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Inviata richiesta al Ministero per tutelare l’Ortazzo dichiarandolo Riserva Naturale

Foce del Bevano


di Pressenza – Redazione Italia

Non si ferma l’impegno delle associazioni per la tutela del più prezioso sito del Delta del Po Emilia-Romagna, il comprensorio Ortazzo-Ortazzino a Ravenna. Dopo aver richiesto parere ad ISPRA, che ha confermato la necessità di una tutela rigorosa e le preoccupazioni per i possibili mutamenti all’area naturale che da 50 anni ha potuto evolvere indisturbata dopo la sventata cementificazione che l’avrebbe stravolta per sempre, si registra il positivo passaggio in Consiglio Comunale del 12 dicembre. All’unanimità dei votanti, su proposta del gruppo consiliare Lista Per Ravenna ed emendamenti della maggioranza, è stata richiesta al Parco del Delta del Po ed alla Regione la riclassificazione dell’area “C” a minor tutela, in area “B”.

Ma non basta: in accordo con quanto espresso da ISPRA, una folta rappresentanza di associazioni (WWF Ravenna, ENPA, FAI delegazione di Ravenna, Federazione Nazionale Pro Natura, L’Arca, Legambiente Emilia-Romagna; LIPU, OIPA, UBN – Unione Bolognese Naturalisti, insieme ad Italia Nostra che ha curato la presentazione dell’istanza), ha inviato al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, in conoscenza il Comando generale del Raggruppamento Carabinieri Biodiversità – gestore delle Riserve Naturali italiane e co-gestore dell’area Ortazzo-Ortazzino – la richiesta di istituzione di una Riserva Naturale dello Stato.

L’area possiede i requisiti richiesti ai sensi dell’art.2 comma 3 della legge 394/91 per poter essere designata quale Riserva Naturale Statale in quanto risultano presenti numerosi habitat di interesse comunitario elencati in All.1 della Direttiva 92/43/CEE, di cui almeno 5 prioritari (1150*, 2130*, 2250*, 2270*, 6210*)”. Questo l’autorevole parere di ISPRA, a cui le associazioni aggiungono: “Le contigue Riserve Naturali Statali “Pineta di Ravenna” e “Duna costiera ravennate e foce del torrente Bevano” sono sottoposte rispettivamente a subsidenza, possibile ingressione marina, salinizzazione e rischio incendi la prima, erosione, eustatismo, subsidenza, perdita del cordone dunale (con effetti vistosi misurabili di anno in anno), fortissimo depauperamento degli habitat, pressione antropica elevata, ecc. la seconda, motivo per cui il territorio a monte di dette riserve, la cui preziosità ambientale è fuor di dubbio, può configurarsi in una sorta di “serbatoio di scorta” di biodiversità, nonché di “cuscinetto” nei confronti della pressione antropica da mare e da terra e nei confronti dei mutamenti dovuti ai cambiamenti climatici; da preservare ed accrescere, e non certo da alterare, invadere (in modo più o meno ipoteticamente “sostenibile”) o mettere a reddito. L’obiettivo è dunque quello di preservare un unicum ambientale/territoriale/paesaggistico di assoluto valore naturalistico e culturale, che dalla linea di spiaggia sul mare Adriatico all’Ortazzo e Ortazzino andrebbe a lambire il confine Ovest della millenaria Pineta di Classe, formando in questo modo una Riserva Naturale Statale vasta, ricchissima e notevolmente rafforzata rispetto allo scenario attuale”.

Con queste motivazioni, dunque, continua l’impegno per garantire il massimo grado di tutela ad un patrimonio ambientale di valore europeo che Ravenna ha il dovere di proteggere e preservare per il futuro.

Si attende fiduciosi il riscontro del Ministero.

Antonella Caroli
Presidente nazionale Italia Nostra

Francesca Santarella
Italia Nostra Ravenna

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 29 dicembre 2023
La Foto è di Francesca Santarella

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Maratona letteraria

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I TRENI DELLA VITA

Recensione del libro “LE CAREZZE DEI LAMPI” di Fabio Mongardi

di Sergio Tardetti

Ammetto sinceramente – e confesso – che l’ultimo romanzo di Fabio Mongardi, “Le carezze dei lampi”, mi ha dato molto da riflettere, a cominciare dal titolo. Per l’intero volume ho rincorso l’indizio/ chiave di lettura celato in quel titolo, sperando in una sua incarnazione in una scena, in un avvenimento, in un dialogo, in un personaggio che ne rivelasse l’essenza reale. L’ho rincorso avendo trascurato, per mia distrazione, il fatto che l’enigma si era praticamente chiarito da sé fin dalle prime pagine, con quel riferimento in esergo ai versi di Isacco Turina, la cui citazione, nelle intenzioni dell’autore, voleva essere un suggerimento che indirizzasse verso la comprensione del titolo, e che, di fatto, ha acceso una luce soltanto a lettura avanzata. Dimostrazione questa che, ancora una volta, il lettore va in cerca di qualcosa che si nasconde proprio davanti ai suoi occhi.
Parole del titolo che poi rinviano ad un avvenimento non secondario, che coinvolge due dei protagonisti del romanzo. E qui mi fermerei, per evitare di rivelare eccessivi dettagli della trama e dei personaggi, ma proseguirei piuttosto con considerazioni che sono emerse nel corso della lettura. Una lettura – posso affermarlo senza tema di smentita – che scorre via continua e fluida, non senza lasciare profonde tracce di sé sotto forma di sensazioni e di impressioni, che risultano così note (vorrei dire comuni) a quanti, come me, sono cresciuti e continuano a vivere in un contesto di provincia. L’immagine che mi ha accompagnato per tutto il corso della lettura è stata quella del treno che apre la storia e che poi ne determina lo sviluppo. Da lì a trasformare quell’immagine in metafora dell’esistenza il passo è stato breve, complice un’espressione francese, train de vie, “stile di vita”, che mi è tornata in mente seguendo qualche percorso contorto e accidentato della memoria. Da qui a ricondurla agli accadimenti di una comune esistenza il passo è stato breve.
Così sono le vite di provincia, inquiete nel profondo e fintamente serene di fuori, quella provincia avvertita a volte come ambiente del quale si è prigionieri, ridotti in catene dalle convenzioni di rapporti instaurati nel corso di intere esistenze. Una provincia apparentemente perdente nel confronto con la megalopoli, luogo di sfrenate libertà, dove nessuno ti giudica per quello che sei né per quello che fai, ma in cui ciascuno si tiene a distanza dalle vite di chi l’abita, senza nemmeno tentare di avvertirne lo scorrere sulla pelle. La megalopoli spesso dura e ostile, corazzata contro ogni vizio ma anche contro ogni virtù, indifferente al bene così come al male. Si pensa, invece, alla provincia come a una miriade di piccoli e piccolissimi borghi, dove tutti si conoscono e ognuno sa tutto – o almeno immagina di sapere tutto – di tutti gli altri, dove l’osservanza della regola è elogiata e l’eccezione è considerata devianza dagli schemi sociali imposti da secolari tradizioni e comportamenti. Ed è così che viene chiesto, spesso anche preteso, dalle vite di provincia il rispetto di questi vincoli, dai quali non consentito deviare se non “deragliando”, uscendo cioè dai binari della norma. Tenendo costantemente presente che ci sono sempre, comunque e ovunque, prezzi da pagare per il proprio “train de vie”.
I treni della vita sono quelli che, a volte, decidiamo di prendere, altre volte, invece, di perdere, per libera scelta, per distrazione o perché semplicemente li ignoriamo. Sono treni che, una volta presi, portano un po’ ovunque, a volte ci travolgono, più spesso ci limitiamo a guardarli passare, mentre altri personaggi ne scendono e salgono di continuo. Accade ad ogni esistenza, in ogni luogo. L’incidente rimane in ogni caso l’evento traumatico che cambia vite e destini, quello che fa deragliare il treno, lo fa uscire dai binari della quotidianità e delle abitudini. Le vite subiscono in questo modo uno scossone violento, alcune diventano incontrollabili e irrecuperabili, perché ognuno è legato a tutti gli altri, che lo desideri o no. Complice del “deragliamento” diventa anche la distrazione di chi “guida” questo treno, ma che poi, alla fine, può fare ben poco per evitare l’evento traumatico che costringe a ripensare le vite di molti e a modificarne il percorso attuando nuove scelte e nuove decisioni. “Le carezze dei lampi” è un romanzo “corale”, in cui ogni personaggio è, in qualche modo, oltre che protagonista della propria vicenda personale, anche di quella collettiva, passeggero volontario o involontario, consapevole o meno, di quel treno che sconvolge il piccolo mondo in cui si sviluppa la storia.
Chiudo con un’ultima annotazione, della quale mi corre l’obbligo di non tacere. È interessante sottolineare come il paesaggio, così come minuziosamente descritto, diventa non solo spettatore e fondale animato – nel senso di “dotato di anima” -della vicenda, ma anche esso stesso personaggio, insinuandosi in molte pagine, per attribuire alla narrazione una precisa collocazione spaziale e temporale; un “personaggio” che fa da collante allo sviluppo della trama, rappresentato attraverso descrizioni di tale intensità e realismo che non può essere ignorato né dimenticato, anche molto tempo dopo il termine della lettura.

Fabio Mongardi – Le carezze dei Lampi. Morellini Editore, 2023.

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Uomo cacciatore, donna raccoglitrice?

di Anna Molinari

Quelli di metà novembre sono stati giorni in cui abbiamo ascoltato e letto un sacco di commenti sull’educazione all’affettività, sulla gender equality, sulla violenza, su mostri e assassini e bravi ragazzi e donne dalle ali tarpate e amori non corrisposti e rifiutati e rispetto e mai più come prima. Giorni in cui raramente abbiamo sentito parole equilibrate, ma più spesso esperti improvvisati che hanno aperto le loro bocche larghe perché qualcosa bisognava dire. Indignarsi, giudicare, condannare, stare dalla parte giusta, puntare il dito, pronunciare frasi da cioccolatini in qualche intrattenimento televisivo. Sono stati giorni duri, quelli di metà novembre. Lo sono stati per due famiglie in particolare, ma in generale le donne, non necessariamente per le paladine sulle barricate con la spada sguainata contro il patriarcato imperante, ma per tutte le donne. Quelle che ogni giorno provano piccole sottili paure, disagi striscianti inespressi, episodi che passano sotto traccia e sotto silenzio perché forse ce lo siamo immaginate, forse è una paranoia mia, forse potevo evitare, forse è il caso che mi ci abitui tanto va così da sempre, non cambierà mai.

Ma no, non va da sempre così. E lo possiamo dire anche grazie a un salto indietro in un tempo che ci sembra lontanissimo, ma che ha ancora molto da raccontarci sul ruolo delle “femmine” nella società, e su come questi ruoli possano essere fluidi, in evoluzione, cangianti, non scatole dalle sbarre di ferro – decorate con i glitter però eh.

Una ricerca recentemente pubblicata sulle riviste «Scientific American» e «American Anthropologist» sfida la visione tradizionale sulla ripartizione dei ruoli nel Paleolitico (approssimativamente tra i 2,5 milioni e i 12 mila anni fa), quella che tutti e tutte abbiamo imparato sui libri di scuola: gli uomini di là, a cacciare e a lavorare, le donne di qua, a raccogliere e prendersi cura della famiglia. L’antropologa Sarah Lacy, dell’Università del Delaware, smentisce questa versione dando prova di un’uguaglianza di genere che sussisteva già allora, con donne fisicamente abili per la caccia: uno studio che fa luce sui pregiudizi che hanno abitato molti degli studi del passato e che ora potrebbero invece fare spazio a una comprensione sicuramente con più sfumature della storia che ci ha condotti fino a oggi. In particolare sovverte la chiave di lettura che ha filtrato per secoli la narrazione sulle donne: creature fragili, con un corpo inadatto alla caccia per questioni anatomiche, che affiancavano uomini forti e aitanti, pronti a indicare la strada dell’evoluzione umana.

Lo studio della dottoressa Lacy, affiancata dalla collega Cara Ocobock, ha ripercorso numerose testimonianze archeologiche senza trovare prove significative che supportassero l’idea che ciascun sesso avesse in carico ruoli specifici; inoltre il team di ricerca ha analizzato la fisiologia femminile scoprendo che non solo le donne erano in grado di cacciare, ma che nemmeno ci sono testimonianze che di fatto non lo facessero. Esempi a favore di questa rilettura della storia si trovano negli attrezzi, nella dieta, nell’arte, nei reperti funerari e nell’anatomia. Quello che è successo è che in passato studiosi, per lo più maschi, hanno “trovato cose che automaticamente hanno classificato come maschili, senza riconoscere il fatto che sia uomini che donne avevano, nelle tombe o nei segni del corpo, tracce delle stesse abitudini”. E poiché la carne ha contribuito a un apporto proteico nelle diete preistoriche permettendo lo sviluppo di un cervello più grande rispetto ai cugini primati… voilà, grazie maschio che hai permesso l’evoluzione della nostra specie, in quando cacciatore. E dal mondo accademico (guarda caso con la pubblicazione nel 1968 della raccolta di studi Man the hunter, a cura di Richard B. Lee e Irven DeVore) alla cultura popolare il salto si fa in un attimo. Dai cartoni animati ai film, dai musei ai testi di storia, quest’idea è andata rafforzandosi, senza essere messa in discussione o, quando è stato fatto, quei lavori di ricerca sono stati considerati minori, ignorati o svalutati come “critica o approccio femminista”.

Ciò accadeva però prima che fossero condotti studi più approfonditi di genetica e fisiologia: i resti di uomini e donne esaminati mostrano sugli scheletri ferite analoghe, che portano a dedurre che conducessero attività simili. E pur confermando un vantaggio dell’uomo per quanto riguarda velocità di scatto e potenza di lancio, le donne emergono da questo studio come più forti in termini di resistenza, come per esempio la corsa, dovuta in particolare alla presenza dell’estrogeno, ormone di cui gli scienziati hanno rilevato i recettori fino a 600 milioni di anni fa.

Si trattava di piccole comunità, dove la flessibilità a coprire tutti i ruoli era necessaria. E molti studi vanno ancora approfonditi, non solo sul ruolo delle donne, ma sulla possibilità che anche gli uomini, proprio per la struttura sociale a cui appartenevano, potessero svolgere compiti da sempre considerati di competenza femminile, come per esempio la gestione del raccolto. Una strada che, partendo dalla specie che siamo stati ci porta alla specie che siamo diventati, impantanati in retaggi culturali costruiti su fondamenta labili eppure ancora chiamate a supporto di discutibili suddivisioni dei ruoli e delle responsabilità, e quindi anche del rispetto reciproco. Una strada che, ahinoi, sembra ancora troppo lunga e che non avrà certo un’improvvisa virata… ma chissà, noi continuiamo a sperarci, e a lavorare per creare cultura in questa direzione.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 6 dicembre 2023
La foto è di Neom da Unsplash

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