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Piersanti Mattarella e Aldo Moro: scomodi per tanti

di Giuseppe Salamone

Poi quando racconti queste cose, esce il classico genio che ti dice che sei antiamericano, ossessionato dalla Nato e che quindi devi filare via in Russia ed in Cina.
E quando leggo che le risposte sono queste, non ottengo altro che conferme su ciò che scrivo e che quindi non potendole smentire nel merito, cercano di buttarla in caciara.
Il 6 gennaio del 1980 veniva ammazzato Piersanti Mattarella. Era candidato alla segreteria della democrazia Cristiana; ma la cosa più importante sta nel fatto che condivideva la linea di Aldo Moro per quanto riguarda il compromesso storico.
Quella linea prevedeva di portare al governo il Partito Comunista Italiano, e tutto ciò non andava giù ai padroni a stelle e strisce i quali temevano che con il PCI al governo, molti dei loro desiderata sarebbero potuti rimanere inattesi. In sostanza, per farla breve, gli USA vedevano il PCI come un ostacolo e quindi un pericolo per i loro sporchi affari.
La moglie di Piersanti, Irma Chiazzese, ha riconosciuto Giuseppe Valerio Fioravanti come l’assassino di suo marito e lo ha anche testimoniato in tribunale.
Fioravanti è anche tra gli esecutori della strage di Bologna, assieme a Mambro, Cavallini, Ciavardini e Paolo Bellini, il quale nel 92 partecipò anche ad una riunione ad Enna dove si decise l’attentato a Falcone.
Scavando tra le varie testimonianze e sentenze che riguardano il periodo delle stragi italiane, si può tranquillamente ricostruire la piramide che mise in atto la più grande azione di destabilizzazione dello Stato Italiano.
In basso ci stavano la mafia ed i terroristi legati a movimenti fascisti di estrema destra. Questi esecutori erano “protetti” e finanziati dalla P2 di Licio Gelli che a sua volta aveva dietro la CIA e la NATO.
Girando e rigirando, la verità va a schiantarsi sempre allo stesso punto, ed è per questo che fino ad oggi, queste stragi continuano a rimanere impunite e prive di verità “ufficiali”. E continuano a rimanere impunite anche perché testimonianze come la moglie di Piersanti Mattarella, diventano inattendibili. Una roba incredibile!
Siamo veramente una Repubblica delle banane, e nonostante tutto quello che è successo alla nostra martoriata Repubblica, ad oggi siamo costretti a veder ricevere al Quirinale gente che ha fondato un partito assieme a cosa nostra e a sorbirci Presidenti della Repubblica che rivendicano con orgoglio un Atlantismo compulsivo che da sempre attenta allo Stato italiano, miete vittime, ci nega la verità e gli si consente financo di depistare le proprie malefatte.
Sarà un giorno migliore in Italia quando da Washington non potranno più permettersi di imporci cosa possiamo e non possiamo fare. Questa è una conclusione che si basa sui fatti storici, e non sulla propaganda Hollywoodiana che ha annebbiato milioni di cervelli Italiani. Quel giorno sarà un altro 25 Aprile per noi… Yankee go home!

L’articolo è stato pubblicato su Osservatorio della legalità e dei diritti il 6 gennaio 2023

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SPORGENDOSI OLTRE L’ORLO DELL’ABISSO

Ho avuto il piacere di conoscere Vincenzo Calò Di Coste in occasione della pubblicazione della sua ultima raccolta poetica “La Sicurezza e Il pensiero cardiopatico”, edita da Bertoni Editore nella collana Aurora curata da Bruno Mohorovich. Per questo volume ho scritto la prefazione. Ieri Vincenzo avrebbe compiuto 40 anni, è venuto a mancare agli inizi del mese di ottobre di quest’anno (2022). Ci eravamo tenuti in contatto anche dopo la pubblicazione del suo volume, scambiandoci considerazioni sul nostro comune interesse per la poesia. Vorrei ricordarlo pubblicando il testo della prefazione alla sua raccolta di testi poetici fuori da ogni schema e da ogni convenzione. Ci mancherà come ci mancheranno le sue poesie innovative e dirompenti.

UNA PREFAZIONE

di Sergio Tardetti

Entri senza bussare né chiedere permesso nelle poesie di Vincenzo Calò e ti ritrovi, a un tratto, sull’orlo dell’abisso oscuro e insondabile dell’infinito spazio-temporale. La vertigine che ti assale a una prima lettura è talmente forte che vorresti allontanarti da lì, distogliere il pensiero che si è già impaniato in quei suoni, in quelle parole, in quelle frasi e in quei versi e riportarlo alla materialità quotidiana che circonda, abbraccia e rassicura.
Un’operazione apparentemente possibile e persino elementare, ma che incontra una qualche resistenza ad essere compiuta e completata, in virtù del fatto che ormai quelle poesie ti sono penetrate nel profondo della mente, ma soprattutto si sono insediate stabilmente nella psiche, e sollecitano a viva voce la tua presenza, per una seconda e più determinata lettura, almeno quanto la prima era stata decisamente cauta e frenata.
Torni così ad immergerti di nuovo tra quei versi, teso e concentrato nello sforzo di capire, anche se sai perfettamente da sempre che la poesia, quella che chiede e pretende di essere tale, non la si “capisce”, quanto piuttosto la si “comprende”. E non è certo una futile questione di semantica, un tentativo come un altro per prendere tempo, in attesa di venire folgorati sulla via di Damasco da una improvvisa illuminazione. Capire è un’azione della mente, un’operazione razionale; comprendere attiene più alla psiche, la parte istintiva e irrazionale di noi stessi. “Capire” è in un certo modo un accettare o un rifiutare tutto quello che è conforme o difforme rispetto alla nostra più intima natura razionale. “Comprendere” è, invece, un modo di includere nella propria anima quello che soltanto fino a un istante prima era rimasto fuori, in quanto sconosciuto, per la qual cosa è necessario attivare una modalità empatica di porsi in relazione con l’esistenza e l’esistente.
Se questo vale per la poesia in generale, a maggior ragione vale per quella di Vincenzo Calò, per la quale l’ispirazione sembra scaturire direttamente da situazioni oniriche indotte e/o autoindotte. Niente, dunque, di tutto quello che noi, lettori modicamente acculturati, abbiamo immaginato che fosse fino ad ora poesia, un antico retaggio derivante dalla frequentazione delle aule scolastiche, in giornate fatte di versi da parafrasare e mandare a memoria, perché questo chiedeva il docente di turno. Versi, peraltro, scolpiti in maniera talmente indelebile nei ricordi di ciascuno, che di tanto in tanto affiorano alla mente in funzione consolatoria o come aiuto per prendere sonno più facilmente in certe notti particolarmente difficili.
Dico questo, non certo per stigmatizzare comportamenti del tutto legittimi, derivanti dalla più o meno sollecita frequentazione delle aule scolastiche, che hanno generalmente contribuito a creare una identità sistematica della poesia, quella, appunto, appresa sui banchi di scuola, che ne consente una facile e immediata certificazione. Si tratta piuttosto di operare un confronto – o un riscontro, a seconda dei casi – fra l’appreso e quello che è rimasto escluso dall’apprendimento scolastico. Ogni scelta, ogni decisione, del resto, include elementi conformi a quella scelta, e ne esclude altri difformi. Come afferma l’autore nella poesia che dà il titolo alla prima raccolta “La sicurezza”, “Evidenziato un blocco cognitivo, si tenta di agire fuori dal normale”.
La poesia contemporanea, come quella di Vincenzo Calò, non è poesia per lettori pigri e assuefatti alla banale assimilazione di contenuti e alla ancora più banale memorizzazione di interi brani, con la complicità di ritmi orecchiabili e rime che addolciscono la potenziale cacofonia di certi componimenti. La poesia contemporanea, come quella di Vincenzo Calò, richiede, anzi pretende, il contributo attivo del lettore, chiamandolo a decrittare sensi possibili collegati e derivanti dalla sua sensibilità artistico/(ri)creativa. Accade così che, scaturita da un’attività di libera creazione, la poesia si ricrea nella mente e nelle multiformi interpretazioni del lettore, di ogni lettore di qualunque epoca, venendo ad assumere nuovi significati, capaci di trascendere il significante e amplificando quelli già presenti e suggeriti dalla suggestione degli insoliti e irrisolvibili accostamenti verbali.
L’operazione poetica realizzata da Calò rinvia ad illustri precedenti di autori del principio del secolo scorso, esponenti della corrente artistico/letteraria del Surrealismo. E fino a qui, niente di nuovo, si direbbe, se non fosse che l’autore spinge agli estremi l’operazione di accostamento di termini che si legano fra loro soltanto in situazioni oniriche e che, al contrario, nella realtà non trovano riferimenti fisici né concettuali. È proprio in questo andare oltre i limiti già sperimentati che consiste la novità delle composizioni di queste due sillogi, “Il pensiero cardiopatico” e “La sicurezza”, contraddistinte da una assoluta e perfetta omogeneità di stile, frutto di un’operazione che definire “tecnica” è decisamente riduttivo, e che potrebbe riassumersi in questa affermazione: “…il vocabolario della lingua italiana si apre da sé”. (Da L’indice alzato nella silloge “Il pensiero cardiopatico”)
Nel corso dell’accostamento alle composizioni, si avverte inizialmente un effetto di straniamento, nello sforzo di penetrare nel guscio dei versi, sforzo che nasce dalla sensazione quasi di attraversare una compatta distesa di roccia impermeabile e inaccessibile. Da una successiva rilettura ecco però trasparire il senso, quello che credevamo smarrito o perfino assente; appare, a questo punto, una poesia fatta di stratificazioni che vanno mentalmente rimosse, una ad una, per poter arrivare al nucleo ultimo, quel senso che ogni componimento racchiude e che è già accennato e suggerito a partire dal titolo. Si assiste a una completa decostruzione della realtà, che scompagina i rapporti tra gli oggetti e le parole, così come si mostrano nella nostra esperienza sensibile. Ne risulta per il lettore una sorta di rebus da risolvere, o di puzzle da ricomporre, il cui esito finale è la creazione di una nuova realtà, di una origine che non è azzardato definire psichedelica.
Una poesia, quella contenuta in questa silloge, che non si preoccupa di avere come riferimenti il bello e il buono, l’estetica e la morale correnti, ma che, invece, si pone il compito arduo e gravoso di anticipare gli elementi culturali di un futuro ancora tutto da disvelare e immaginare, del quale chi scrive si rende consapevole precursore. Il poeta non si fa condizionare e ipnotizzare dallo spirito dei suoi tempi, vacui e freddi, crea, piuttosto, uno spirito nuovo per tempi nuovi.
L’obiettivo finale, come afferma André Breton, nume e stella della poesia surrealista, resta sempre lo stesso: “La stretta poetica come la stretta carnale/ Finché dura/ Impedisce le prospettive di miseria del mondo”.

Vincenzo CalòLA SICUREZZA E IL PENSIERO CARDIOPATICO. Bertoni Editore, 2020

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LA RETORICA DELLE PICCOLE COSE

di Sergio Tardetti

Bisogna dare valore alle piccole cose, una frase che mi capita di sentire di tanto in tanto, soprattutto da parte di persone che, come dicono loro, “hanno capito”. Cosa abbiano capito, poi, certo non vengono a dirlo a me, e in generale a noi che non abbiamo capito, è un segreto che conservano chiuso a doppia mandata nella cassaforte della loro anima. Ci piacerebbe tanto conoscere cosa hanno capito, e soprattutto, quali sono le piccole cose alle quali dovremmo dare valore, operazione decisamente ostacolata dallo strettissimo riserbo nel quale si chiudono queste persone, una volta interrogate in proposito. Alla fine di lunghi ed estenuanti tentativi per carpire il segreto, ci troviamo costretti ad arrenderci e a porre l’unica domanda possibile: “Ma se nessuno ci dice quali sono queste piccole cose, come facciamo a capire?”. Al che i propugnatori delle piccole cose alzano le spalle, come a voler significare: fatti vostri. Così, incuriositi e soprattutto pronti a raccogliere quella che consideriamo una sfida, cominciamo a guardarci intorno, a chiedere con finta noncuranza a chi potrebbe conoscere la risposta, per arrivare quanto prima a farci un’idea, una qualunque, perfino piuttosto limitata, ma accettabile, di quali siano le piccole cose di cui vanno favoleggiando coloro che “hanno capito”.
Perché, è inutile nasconderlo, anche noi vorremmo fare parte, prima o poi – ma sempre meglio prima – del novero di quelli che “hanno capito”. Sentirsi esclusi da qualcosa, qualunque cosa, è uno dei principali crucci – meglio, tormenti – dell’animo umano, perché costringe sempre ciascuno a rivolgersi la domanda inquietante: a me, cosa manca? Perché no? Da qui in avanti partono le domande, aumentano i tormenti – ormai non più crucci – e la vita finisce per diventare un vero e proprio inferno. Notti intere trascorse ad occhi spalancati, distesi al buio sul letto, a fissare il soffitto, sperando forse di leggere la risposta, almeno una, alle nostre tante domande in qualche segno visibile anche al buio, forse una leggera macchia di umidità sull’intonaco. E così, la notte trascorre inutilmente e la risposta tarda ad arrivare, per notti e notti di seguito. Di giorno, per fortuna, si è talmente travolti dagli eventi quotidiani da non avere tempo di porsi la fatidica e dolorosa domanda. Di notte, poi, tornando a fissare il soffitto, notiamo che la leggera macchia di umidità si è allargata e si è fatta più evidente, anche se non contiene ancora la risposta; forse, continuando a pazientare e ad attendere, prima o poi, la risposta apparirà in tutta la sua sfolgorante evidenza.
E poi, un giorno, stanco di inseguire le “piccole cose”, il cui significato continua decisamente a sfuggirti, decidi che non ne vale più la pena, meglio dedicare il tuo tempo ad attività più interessanti e più gratificanti. Ed è così, abbandonando il tuo inseguimento, che arrivi a qualche utile considerazione, capace di farti riprendere il filo del discorso con te stesso interrotto ormai da troppo tempo. Probabilmente, ragioni, l’equivoco nasce dal fatto che non ci sono piccole cose e grandi cose, ma ci sono semplicemente cose. Il valore che diamo alle cose e la dimensione che finiamo per attribuire loro sono del tutto relativi, ciò che è piccolo per te potrebbe essere grande per me, e viceversa. Così, confortati da questa decisiva e rassicurante scoperta, riprendiamo il consueto cammino, smettendo di interrogarci, salvo poi trovare un altro argomento capace di suscitare in noi nuove e più stringenti domande. Perché è così che procede, o almeno dovrebbe procedere, la vita.

© Sergio Tardetti 2022

Foto di Alexa da Pixabay

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Il diritto che aiuta contro la guerra al soccorso in mare 

Louise Michel

di Lucia Gennari

Quando parliamo di solidarietà in mare e delle attività della “civil fleet”, di soccorso e testimonianza/documentazione nel Mediterraneo centrale, parliamo di attività che si svolgono in uno spazio giuridicamente molto denso, dove le norme di diritto internazionale del mare e dei diritti umani si sovrappongono (e scontrano), con la disciplina degli stati costieri sul controllo delle frontiere e dove la libertà di movimento si scontra con le pratiche con cui i governi europei si propongono di contrastare la mobilità e le azioni solidali con chi la esercita.

Circa un mese fa, alla presenza di quattro navi di diverse ONG battenti bandiera tedesca e norvegese che dovevano sbarcare le persone soccorse in Sicilia, il governo Meloni ha risposto con la retorica dei porti chiusi e ha cercato allo stesso tempo di scansare la responsabilità dei ministeri coinvolti consentendo lo sbarco delle persone ritenute “vulnerabili”, negando l’evidente circostanza per cui tutti i migranti soccorsi sono prima di tutto dei “naufraghi”. Il governo pretendeva inoltre la presa in carico delle richieste di asilo delle persone soccorse da parte degli stati di bandiera delle navi soccorritrici, sulla base di una discutibile interpretazione del principio di diritto internazionale per cui in acque internazionali lo stato di bandiera esercita la giurisdizione sulle proprie navi.

Una sintesi di alcune norme e principi che si applicano nelle situazioni di soccorso in mare può essere utile per leggere quanto accaduto e quanto potenzialmente accadrà nei prossimi mesi.

Partiamo dall’art. 98 dell’UNCLOS, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. Questo stabilisce un obbligo in capo agli stati per il quale questi devono pretendere dai comandanti di navi battenti la propria bandiera che prestino assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare. L’unico limite a questo obbligo sta nella possibilità di prestare assistenza senza mettere a repentaglio la sicurezza della nave soccorritrice e del suo equipaggio. In modo simile la Convenzione sulla salvaguardia della vita in mare (SOLAS) prevede che “il comandante di una nave in mare che sia in grado di prestare assistenza quando riceve da qualsiasi fonte l’informazione che delle persone sono in pericolo in mare, è tenuto a procedere con la massima celerità all’assistenza di tali persone, se possibile informandole o informando il servizio di ricerca e soccorso che la nave sta procedendo in tal senso. L’obbligo di prestare assistenza si applica indipendentemente dalla nazionalità o dallo status di tali persone o dalle circostanze in cui si trovano”. Ciò significa che né lo status giuridico né il motivo per cui una persona si trova in difficoltà in mare possono costituire un motivo per evitare o ritardare l’assistenza. Anche la legge italiana è molto chiara per quanto riguarda il dovere del comandante di fornire assistenza in mare e punisce il comandante di una nave che omette di prestare assistenza o non tenta il salvataggio. Gli stati poi, sulla base della Convenzione SAR, la Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare firmata ad Amburgo del 1979, sono tenuti a predisporre sistemi amministrativi e logistici in grado di coordinare e facilitare le operazioni di soccorso. Per questo sono istituiti i centri di coordinamento del soccorso marittimo e i cd “Piani SAR”, per questo le acque internazionali sono state suddivise in “regioni di ricerca e soccorso” facenti capo ai diversi stati costieri. Quindi all’obbligo dei comandanti di intervenire in mare corrisponde l’obbligo degli stati costieri di facilitare e coordinare l’intervento delle navi, statali o private, che adempiono a tale obbligo.

Il diritto internazionale del mare prevede norme chiare in merito allo sbarco delle persone soccorse: le operazioni di soccorso possono considerarsi concluse solo con lo sbarco in un luogo “sicuro” (il famoso POS o place of safety).  Le convenzioni non forniscono una definizione rigida di questo concetto, che deve essere declinato secondo le circostanze del caso concreto. Quando si tratta di indicare un luogo sicuro per lo sbarco di persone in fuga dal proprio Paese o da situazioni di pericolo (come quella libica), o quando si incarica un Paese terzo di intervenire in mare, gli stati devono prendere in considerazione le conseguenze di queste azioni e le possibili violazioni dei diritti umani che le persone soccorse potrebbero subire a causa di tali azioni (o omissioni). Gli stati membri dell’UE sono infatti vincolati al principio di non respingimento, che è un principio generale del diritto internazionale, previsto anche in diverse convenzioni e trattati (v. art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 e artt. 2, 3 e 4 prot. 4 della CEDU) che obbligano gli Stati a evitare l’espulsione o il respingimento verso paesi in cui la vita o la libertà delle persone respinte sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle opinioni politiche. Inoltre, gli Stati non possono legalmente negare l’ingresso di una persona nel loro territorio quando questo comportamento può comportare il rischio di subire torture o trattamenti degradanti e inumani o il successivo rimpatrio in un Paese in cui si potesse configurare questo rischio.

Nonostante i ripetuti tentativi dei governi italiani di sostenere il contrario, la Cassazione nel famoso caso di Carola Rackete ha messo in chiaro che la nave soccorritrice non può mai essere confusa con il “POS” di cui parla il diritto internazionale. Lo stesso principio è chiarito anche dalle Linee guida IMO (International Maritime Organization, di cui l’Italia è parte) sul trattamento delle persone soccorse in mare. Per questo motivo la presenza dei naufraghi a bordo della nave soccorritrice non fa venire meno il dovere in capo agli stati di sollevare i comandanti della loro responsabilità nel più breve tempo possibile e garantire lo sbarco in condizioni di sicurezza. Lo stesso diritto europeo fa esplicito riferimento alla necessità di dare contemporanea applicazione alle norme di diritto del mare e dei diritti umani quando nel regolamento sul controllo della frontiera marittima (656/2014/UE) include la tutela dei diritti fondamentali fra i requisiti del “POS” e laddove nel codice delle frontiere Schengen subordina le attività di controllo della frontiera ai diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo (v. Art. 3).

È per queste ragioni che riteniamo, insieme a una giurisprudenza ormai pacifica, che lo sbarco in Libia e la consegna dei naufraghi alle autorità libiche costituiscano atti contrari alle norme di diritto internazionale e interno. Lo stesso ragionamento vale per ogni forma di facilitazione del respingimento in Libia o in altri paesi del nord Africa.

Per tornare allo scorso ottobre e alla “guerra” al soccorso in mare, osserviamo che i ministri del governo Meloni hanno dato applicazione a norme interne e in particolare all’art. 1 co. 2 del “decreto Lamorgese”, che consente l’emanazione di decreti interministeriali volti a impedire il transito o la sosta delle navi il cui passaggio venga considerato “offensivo”, con un richiamo alla convenzione UNCLOS che consente alcune eccezioni al principio di libertà della navigazione nelle acque territoriali. Questa norma costituisce un residuo di quanto previsto dal decreto sicurezza-bis voluto da Salvini nel 2019, che invece di essere completamente abrogato dal governo Conte II, è stato semplicemente “riformato”. È stata infatti introdotta un’eccezione all’applicazione del divieto di transito o sosta nelle acque nazionali quando si tratti di operazioni di soccorso, ma solo quando queste siano state comunicate alle “autorità competenti” (per es. quelle libiche se il soccorso avviene nella zona SAR di loro competenza) e quando la nave abbia rispettato le istruzioni di tali autorità.

Il ministro Piantedosi ha per questo sostenuto pubblicamente e in modo ripetuto che le navi ONG avevano effettuato soccorsi senza allertare le competenti autorità e “in completa autonomia”. La prima affermazione è falsa, dato che tutti gli stati costieri vengono costantemente allertati della posizione e delle intenzioni di tutte le navi della “civil fleet”; la seconda è vera, ma deve essere letta alla luce del fatto che sono gli stati che affacciano sulla rotta del Mediterraneo centrale a rifiutarsi sistematicamente di coordinare le operazioni di soccorso, contribuendo così al respingimento e al naufragio di molti migranti, ormai da anni.

Ci sono almeno due profili di novità nel modo in cui il nuovo governo ha gestito comunicativamente e da un punto di vista giuridico la sua battaglia contro le ONG: il tentativo di costringere i naufraghi a presentare delle domande di asilo a bordo della nave soccorritrice, sfruttando il principio della giurisdizione dello stato di bandiera per ottenere il loro immediato trasferimento in Norvegia o in Germania, e l’introduzione del fantasioso concetto di “sbarco selettivo”, con l’annesso riferimento al “carico residuale”, come sono state chiamate le persone che in un primo momento non erano state considerate abbastanza “vulnerabili” per lo sbarco.

Sulla domanda di asilo a bordo delle navi la questione è spesso mal posta. È vero che il comandante è tenuto, anche sulla base delle Linee guida IMO a identificare le persone che ha a bordo e a raccogliere informazioni quali la nazionalità o anche, laddove richiesto dalle persone soccorse, la volontà di chiedere protezione. Al contrario non troviamo alcun obbligo in capo al comandante di chiedere ai naufraghi le loro intenzioni o trasmetterle allo stato di bandiera quando il soccorso non si è ancora concluso anche perché, in questa fase, riteniamo prevalgano le necessità SAR sulla determinazione dello status giuridico delle persone a bordo. Al contrario le direttive europee stabiliscono che sono gli stati, nel nostro caso l’Italia in quanto luogo di sbarco dei naufraghi, ad essere tenuti a fornire informazioni in tema di asilo e conseguenze dell’ingresso senza visto e a loro corrispondono precisi obblighi laddove le persone manifestino la loro volontà di chiedere asilo. Anche da un punto di vista pratico, fornire queste informazioni e garantire i diritti dei richiedenti asilo non sono attività che possono essere svolte a bordo di una nave di soccorso, da attori non statali.

Infine, per quanto riguarda il secondo aspetto abbiamo visto come chiunque abbia diritto ad essere soccorso, a prescindere dal proprio status giuridico e senza distinzioni di alcun tipo. Le condizioni di salute non costituiscono mai, nella corrente cornice di diritto interno e internazionale, una ragione di discriminazione nell’esercizio del diritto ad essere soccorsi (e quindi a sbarcare in un luogo sicuro). Peraltro, volendo utilizzare la lente della “vulnerabilità” non si può che affermare che questa sia una condizione che accomuna tutte le persone scampate a un naufragio e sopravvissute alla Libia. È per questo motivo che tutti i naufraghi sono potuti sbarcare a seguito dell’accertamento svolto dalle autorità sanitarie del porto di Catania.

Il governo si trova quindi in una posizione complessa dal punto di vista giuridico visto che tanto le pratiche messe in campo finora quanto le nuove norme prodotte soffrono della costante tensione con principi sovraordinati che certo non possono essere gratuitamente schiacciati per rispondere all’interesse degli stati al controllo della frontiera. Si tratta di una contraddizione che lascia aperti molti spazi di intervento anche giuridico per l’affermazione delle responsabilità degli stati per le violazioni commesse e per garantire il concreto esercizio della libertà di movimento.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 12 dicembre 2022

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