admin

Stragi d’Italia

Descrizione

Vent’anni dopo Ombre nere, Daniele Biacchessi torna a raccontare le increspature dello Stato, i depistaggi dei servizi segreti, i fragorosi silenzi degli apparati, gli intrighi di Palazzo, le compromissioni delle Istituzioni, le intromissioni di Stati stranieri, le assoluzioni, ma anche le condanne (stragi di Peteano di Sagrado, Brescia, stazione di Bologna). Il libro tesse le vecchie trame, coglie sfumature e particolari dimenticati, evidenzia incongruenze, smussa gli angoli delle menzogne. Vent’anni dopo, diventa il grande libro delle stragi italiane che non sempre hanno colpevoli accertati dalla giustizia, ma che rappresentano il profondo buco nero nel centro della nostra Storia. «Sentivo il bisogno di riannodare i fili di questa storia che sembra non aver mai fine. È venuto fuori un nuovo racconto di un pezzo di Storia contemporanea destinato ai più giovani che nulla sanno, perché nulla è scritto nei loro libri di testo scolastici».

Daniele BiacchessiSTRAGI D’ITALIA. Ombre Nere 1969 – 1980. Jaca Book, 2023

Stragi d’Italia Leggi tutto »

10 dicembre 2022: “Dignità, Libertà e Giustizia per Tutti”

(Foto di Dale Zaccaria x 24hassange)

di Patrick Boylan

Questo 10 dicembre, in tutto il mondo ricordare Julian Assange nella giornata ONU dei diritti umani: perché è importante
Lottare per la liberazione di Julian Assange, co-fondatore del sito WikiLeaks ora imprigionato, significa lottare per difendere TUTTI i nostri diritti umani, così spesso negati o violati, a partire dal nostro #DirittoDiSapere i misfatti dei nostri governanti – anche quelli segretati ingiustamente.

Da tre anni e sette mesi, Julian Assange, giornalista investigativo australiano, viene sottoposto ad un regime di carcere duro nella prigione britannica di massima sicurezza di “Belmarsh” – senza processo e quindi senza aver ricevuto una sentenza che possa giustificare una pena che anche il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria biasima come “sproporzionata.” La sua detenzione costituisce, dunque, una palese negazione del suo diritto alla giustizia.
E ciò nonostante, perdura. L’isolamento totale inflitto ad Assange dal Regno Unito – e quello che gli Stati Uniti vorrebbero infliggergli a vita in un loro carcere di massima sicurezza, qualora riuscissero ad estradarlo – dimostrano quanto i due governi anglosassoni temono Assange e ciò che egli potrebbe ancora rivelare dei loro crimini e illeciti, qualora egli fosse libero o, perlomeno, qualora egli avesse accesso ad un computer o ad altri strumenti di comunicazione. Donde il bavaglio, fino alla morte.
Ma se la severa e ingiusta prigionia di Julian viola il suo diritto alla libertà e alla parola, al contempo viola anche i nostri diritti umani, a partire dal nostro #DirittoDiSapere ciò che i nostri governanti fanno realmente nel nostro nome. Non solo, ma l’esempio di quella prigionia serve chiaramente ad intimidire tutti i giornalisti investigativi: “Se cercate di smascherarci,” dicono in sostanza i due paesi anglosassoni a costoro, “finirete come Assange”. Perciò, la prigionia di Julian rappresenta anche un attacco alla libertà di stampa, di cui all’articolo 19 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Ma i diritti umani negati dalla persecuzione giudiziaria di Julian Assange comprendono anche molti altri.
Negli anni precedenti alla sua incarcerazione, infatti, Assange è stato perseguito con inaudita ferocia e accanimento dai servizi segreti USA/UK, che hanno fatto scempio totale della Dichiarazione Universale. Infatti, i due paesi anglosassoni (1.) hanno spiato Assange, senza autorizzazione, per sette anni, 24/7, e persino durante le sue conversazioni privilegiate con i suoi avvocati. (2.) L’hanno privato del suo diritto alla salute durante il suo asilo politico. (3.) L’hanno calunniato a mezzo stampa. (4.) Con la complicità delle autorità svedesi, hanno messo in opera una montatura giudiziaria diffamante. (5.) Hanno corrotto un testimone per screditare (falsamente) la figura professionale di Assange quale giornalista investigativo. (6.) Hanno bloccato, senza ordinanza giudiziaria, tutti i canali di finanziamento del sito WikiLeaks per farlo fallire e così fermare le rivelazioni. (7.) Infine, stanno commettendo, proprio ora, un palese sviamento di potere imputando a Julian atti di spionaggio in base ad una legge statunitense che si applica solo a chi risiede negli USA nonché ai cittadini statunitensi residenti all’estero, ma che gli USA vorrebbero ora, creando un precedente con la complicità dei tribunali britannici, estendere unilateralmente ai giornalisti e ai privati cittadini di qualsiasi nazionalità in tutto il mondo.
Un bel po’ di diritti calpestati, non c’è che dire.
Certo, ci sono nel mondo molti altri casi di diritti umani sistematicamente negati. E difatti, i nostri governanti e i nostri mass media amano puntare il dito continuamente contro i diritti negati a giornalisti e ad attivisti in Russia, in Iran e in Cina, vuoi per assolversi (“Vedete? C’è di peggio altrove.”), vuoi per creare steccati e polarizzare il mondo in due campi, noi i buoni e loro i cattivi.
Non c’è dubbio: tutti i perseguitati politici (che non siano agents provocateurs) meritano la nostra solidarietà, perciò anche quelli in Russia, in Iran e in Cina.
Ma puntare il dito di continuo contro i tre paesi appena elencati e soltanto loro, spesso esagerando le loro colpe o addirittura inventandone, sa di strumentale ed è chiaramente in malafede.
E’ significativo, per esempio, che i nostri governanti e i nostri mass media non puntino il dito continuamente contro i diritti negati da Israele ai propri cittadini arabofoni, per non parlare dei palestinesi. Nè puntano il dito contro i diritti negati dal “governo amico” di Kiev ai propri cittadini: sono 80 i giornalisti e blogger ucraini fatti sparire perché dissidenti dal 2014, cioè ben prima dell’attuale conflitto, ma di loro abbiamo notizie solo dagli ucraini fuggiti all’estero, non dai nostri media. E, neanche a dirlo, non puntano il dito contro i diritti negati dagli Stati Uniti ai propri cittadini. Infatti, oltre a incarcerare o comunque perseguitare sistematicamente i tanti whistleblower che hanno osato denunciare il governo statunitense (oltre a Assange e Manning, ricordiamo Snowden, Hale, Drake, Jin-Woo Kim, Kiriakou, Leibowitz, Sterling e Winner tra i casi più recenti), gli USA hanno anche il primato poco invidiabile di tenere in galera la più alta percentuale della propria popolazione rispetto a qualsiasi altro paese nel mondo, dittature comprese. Più della Corea del Nord. Più dell’Arabia Saudita. In certi Stati, i carcerati, che sono soprattutto di colore, vengono fatti lavorare da schiavi nei campi di cotone gestiti dalle prigioni – a vederli sembra di tornare nuovamente all’epoca dello Zio Tom. Tra questi prigionieri-schiavi spiccano molti attivisti e dissidenti neri che sono stati condannati per qualche inesistente reato comune, per toglierli di torno senza che risultino “prigionieri politici”.
Due torti non fanno una ragione. Perciò, le violazioni dei diritti umani da parte dei paesi appena elencati certamente non assolvono le violazioni in Russia, in Iran o in Cina. Tuttavia va contestata l’ipocrisia dei nostri politici e dei nostri media nel condannare esclusivamente i paesi da loro considerati “avversari”. Soprattutto perché questo continuo martellamento ha uno scopo preciso: mira a inculcare in noi una insofferenza verso la Russia, l’Iran e la Cina. In pratica, veniamo mobilitati contro, sin da ora. Ciò tornerà utile ai nostri governanti un domani in vista del sostegno popolare di cui avranno bisogno per le loro prossime guerre – peraltro già allo studio – contro questi tre paesi. Si passa dall’attuale guerra fredda con loro ad una guerra guerreggiata in un istante e perciò i nostri governanti hanno bisogno di tenerci pronti.
Per dire “Basta!” a queste invocazioni ipocrite dei diritti umani negati altrove, invocazioni peraltro strumentali per prepararci alle guerre, abbiamo una arma molto potente: esigere che i nostri governanti mettano in ordine la propria casa, prima di pronunciare anatemi contro gli altri.
Ciò significa necessariamente, dunque, porre fine alla persecuzione di Julian Assange, vittima di una serie di abusi che il relatore ONU sulla tortura, Nils Melzer, ha qualificato in questi termini (maggio 2019): “In 20 anni di lavoro con vittime di guerra, violenza e persecuzioni politiche non ho mai visto un gruppo di Stati democratici riunirsi per isolare, demonizzare e abusare deliberatamente di un singolo individuo per così tanto tempo e con così poca considerazione per la dignità umana e lo stato di diritto.”
Ripetiamolo ancora una volta, a scanso di equivoci: tutti i perseguitati politici (che non siano agents provocateurs, anche involontariamente) meritano senz’alcun dubbio la nostra solidarietà. Tuttavia è giusto e opportuno che il caso Assange rimanga comunque la nostra priorità, proprio perché, come si è appena detto, abbiamo il precipuo dovere di mettere in ordine dapprima casa nostra e, inoltre, perché il caso Assange è la quintessenza dei diritti negati.
Ma il co-fondatore di WikiLeaks non è soltanto il simbolo in Occidente del giornalista/attivista privato dei suoi diritti umani.
Egli è anche il simbolo in Occidente del giornalista/attivista che, più che qualsiasi altro, ha lottato contro la privazione dei nostri diritti umani, calpestati così spesso dai nostri governanti e dalle multinazionali che li sorreggono.
Per esempio, attraverso il suo lavoro di giornalismo investigativo, Assange ha difeso il nostro diritto alla salute rivelando le pratiche irregolari dei due colossi dell’agribusiness, Bayer e Monsanto, che volevano commercializzare prodotti nocivi. Ha difeso il nostro diritto alla privacy rivelando come la CIA e la NSA – ma anche un qualsiasi nostro rivale in affari che possiede il loro spyware che una ditta israeliana commercializza – possono leggere persino i dati riservati che conserviamo nei nostri cellulari, se non adoperiamo contromisure. Ha difeso il nostro diritto alla sicurezza di fronte ai cambiamenti climatici, rivelando le pratiche illecite usate dai paesi più inquinanti per svuotare gli accordi COP. Ha difeso il nostro diritto alla pace smascherando i tentativi dei nostri governanti a “venderci” le loro guerre con falsi pretesti. E via discorrendo.
La giornata che celebra i diritti umani, dunque, deve essere soprattutto una giornata che ricorda:

sia i diritti negati a Julian Assange,
sia i diritti negati a tutti noi e che Assange ha cercato di difendere.

A Roma, ad esempio, gli attivisti di FREE ASSANGE Italia stanno preparando, in vista del 10 dicembre, una festa natalizia in piazza per Julian, per ringraziarlo di tutti i doni che ci ha fatto, ovvero le sue rivelazioni che hanno inchiodato il potere. Creeranno una pila di scatole-regalo, leggendo nel microfono le relative etichette, ognuna delle quali menzionerà una rivelazione di WikiLeaks e il corrispondente diritto umano che è stato così tutelato – come nei quattro esempi appena elencati. Durante questa attività, altri attivisti ricreeranno la statua di Davide Dormino, “Anything to say?“, per celebrare non solo Assange ma anche Manning e Snowden, ricordando il loro coraggio nel denunciare i nostri diritti umani negati. Questo sit-in originale, aperto a tutti, si terrà a Porta Pia, davanti all’Ambasciata britannica, dalle 15 alle 18. Per saperne di più, consultare i social media del gruppo: https://www.facebook.com/FreeAssangeITA, https://www.twitter.com/Assange_Italia, https://www.t.me/FreeAssangeItalia, https://www.freeassangeitalia.it/.
Sempre a Roma la sezione ANPI del quartiere San Lorenzo commemorerà la giornata dei diritti umani con un incontro il giorno prima, 9 dicembre, così da consentire ai sanlorenzini di partecipare l’indomani alla manifestazione in piazza del gruppo FREE ASSANGE Italia. Durante l’incontro alle ore 18 presso la Casa della Partecipazione, si parlerà dei diritti negati nel quartiere a causa della gentrificazione in atto e a causa dei continui tagli alle finanze locali, proponendo come azione rivendicativa l’adesione alla campagna nazionale “Riprendiamoci il Comune” lanciata da ATTAC Italia. E poi, naturalmente, si parlerà di Julian Assange e, in particolare, della sua lotta per una informazione libera, capace di contrastare il Pensiero Unico dei mass media mainstream. A titolo di esempio verrà illustrato come viene raccontata la guerra in corsa in Ucraina oggi, con Assange impossibilitato a rivelarci i retroscena nascosti, e, in retrospettiva, com’è stata raccontata all’epoca la guerra in Iraq, con le clamorose smentite, poi, del sito WikiLeaks. Al termine, i partecipanti avranno l’occasione sia di iscriversi alla campagna “Riprendiamoci il Comune”, sia di acquistare il libro “Free Assange” (edizioni Left) e di aderire al gruppo FREE ASSANGE Italia.
Così a Roma. Ma la Giornata dei Diritti Umani verrà celebrata ricordando Julian Assange in molte altre città d’Italia e nel mondo. Il comitato 24hAssange ha creato una mappa in via di completamento sulla quale, cliccando sui vari numeri, si potrà leggere i nomi delle diverse città e gli eventi previsti per il 10 dicembre. Anzi, i promotori invitano tutti coloro che vorranno organizzare un evento, grande o piccolo, di inviare una mail a 24hAssange@proton.me per segnalare l’attività prevista, indicando luogo, titolo, orario e mail di un responsabile. L’attività verrà inserita nella mappa. Un’attività che sta riscuotendo molto interesse è il flashmob proposto dal gruppo internazionale Free Assange Wave e Davide Dormino, intitolato “Bring Your Chair”; per sapere come realizzarlo: QUI
La “Giornata Mondiale dei Diritti Umani” viene promosso il 10 dicembre di ogni anno dall’ONU con un determinato tema; quest’anno esso sarà “Dignità, Libertà e Giustizia per Tutti”.
I gruppi Assange nel mondo hanno semplicemente colto questa occasione per ribadire i contenuti proposti dall’ONU, ma focalizzandosi sul caso Assange in quanto particolarmente esemplificativo.

Note: Ripreso con modifiche dall’articolo originale pubblicato su Il Manifesto online in data 2/12/2022:
https://ilmanifesto.it/ricordare-julian-assange-nella-giornata-onu-dei-diritti-umani-perche-e-importante

L’articolo è stato pubblicato su Peacelink il 6 dicembre 2022

10 dicembre 2022: “Dignità, Libertà e Giustizia per Tutti” Leggi tutto »

CODIFICAZIONE DELL’INCERTEZZA

di Gianni Giovannelli

(Intervento di Giovannelli al seminario “Dei corpi perduti e dei corpi ritrovati” – Milano, 10 ottobre 2020)

La norma, che è il nocciolo della legge, caratterizza, nella sua sostanza, il sistema complessivo che regge il potere; definire la norma consente di cogliere i punti di forza e i punti di debolezza nell’apparato di comando.
Dobbiamo a un serbo della Voivodina, Vujadin Boskov (1931-1914) l’aforisma che inquadra perfettamente l’idea di norma che si è affermata, con sempre maggiore evidenza, nel capitalismo finanziarizzato delle piattaforme. Boskov, pur se laureato in storia e filosofo del diritto formatosi nel socialismo reale, era anche un abile allenatore di calcio, capace di portare la Sampdoria fino alla vittoria nel campionato. Richiesto di un parere sulla legittimità o meno della decisione arbitrale di sanzionare la sua squadra con il rigore rispose chiarendo il procedimento corretto di interpretazione delle regole sul campo: quando arbitro fischia quello è rigore. Il direttore di gara incorpora sia la previsione astratta sia la sanzione eventuale, il suo verdetto diventa per mera discrezionalità o anche per mero arbitrio la legge.
In fondo si tratta di una riscoperta del vecchio ordinamento imperiale romano, di una massima risalente a Domizio Ulpiano, libanese di Tiro: quod principis placuit legis habet vigorem (Digesto, I, 4, 1 pr.). Ovvero: quando il principe ha deciso quella è la legge. La discrezionalità un tempo riservata all’imperatore oggi viene esercitata da una legione di funzionari, pubblici o privati; si sono ben radicati nella vita sociale e nell’esistenza quotidiana al punto che nessuno mette più in discussione la loro funzione. Quando fischiano quella è una multa.
Non possiamo tuttavia ricondurre ad un generico fascismo questa ampia e generale cancellazione di un codice comprensibile dei diritti e dei divieti; si tratta di un fenomeno assai più complesso e variegato che caratterizza quasi tutte le moderne organizzazioni statuali, non solo in Italia. Il regime militare sudamericano o il nazismo tedesco si limitavano a decodificare i soli delitti politici, a criminalizzare gli oppositori o a punire lo sciopero; ma non hanno mai esteso l’incertezza sulla liceità o meno di un comportamento all’insieme dei rapporti sociali. Il codice civile ancora oggi in vigore risale al 1942 e reca la firma di Benito Mussolini. Nella legislazione sovietica venne elevata al rango di legge l’incertezza su ciò che si potesse o non si potesse fare, ma con una certa attenzione a circoscrivere la portata di questa scelta nell’ambito della repressione dei nemici della rivoluzione (articolo 58 del codice penale, 1927) o dei teppisti, gli huligani che violavano la morale socialista. Rielaborando l’esperienza zarista i giuristi sovietici portarono contributi originali; Iverskij affermò che dentro le leggi vi sono articoli che parlano e articoli che non parlano, il commissario alla giustizia Petr Ivanovic Stucka aggiunse che non tutto il diritto è espresso in legge. Il nodo fu individuato da Pasukanis: la sfera del dominio, che assume la forma del diritto soggettivo, è un fenomeno sociale che inerisce all’individuo allo stesso modo che il valore, anch’esso fenomeno sociale, viene ascritto alla cosa, prodotto del lavoro. Il feticismo della merce si completa con il feticismo giuridico. Dunque i rapporti sociali, secondo Pasukanis, tendono sempre ad assumere una formula duplice, enigmatica. A lato della proprietà mistica del valore compare qualche cosa di non meno enigmatico, il diritto. Il più cattivo di tutti, Vysinskij, il pubblico accusatore nei processi staliniani, dopo aver definito sia Stuka sia Pasukanis spie e sabotatori, giunse a conclusioni più drastiche: il diritto è un mezzo di controllo, si estinguerà quando gli uomini si saranno assuefatti al rispetto delle regole così da attuarle senza coazione. Probabilmente pensava: cioè mai!
Le vecchie regole erano quelle di una società fordista o di una società postcoloniale; si fondavano sul tempo e sul luogo, sulla religione e sulla gerarchia, sulla esatta indicazione dei diritti e dei doveri costruiti per una operosa esistenza delle masse operaie o contadine. Oggi la produzione di merci smaterializzate è alla base delle ricchezze più ingenti. Ci troviamo di fronte a un nuovo flusso, caratterizzato dall’inatteso, dalla continua innovazione. L’innovazione è organizzabile, ma non prevedibile. Non è neppure misurabile utilizzando le forme convenzionali di misurazione di cui dispongono le attuali strutture sindacali dei lavoratori, anche quelle più radicali. Questo torrente di innovazione è un torrente di lavoro vivo, che non perde la sua caratteristica solo perché non è misurabile con l’orologio del tempo convenzionale o per assenza di materialità. Il capitale incamera valore e al tempo stesso sottrae alla nostra vista il tesoro. Il vecchio padrone si cela nella piattaforma, non esiste neppure la possibilità di un incontro fisico fra Jeff Bezos e i corpi che utilizza in giro per il mondo. Eppure anche Jeff Bezos ha un corpo, una famiglia; in qualche luogo mangia e dorme.
Il corpo. Il corpo deve essere sempre disponibile, in casa, in bicicletta, sul furgone, in ufficio, per strada, collegato e raggiungibile. Il contratto fra piattaforma ed esistenza, fra merce immateriale e corpo non ha alcuna necessità di fissare i confini nei luoghi o nei tempi. Quale che sia l’assetto istituzionale in cui si articola, territorio per territorio, il dominio della nuova organizzazione capitalistica (sia essa teocratica, socialista, populista, liberale, democratica, autoritaria) esige, comunque, oggi, una generale delegificazione, una ampia decodificazione; l’attuale modo di produzione presuppone infatti la condizione precaria e si fonda sull’appropriazione dei frutti della cooperazione sociale. L’uso del precariato abbatte il tempo di lavoro tradizionale e stravolge ogni misurazione. Dunque l’unica regola possibile diventa l’assenza di regole; l’esproprio del sociale a sua volta si traduce inevitabilmente nella cancellazione di ogni tutela dei soggetti riuniti in comunità o singolarmente considerati. Prima era merce l’ora lavorativa, ora è merce l’intera esistenza e le merci non hanno diritti.
Ci troviamo davanti al rovesciamento dei presupposti stessi che caratterizzano il contratto di lavoro. Nell’epoca fordista l’operaio cedeva un segmento temporale (tempo di lavoro), ore astratte, merce/tempo immateriale che il capitalista acquisiva per usarla a proprio rischio in un luogo, contrattando prezzo e condizioni vincolanti, ovvero codificando conseguenti diritti di cui il venditore era titolare. Nell’epoca del capitalismo finanziarizzato le merci immateriali non hanno più necessità di un luogo preciso o tempo prefissato, ma richiedono invece l’esproprio della cooperazione sociale complessiva e la disponibilità delle esistenze precarie per intero; dunque l’esistenza diviene merce essa stessa, con implicita rinunzia del soggetto ad essere titolare di diritti, quasi una moderna forma giuridica di schiavitù nell’era informatica.
Giunge a conclusione un lungo tragitto giuridico, iniziato con Enghelbert d’Admont, il primo ad intuire che il Sacro Romano Impero si era avviato al tramonto; Baldo degli Ubaldi (1250-1331, conosciuto anche come Baldo da Perugia), allievo del celebre Bartolo da Sassoferrato, seppe elaborare strumenti tecnici in grado di arginare il potere assoluto, codificando diritti comunali e territoriali. A lui si deve, fra l’altro, il primo studio sulla cambiale. La codificazione dei diritti, e ovviamente delle pene, accompagnò sempre le rivendicazioni; erano le carte e non a caso i primi movimenti dei lavoratori si chiamarono cartisti in ragione delle petizioni sottoscritte che trainarono riforme elettorali prima, sociali poi.  La difesa pura e semplice del passato normativo fordista non ha un avvenire e si presenta quasi come un lamento luddista; lo scontro si è spostato ormai sul muro tecnico giuridico che il capitale va con diverse forme costruendo per impedire ai corpi del precariato di realizzare un diverso modo di vivere, per ambiente, produzione, distribuzione, uso del comune. La pandemia ha solo accelerato un processo già in atto. Non è il gallo che canta a determinare l’arrivo del mattino; non è il corona virus a produrre un ipotetico stato di eccezione. A ben vedere neppure si tratta di un vero e proprio stato di eccezione, almeno non in senso schmittiano. Al contrario: si tratta di una nuova normativa che prende il posto di quella precedente ormai desueta. Esistono invece molte varianti di un neo-autoritarismo che si consolida mediante la sistematica cancellazione istituzionale di ogni carta dei diritti. Si va delineando un moderno assolutismo in cui la piattaforma assume il ruolo del sovrano e i suoi caporali fungono da arbitri legibus soluti in un quadro giuridico contrassegnato da incertezza costante. Il capitale si è mosso rapidamente per trasformare la crisi in opportunità, e Jeff Bezos ha ulteriormente incrementato i profitti alla faccia della crisi, anzi dentro e grazie alla crisi. I dati sull’incremento della ricchezza e del fatturato di Amazon in costanza di pandemia sono impressionanti, ma prevedibili e previsti. Il precariato ha invece subito gli eventi. Questa è la differenza. Il resto non cale. Forse vale la pena di esaminare le ragioni di questa carenza di opposizione sociale; e la cancellazione del diritto non mi pare priva di rilevanza.
Thomas Hobbes, già nel 1640, ebbe ad osservare che tre sono gli elementi necessari per disporre gli animi alla sedizione contro l’ordine costituito: lo scontento, il pretesto di un diritto violato, la speranza di ottenere un risultato. La paura della povertà e il timore della pandemia può naturalmente determinare una sensazione di sofferenza che induce alla rivolta; ma in assenza di quel particolare convincimento che consiste nel ritenersi dalla parte del giusto prevale il timore delle sanzioni inflitte da chi detiene il potere, il rischio di essere incarcerati o espropriati della proprietà di un bene o anche soltanto multati. In ogni caso solo intravedendo una concreta possibilità di successo gli scontenti possono affrontare le altrettante possibili conseguenze di una sommossa. Senza questi tre elementi non vi può essere ribellione; quando invece compaiono tutti insieme non resta che dar fiato alla tromba (Elements of Law Natural and Politic, parte II, capitolo VIII; traduzione italiana di Arrigo Pacchi, Firenze, 1968, La Nuova Italia, pag. 238).
Il potere, in questo primo scorcio del XXI secolo, tende a cancellare le norme, o, meglio, a renderle così vaghe e generiche da risultare sostanzialmente incomprensibili; tocca al funzionario di polizia interpretarle e applicarle, la magistratura si limita ormai a confermare l’operato dei gendarmi. Un nostro giovane amico mi raccontò di essere stato multato da un vigile per aver passeggiato nel parco; lui aveva dato spiegazioni invocando una lettura della norma, ma il vigile non aveva sentito ragioni. Ricordate Boskov? Quando arbitro fischia quello è rigore. Il tema del cosiddetto negazionismo nulla ha a che vedere con questo passaggio dal diritto codificato al diritto delegificato, affidato all’interpretazione discrezionale dei funzionari.
Non esistono diritti certi, dunque non è possibile rivendicare giustizia o lamentare ingiustizia. Esistono solo formalità inutili, richieste dal moderno dispotismo con il solo scopo di affermare quotidianamente l’esercizio di un dominio cui è non solo vietato, ma anche impossibile sottrarsi. Astolphe de Custine aveva colto questa caratteristica della legislazione autoritaria nel momento stesso in cui era entrato in territorio russo: Je répète donc avec le seigneurs russes, que la Russie est le pays des formalités inutiles (Lettre huitième, 11 juillet 1839, au soir).
La libertà residua sopravvive solo nei pochissimi segmenti dell’esistenza individuale che il potere sovrano non è interessato ad acquisire o mettere comunque a valore; ma sono ritagli poco significativi. Pensate alla cassa integrazione. La richiede il datore di lavoro, non il lavoratore. E solo dopo un certo tempo il direttore provinciale di INPS dirà se e per quanto tempo è andata bene. Meglio di nulla, ovvio. Ma nessuna certezza. O pensate all’operaio che risulta positivo al sierologico (dunque deve uscire dall’azienda) ma rimane in attesa del tampone. Chi paga l’attesa? Non si sa, non lo si può sapere. Prevale in questo tempo un sentimento che viene efficacemente definito Trigger Warning, viviamo in una condizione di voluta e procurata incertezza; quale che sia la tua scelta in una determinata circostanza non è detto che sia la scelta giusta perché il verdetto spetta all’arbitro. Si crea dunque uno stato di ansia permanente, e questo produce profonde depressioni insieme a un senso di resa, di assenza di prospettive.
Con un decreto hanno delegificato il c.d. smart working, che poi neppure è esattamente tale. In realtà si tratta di innovazione, di lavoro telematico, di lavoro vivo sottratto a qualsiasi codificazione normativa e con molte zone d’ombra anche nella parte economica (indennità di mensa, straordinario ecc. ecc.). Il corpo del precariato messo a valore per l’intera esistenza si avvia a vivere in un tempo di totale incertezza codificata e si contrappone all’immaterialità del prodotto che il corpo è chiamato a realizzare; solo se il corpo rifiuta di essere merce può aprirsi la via di una nuova diversa codificazione dei diritti, finalmente rivendicati da un lavoro vivo capace di ricomporsi in classe. Ma per questo bisogna avere il coraggio di lasciarsi alle spalle i vecchi diritti fordisti e procedere invece alla elaborazione di quelli oggi necessari.
Rimane naturalmente la libertà di ribellarsi, e questa per sua stessa natura sfugge a qualsiasi codificazione: si trasforma in ordine nuovo quando la rivolta è accompagnata dal successo, produce la sanzione punitiva quando prevale la struttura di comando. La rimozione di ogni fondamento giuridico che possa legittimare i desideri originati dal malcontento rende difficile la sedizione e oggi prevale piuttosto la paura. Ma basta un niente perché una protesta venga affissa sul portone di Wittenberg e tutto cambi di nuovo.

L’immagine è di di Anemone123 da Pixabay

CODIFICAZIONE DELL’INCERTEZZA Leggi tutto »

Premio InediTO

2023

il PREMIO INEDITO COLLINE DI TORINO è alla sua ventiduesima presentazione.
Il concorso letterario talent scout, punto di riferimento in Italia, è dedicato alle opere inedite in lingua italiana e a tema libero, ed è l’unico a rivolgersi a tutte le forme di scrittura: poesianarrativasaggisticateatrocinema e musica.
Possono partecipare autori già affermati o esordienti, di ogni età e nazionalità. Il premio, organizzato dall’associazione culturale Il Camaleonte di Chieri (TO) e diretto dallo scrittore Valerio Vigliaturo.
Il Comitato di Lettura è presieduto dal poeta Valentino Fossati, la Giuria dalla scrittrice Margherita Oggero, e ne fanno parte: Milo De Angelis, Mia LecomtePiersandro PallaviciniUbah Cristina Ali FarahAndrea Donaera, Giulia MuscatelliFederico Vercellone, Susanna MatiRoberto Latini, Lisa Ferlazzo NatoliLaura Muscardin, Marco BoniniFausto (Coma Cose) e dai vincitori della passata edizione.
Il Premio sostiene e accompagna i vincitori delle varie sezioni, senza abbandonarli al loro destino, verso il mondo dell’editoria e dello spettacolo, attraverso il montepremi di 8.000 euro destinato alla pubblicazione, promozione e produzione delle opere, e i premi speciali “InediTO Young” destinato agli autori minorenni e “InediTO RitrovaTO” a un’opera inedita di uno scrittore non vivente (conferito nelle passate edizioni a Primo Levi, Alfonso Gatto, Italo Svevo e Alessandro Manzoni).

Per il bando consultare il sito: www.premioinedito.itinfo@premioinedito.it
LEARN MORE – 3336063633

STAFF COMUNICAZIONE PREMIO INEDITO COLLINE TORINESI
eventistampa@gmail.com
cell 3334309709

La scadenza del bando Premio InediTO – Colline di Torino – 22° edizione è stata prorogata al 4 febbraio 2023

Premio InediTO Leggi tutto »