elezioni, un nuovo capitolo, pesantemente repressivo, come testimoniano le inquietanti accuse formulate contro alcuni sindacalisti di base nel polo logistico di Piacenza. La dottoressa Sonia Caravelli, Giudice per le Indagini Preliminari presso il locale Tribunale, ritiene assolutamente normale l’uso di intercettazioni telefoniche fin dal 2016 (per oltre sei anni!) nei confronti di attivisti sindacali; la contestazione di un reato quale associazione per delinquere viene ricondotto ai tipici delitti con cui il codice Rocco colpiva lo sciopero: violenza privata, danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale, minaccia, blocco stradale, violazione del domicilio. L’ordinanza della dottoressa Caravelli che dispone l’arresto di una pattuglia di sindacalisti sotto inchiesta da oltre sei anni è a modo suo un capolavoro tecnico giuridico che ci riporta indietro negli anni; andrebbe letta nelle scuole, recitata a teatro, diffusa nei centri sociali, inserita in video con una platea di quei lavoratori immigrati che sono il bersaglio del Tribunale e che costituiscono la base del profitto ingiusto acquisito dalle multinazionali mediante inaccettabile sfruttamento della manodopera. Questa è l’agenda Draghi: una tenaglia di emendamenti inseriti da abili manine e di ordinanze decise a reprimere il dissenso ribelle nella logistica.

Si legge nell’ordinanza dei giudici: Le lotte della logistica sono finalizzate a ‘estorcere’ alle società condizioni di miglior favore per i lavoratori, che ovviamente prevedono un aumento dei costi per le aziende. Il Tribunale si erge a sociologo, a storico, a censore sociale, e non esita a sostenere che i due sindacati di base si erano trasformati, di fatto, da lecite strutture in associazioni per delinquere, poiché i loro dirigenti creavano ad arte od alimentavano situazioni di conflitto con la parte datoriale […] avviando attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti interessati, impedendo ai mezzi di entrare e uscire, anche occasionando scontri con le forze dell’ordine, occupando la sede stradale anche con oggetti oltre che con la persona dei lavoratori istigati allo scopo, ponendo in essere continue azioni di sabotaggio” (pag. 2). Per la verità il sabotaggio (articolo 508 del codice penale) disciplina casi un po’ diversi, non è il picchetto e neppure il blocco dell’ingresso, riguarda l’occupazione e l’invasione dello stabilimento, appropriandosi di macchinari e scorte; per giunta le aziende debbono essere agricole o industriali, non logistiche o di trasporto. Ma sono dettagli per la nostra giudicante.

Ricordiamo tutti che a Piacenza e a Biandrate (Novara), due lavoratori sono morti, travolti dagli autisti dei mezzi pesanti determinati a superare qualsiasi ostacolo; poco possono i corpi umani disarmati contro un bilico o un camion. Eppure, l’autista è stato prosciolto a Piacenza, da tutte le imputazioni, neppure tenuto a risarcire la vittima. Nel secondo e più recente caso, in Piemonte, il procedimento langue. Gli unici colpevoli sembrano al momento essere i compagni dei defunti.

Contro le medesime organizzazioni sindacali (Si Cobas e Usb) agisce invece la potente Assologistica; assistita dal prestigioso studio del giuslavorista Pietro Ichino ha chiesto i danni e l’udienza sarà chiamata presso la Sezione Lavoro del Tribunale di Milano, nel prossimo mese di settembre. La premessa di Assologistica, anche in sede civile, è la medesima: le forme di lotta nel settore logistico sono illecite, illegali e penalmente rilevanti. L’azione per danni ha lo scopo preciso di dissuadere, di creare difficoltà al sindacato di base, di piegarlo anche sul piano economico oltre che sul piano politico. Una manovra a tenaglia, che rientra pienamente nella filosofia del diritto che caratterizza i governi di unità nazionale.

Poiché questa è l’agenda sociale di Draghi, non ci strappiamo di certo i capelli per la sua caduta. Per “agenda  sociale”, noi intendiamo invece l’introduzione di un salario minimo orario a prescindere dalla condizione contrattuale, sanzioni ed esclusione dalle gare (pubbliche e private) per chi non lo applica, l’introduzione di una penale pagata delle imprese a favore dei lavoratori e del loro salario per ogni mese di ritardo del rinnovo contrattuale o nel pagamento, l’estensione del reddito di cittadinanza in forme sempre più incondizionate a favore di una armonizzazione degli ammortizzatori sociali che non sia legato allo status e condizione professionale, in senso universalistico, una riforma fiscale progressiva che contempli anche una tassazione dei grandi patrimoni e una web tax sui profitti delle grandi piattaforme della logistica e non solo. Nell’agenda sociale di Draghi fa capolino nuovamente il nucleare e neppure viene esclusa la privatizzazione dell’acqua, contro l’esito di ben tre referendum e contro la volontà popolare; nell’agenda sociale di chi a Draghi si oppone deve invece risaltare il NO netto e chiaro ad entrambe le restaurazioni, costringendo ogni forza politica alla chiarezza, per evitare l’ennesima frode.

Vogliamo anche ricordare che, nei profondi recessi della crisi infinita – che ha raggiunto l’apice con la spesa pubblica dirottata dai tanti bisogni sociali scoperchiati dalla pandemia verso gli armamenti e la guerra – la stagnazione e l’immobilità sociale hanno avuto ripercussioni particolarmente dure per le donne, la cui subalternità sul piano economico e decisionale viene svelata dalle statistiche sull’occupazione, sui salari, sulla assenza nei luoghi del potere. L’assenza di servizi sociali adeguati è ciò che ancora oggi, in Italia, vincola le scelte, i desideri, le libertà femminili. Cosicché delle donne italiane, nell’anno 2022, resta esclusivamente una malinconica e ingiusta rappresentazione in termini di marginalizzazione e inferiorizzazione. Che cosa dovrebbero rimpiangere, le donne di questo paese, di Mario Draghi e della sua azione politica?

Lo stesso ragionamento potrebbe essere condotto dalle generazioni più giovani, condannate alla più cruda povertà da una precarietà che si estende nelle maglie della vita: il lavoro ha perso ogni valore, economico, sociale, addirittura culturale mentre il capitale viene protetto e celebrato dalla politica. Lo diciamo da convinti non lavoristi: la precarizzazione estrema, e il dumping sociale che oggi caratterizzano e segnano l’attuale dinamica del mercato del lavoro, enfatizzata dal succedersi delle crisi dal 2008 fino ai precipizi odierni, ha svilito il significato della parola lavoro. Aumentano i casi di giusto e legittimo rifiuto di condizioni di lavoro, sottopagate e degradate. Tuttavia, il fenomeno rischia di assumere tendenze nichiliste se non accompagnato da strumenti di politica e sicurezza sociale che permettano lo sviluppo di processi di autodeterminazione della persona.

Riteniamo che siano questi i temi e le proposte che devono stare al centro dell’”agenda sociale”, così intesa, nell’imminente campagna elettorale che, al solito, sarà caratterizzata da promesse vane e da menzogne. Sperando dunque in una nuova grande onda che li faccia traballare e preoccupare: il nostro sguardo è rivolto là.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 28 luglio 2022

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