Lettura

(Dis)umanita’

di Ghismunda

Le mie scorribande culturali mi hanno casualmente avvicinato, pressoché in contemporanea, a due capolavori, uno letterario, uno cinematografico, che pur diversi, direi opposti nel loro significato ultimo, si sono rivelati alfine, nel mio tornarci su, complementari, necessario, l’uno, a riaffermare con speranza quello che l’altro amaramente nega: che ci sia ancora “umanità” in un mondo sempre più indifferente, standardizzato, appunto disumanizzato.
“Ai miei tempi questo non succedeva” è un’espressione ricorrente dei vecchi, di coloro che non si raccapezzano più in un mondo che corre troppo veloce e senza regole verso mete fittizie affacciate sul nulla. E’ quanto, più o meno, dice e soprattutto vive, lo sceriffo Ed Toni Bell (un grande Tommy Lee Jones) nel pluripremiato “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen, tratto dall’omonimo romanzo di McCarthy. Una volta si andava in giro persino senza pistole nel Texas meridionale, al confine con il New Mexico e la violenza, pur presente, era in qualche modo controllabile, perseguibile, “razionale” e come regolata negli atti e negli scopi. Oggi, in una terra di nessuno, aspra e desolata, metafora di tutti i non-luoghi di passaggio del mondo globalizzato, attraversati con facilità e priorità da droga e armi e persone tese al profitto enorme che ne deriva, la violenza ha le sembianze paranoiche di uno spietato killer indistruttibile, casuale e spietato come la Morte che rappresenta, lanciato all’inseguimento di un ingenuo cow-boy ritrovatosi per caso possessore di una valigetta contenente due milioni di dollari. Credo che il personaggio di Anton Chigurh, interpretato da un superlativo Javer Bardem, sia destinato a restare nella storia del cinema come figura esemplare e indimenticabile di “cattivo”. Una figura tutta post-moderna, che uccide glacialmente senza essere obbligato a farlo, come gli dicono tutte le sue malcapitate vittime, affidando spesso ad una monetina la decisione, essendo, lui e la sorte, lui e la casualità più gratuita, diventati la stessa cosa, la stessa sostanza, imprevedibile e inarginabile, della violenza di oggi, nelle sue esplosioni tanto collettive che private. E’ un film cupo, quello dei fratelli Coen, raffinatissimo in mezzo a tanto sangue; un film senza respiro, angosciante, pessimista: il mondo è un congegno impazzito, che si può osservare (senza speranza di trasformarlo) solo con malinconia o al più, per sopravvivere, con ironia e amaro sarcasmo. Ci scappa pure qualche sorriso tra i tesi spettatori del pubblico in sala.

Ennesimo attentato a Gerusalemme. Non fa più nemmeno notizia. Un kamikaze si fa esplodere al mercato ortofrutticolo. Chi c’è, c’è. Tra i cadaveri, quello di una donna senza documenti. Passano i giorni e nessuno si fa vivo, con lei morta, a reclamare un’assenza, un corpo; a dare un nome, un’identità. Solo un giornalista, più curioso o più attento di altri, scopre tra gli effetti della vittima il cedolino, lacero e bruciacchiato, dell’ultimo stipendio, venendo così a scoprire la ditta per la quale la donna lavorava. Una ditta grande e fiorente che nemmeno si era accorta dell’assenza dal lavoro di uno dei suoi numerosi dipendenti. Il proprietario dell’azienda vuole rimediare al danno d’immagine (e a un fastidioso senso di colpa) che gli ha procurato la maligna accusa di “disumanità” da parte del giornalista, incaricando il capo del personale di indagare sull’origine della “disattenzione” aziendale e sull’identità della vittima e di provvedere alle spese funebri e ad eventuali indennizzi e risarcimenti. E’ così che inizia “Il responsabile delle risorse umane” di Abraham B. Yehoshua, uno splendido romanzo in cui non a caso nessun personaggio ha nome, fatta eccezione proprio per la donna uccisa, di cui il responsabile arriva rapidamente a scoprire l’identità. Si tratta di Julia Regajev, un’immigrata straniera che, sebbene in possesso di una laurea in ingegneria, è stata assunta come semplice addetta alle pulizie. Il responsabile, che pure ne aveva steso di proprio pugno il curriculum dietro sua dettatura, non ne ricorda nulla, nemmeno il bellissimo viso da “tartara” che tutti i suoi colleghi, invece, ricordano. Per lui, che pure aveva programmaticamente cambiato il nome del suo ufficio in quello di “responsabile delle risorse umane”, Julia era solo un numero, una pratica, un fascicolo, un insieme di dati inserito nel pc insieme ad una sbiadita foto scannerizzata. Fino a quel momento. Fino a quando, al seguito della sua dipendente sconosciuta per riportarne la salma al lontano villaggio natale, scoprirà, in un viaggio di espiazione/purificazione (vera e propria discesa agli inferi, magica e inquietante), che dietro quel numero c’è tutto un mondo, un’umanità concreta fatta di affetti, desideri, speranze, testimoniata da oggetti, ormai abbandonati, semplici, intimi, diventati segni tangibili di una vita vissuta e della sua insopprimibile, anche se ignorata o addirittura calpestata, dignità. Il responsabile delle risorse umane scoprirà la “risorsa umana” vera che ognuno di noi è, se solo imparassimo a guardarci negli occhi, a non farci passare accanto, inosservate, la bellezza e la bontà; se solo vincessimo l’indifferenza o il disprezzo preconcetto e riuscissimo con coraggio a “colmare le distanze”.

La voce di Ghismunda, 31 luglio 2008

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LE ESCLUSE di Gemma Volli: fra genere e storia

Maria Corti, studiosa di letteratura, considera l’autobiografia di Sibilla Aleramo, “Una donna”, uscito nel 1906, ‘una dichiarazione di guerra’. Originale “ritratto di signora” che, scegliendo di vivere ‘solo per sé’, attraversa la cultura italiana di mezzo secolo.
Scelta ardua, anzi impossibile per le “Le escluse” di Gemma Volli, che pubblica la sua raccolta di novelle nel 1938, presso l’editore Cappelli di Bologna. Provvidamente ristampata nel 2006 da Ibiskos Editrice, offre l’opportunità al lettore e allo studioso di indagare la condizione femminile nell’Italia del Ventennio e di godere di una letteratura di genere di buona qualità.
Il libro mette in scena una serie di figure femminili, donne ritratte nel passaggio fra giovinezza e maturità, quando, nel tentativo di costruire la propria vita, lo scontro fra aspirazioni e vincoli psicologici e sociali, può farsi drammatico. Donne che per debolezza psicologica, economica o sociale non riescono a sostenere il conflitto, accomunate tutte dalla medesima condizione di vinte. E gli echi verghiani, nel tema di un destino inesorabile coi deboli, nello stile asciutto e nello sguardo oggettivo, certo non mancano.
Se l’urlo dell’Aleramo è il segnale di una rivolta, l’amaro disincanto della Volli costituisce una specie di tregua prima del riscatto. Solo dopo la seconda guerra mondiale le italiane saranno parificate sul piano delle leggi e passeranno ancora anni prima che termini come ‘emancipazione’ e ‘femminismo’ acquistino significato non solo per le élites.
Molte cose erano già cambiate, in realtà, nel periodo che intercorre fra l’uscita dei due libri. Le donne, soprattutto quelle urbanizzate, anche in seguito all’esperienza della prima guerra mondiale, si erano affacciate in maggior numero al mondo della cultura e del lavoro.
Il Fascismo, pur con atteggiamenti non univoci, impone una sorta di freno, esaltando il modello di una società ‘maschia’ che attribuisce al femminile il ruolo di custode e garante dei valori maschili. Certo esistono nella pratica delle eccezioni. Negli ambienti intellettuali alcune donne giocano un ruolo importante, come in tutte le epoche, del resto. Margherita Sarfatti, entusiasta biografa del Duce, ne è un esempio. Ma anche Grazia Deledda, Ada Negri, per citare solo le più famose. La stessa Aleramo, dopo un vago antifascismo, riesce ad ottenere, per interessamento della regina Elena, nel 1933, una pensione di 1000 lire al mese. Esisteva un’Associazione nazionale fascista delle donne artiste e laureate, ma si trattava di ‘corvi bianchi’ o ‘pecore nere’ a secondo di come la si voleva intendere
Ugo Volli nella bella prefazione a “Le escluse” individua nel testo un dualismo, più che sociale o di genere, (gli uomini sono pochi e generalmente ininfluenti rispetto al destino femminile), fra debolezza e forza. Osserva come ogni successo vi emerga quale frutto della “necessaria dose di insensibilità e disprezzo” (pag. 27) e che nella scelta dell’autrice di mettere in scena coloro su cui il sipario resta perennemente calato, sta la vocazione “provocatoria” e scandalosa del libro, in un contesto culturale che tende alla retorica e al trionfalismo.
La maestra Paola, protagonista del racconto “Ai margini della felicità” osserva “che si fa più strada a essere cattivi, e che a esser buoni non si è apprezzati nemmeno dai propri parenti” (pag. 52). Morale che ritorna spesso: il successo come eco lontana di chi ha saputo tacitare ogni scrupolo, di chi ha oltrepassato la barriera morale che si frappone fra sacrificio di sé o degli altri.
Quel salto che Sibilla Aleramo riesce a compiere rinunciando al figlio, spezzando quel ricatto sentimentale cui i personaggi di Gemma Volli non sanno tener testa.
Se l’Aleramo è un simbolo di successo, “le escluse” rappresentano tutte coloro che in qualche modo la vita ha deluso, cui è stato sottratto qualcosa, in termini di affetti, di ruolo sociale, di riconoscimento. Cui resta solo la cruda coscienza del proprio soccombere.
Donne sole che già nel loro contesto familiare risultano marginali, orfane o figlie su cui, per carattere o altro, le madri non hanno investito. Che non avendo goduto dell’accoglienza materna non maturano fiducia in sé stesse e il cui tentativo di rivolta resta illusorio e velleitario. Grande intuizione dell’autrice di origine triestina, che certo non ignorava le moderne teorie psicoanalitiche. Donne che stentano a trovare una propria collocazione anche all’interno di ciò che la società destina loro: il matrimonio o comunque un lavoro di cura. La cui debolezza è innanzi tutto interiore, inermi di fronte a una condanna sociale sostanzialmente condivisa.
Sandra, protagonista de “Il peccato”, non a caso il racconto che chiude la raccolta, sconta con la morte della madre e un conseguente devastante senso di colpa, l’aver cercato in un amore gaio e leggero compensazione ad una vita tetra e sacrificata: “Mamma non morire, non lasciarmi sola col mio rimorso, perché io so di non meritare questa pena atroce. Io ti vorrò tanto bene, non cercherò altri affetti, non penserò ad altri che a te!” (pag. 215-216).
Dora de “La vinta che ritorna” è ormai rassegnata alla regola degli affetti per cui “è legge di natura amare di più chi pretende di più, dare più amore a chi pretende più sacrificio…Perché avrebbe dovuto volerle bene sua madre, proprio a lei che non le aveva mai chiesto niente…l’unica dei suoi figli che non aveva avuto bisogno…?”(pag. 139)
Quanto diversa la vicenda di Sibilla Aleramo, già da bambina indiscussa prediletta del padre, che giovanissima si muove nel mondo con “l’andatura rapida di persona affaccendata” (“Una donna” Feltrinelli 1997, pag19), sicura di sè tanto da suscitare soggezione, oltre che nei fratelli minori, alla stessa madre.
Anche Sibilla è una donna sola, ma la sua è una solitudine elettiva, che la pone ai margini per così dire ‘alti’ del suo ambiente e che la spingerà a cercare oltre i propri orizzonti anime a lei simili. L’isolamento de “Le escluse” è invece il segno della loro inconsistenza sociale e psicologica, il marchio di una colpa, la condanna di chi non riesce ad intravedere alcuna alternativa alla propria condizione.
Non riescono a costruire, tranne poche eccezioni, rapporti autentici, tantomeno un ambiente di riferimento, scontando spesso l’ostilità delle proprie compagne di sventura, perché, in una società che le marginalizza, la lotta è accanita. Solo la maestra Paola Sandri di “Ai margini della felicità” riesce ad intravedere per un po’ la possibilità di vivere in modo diverso, proprio attraverso la solidarietà, o almeno la simpatia di altre ragazze: “Aveva conosciuto ragazze che vivevano sole come lei, ma che lungi dall’avvilirsi, cercavano di approfittare della loro libertà…Come si divertì quell’anno! com’era soddisfatta di sé e degli altri! Soltanto quell’anno, il solo, in tutta la sua vita.” (pag. 52-54)
Torna in mente la vicenda della giovane maestra Ada Negri che proprio dalla condivisione della sua esperienza con altre compagne, trova impulso a una tenace autoaffermazione.
Anche la maestra Paola aveva sognato di “uscire dalla piccola vita, facendosi conoscere…in un modo o nell’altro” (pag. 46). Ma poi “ convinta dell’impossibilità di riuscire, si era rassegnata a vivere nell’ombra” (pag. 46).
Impossibilità e rassegnazione sono la vera cifra di tutte le storie, donne la cui unica forza si esplica nella capacità di servire e di sopportare, nella inesorabile fatica di un lavoro modesto, senza prospettive: “tutto ciò che aveva ottenuto nella sua vita lo aveva raggiunto con lenta e costante fatica” (pag.45).
Esse appartengono proprio a quella “gran folla delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione” (Una donna, op. cit. pag 114), che la coraggiosa Sibilla compiange.
Che Gemma Volli conoscesse il mondo di quelle donne sole, impiegate, maestre, sarte…che la vita rischia ogni momento di sommergere, lo si può rintracciare nella sua biografia. Pur nata in una famiglia benestante, la morte precoce del padre le fece probabilmente patire il venir meno della sicurezza, quel sentimento della vita come qualcosa di stabile, di cui benessere e felicità costituiscono il naturale coronamento. Il lavoro delle sorelle, le borse di studio per accedere all’Università, poi l’insegnamento in giro per l’Italia e infine l’esclusione dalle scuole superiori per una legge fascista che riteneva le donne inadeguate a formare ‘virilmente’ i giovani italiani, sono tutti elementi che possono averla spinta ad avvertire una sorta di malinconica vicinanza a quel mondo che pure non era il suo. Della sua stessa madre, costretta ad affittare alcune stanze della grande casa, si trova forse eco nel personaggio di scià Silvia del racconto “In riviera” che, incappata nella sventura del suicidio dei propri inquilini, così si difende: “Io sono di buona famiglia, non sono un’affittacamere: ma ora sono costretta, per far studiare mia figlia…capirà, sono una povera vedova” (pag. 90).
Tutte creature che Gemma ha sfiorato, donne come lei, sulla natura e sul destino delle quali si è certo interrogata. Rispetto alle quali ha probabilmente anche marcato la propria differenza, prima fra tutte il possesso di quel grande strumento di riscatto e autovalorizzazione che è la cultura. Segnata oltretutto dalla peculiarità di una storia e di un’appartenenza che, pur nell’illusione della comune italianità, andava a configurarsi come qualcosa di ‘altro’. Gemma, ebrea triestina, era nata Wohl. Come molti correligionari della città era stata un’irredentista e aveva applaudito all’assegnazione di Trieste all’Italia. Ma proprio per la sua appartenenza regionale aveva avvertito prima di altri come il nazionalismo fascista mirasse alla cancellazione di ogni diversità, macchia dell’identità nazionale, avviando una campagna d’intolleranza verso gli slavi di quelle terre. Italianizzò il suo cognome in Volli. Contemporaneamente affluivano a Trieste profughi ebrei cacciati dalla Germania, perlopiù diretti in Palestina. Gemma si dedicò con passione alla loro causa. Lei stessa nel 1935 compì un viaggio in quelle terre ancora ‘esotiche’.
Insomma la radicalità della sua condizione di ebrea in un’Europa che si riscopre antisemita, procede di pari passo con l’incongruenza dell’essere donna in una società che esalta la forza virile come valore primario.
La doppia empasse dell’autrice, donna e ebrea, culmina proprio nel 1938, data di pubblicazione del libro e di promulgazione delle leggi razziali.
Perdita della condizione di ‘cittadina’, caduta di ruolo, ma anche di status economico, tutti elementi che sembrano risospingerla verso il mondo umile e affaticato delle escluse, ma da cui ancora una volta trova riscatto nella presa di coscienza, orgogliosa e consapevolmente assunta, della propria radice ebraica. Le donne, escluse dai privilegi, che tutto devono conquistare con la propria tenacia, meno abituate dell’uomo a fare del riconoscimento sociale misura del proprio valore, sembrano sopportare meglio dei loro compagni le situazioni difficili e i ribaltamenti della fortuna.
Che Gemma Volli, dopo il 1938 si dedichi in modo esclusivo a quella vocazione di storica dell’ebraismo, che già precedentemente si era manifestata, avviene nel segno di una discontinuità solo apparente.
Così l’Aleramo, dopo aver ritentato infinite volte di realizzare il sogno d’amore, quale perfetta armonia fra i sessi, si rassegna a quell’unico che sembra meno legato al capriccio del contingente, cioè quello verso l’umanità tutta, dedicandosi alla lotta politica.
Insomma due intellettuali che, pur attraverso percorsi e vissuti molto diversi, partono entrambe da una riflessione sull’identità femminile, tema che ad un certo punto sembrano accantonare in nome di una appartenenza più vasta e di una lotta più urgente.
Oggi in cui i diritti della donna sono di nuovo messi in discussione e in cui è necessario tornare a riaffermare quelli più elementari quali il diritto alla vita, all’istruzione, alla libertà di scelta, all’autodeterminazione, esistono di nuovo questioni più urgenti?
Le vecchie ideologie predicavano che solo nell’emancipazione dell’umanità si sarebbe realizzata anche quella femminile. Dopo il crollo di tante illusioni io credo esattamente il contrario: che solo la piena libertà della donna garantisca una società libera e democratica per tutti.

Gemma Volli – Le escluse.    Ibiskos Editrice Risolo  2006

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C’e’ mare e mare

Tutti al mare!… E’ lo slogan che risponde al bisogno di tutti quando scoppia l’estate con la sorpresa di un caldo, atteso sì, ma sempre “eccessivo”, perché nell’inverno ci si è dimenticati com’è.
Certo, soprattutto per chi ha la fortuna di abitare a due passi  dalla costa, che si raggiunge in una manciata di tempo.
Soprattutto al mare corrono i ragazzi e i giovani studenti, consumato il rash finale della scuola tra stanchezza e tensioni, fin dall’ “ultimo giorno”, che è per tradizione festa di spiaggia, con il rito del bagno purificatore.
Penso a loro e sorrido, ricordando le mie stesse urgenze di liberazione, il piacere sadico di buttare via, sulla sabbia dove capita, i due libri ancora nello zaino dell’ultimo giorno …
Non immaginerei mai e poi mai di ritrovare frotte di ragazzetti alle prese con i libri, ancora!
Al mare, sì, al mare di Rimini ! ma… ad un “Mare di libri”. Il 20, 21, 22 giugno, quando il cielo saetta luce e calore fino a 38° C!
Questi piccoli eroi, ragazzetti, adolescenti e giovani, hanno scelto di stare al mare in compagnia dei libri. Libri da leggere, non da studiare, è vero, ma pur sempre libri che propongono il gioco delle parole, che non è dei più facili e immediati. Libri che regalano immagini solo se si entra dentro veramente nelle storie. Libri che sottraggono tempo agli amici, alla televisione, alla playstation, agli sms…
Estremamente coraggiosa, la sfida delle tre giovani libraie di Rimini che, in collaborazione con la rivista “Fuorilegge”, hanno lanciato per la prima volta l’iniziativa “Mare di libri. Festival dei ragazzi che leggono”. Una sfida vincente.
Ci sono infatti giovanissimi, tanti, che si aggirano per le strade silenti della città in ebollizione, che hanno disertato la “spiaggia di Rimini”, notoriamente spiaggia attrezzatissima e tutto confort, per trovare frescura nei luoghi del Festival, la sala degli Archi, i Chiostri degli Agostiniani, la sala del Museo della città…
Per incontrare “i loro Autori”, per fotografarli, ascoltarli e interrogarli – quante mani alzate, a gara, e quante spontanee e intelligenti domande, nel tempo solitamente vuoto, tragicamente imbarazzante per il pubblico adulto!
Per comperare, a pacco, gli ultimi libri-novità del genere amato, farseli autografare, e poi portarseli via in un abbraccio gioioso.
Per scoprire chi sono i giovanissimi autori, quasi loro coetanei, i “casi letterari” che sono arrivati all’improvviso al traguardo del successo, e lo raccontano, dopo aver scritto, come loro, pagine e pagine di storie ed emozioni. Perché spesso i ragazzi che amano leggere sono i ragazzi che amano anche scrivere.
E sono qui,  nella  Rimini  del solstizio, anche per lavorare. A piccoli gruppi i giovani dello “staff” – in caratteri neri sulle magliette bianche – si muovono affaccendati tra una sede e l’altra del Festival caricando sulle loro bici  scatoloni di libri, guidano e informano con i sorrisi birichini, presentano gli incontri con facce all’improvviso seriose… Sono appena usciti dalle aule delle Scuole Superiori della città, e si sono messi, volontari, al servizio della promozione di un bene che, si teme, sia  out per la generazione giovanile.
Ma questi giovani di Rimini o giunti appositamente a Rimini – splendida la scena di una processione di una ventina di ragazzi che attraversano la piazza torrida trascinandosi i trolley ( una scena felliniana, mi viene da pensare mentre li guardo) – amano leggere.

Me ne vado da Rimini col calore nel cuore, non solo sulla pelle.
Confermo la mia fiducia nei giovani.

:: Le foto del festival

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Un’impresa che merita di essere letta

E’ uscito per i tipi di Edizioni Ambiente, il nuovo libro di Lester Brown, Piano B 3.0.
Il libro e’ disponibile anche in rete perché la traduzione italiana è frutto del lavoro collettivo e volontario di un gruppo di cittadini che crede nell’importanza della libera circolazione della conoscenza.

La necessità di un piano b
Nessuna persona sensata oggi può dubitare del fatto che i modelli di sviluppo socioeconomici dominanti siano insostenibili rispetto alle capacità del pianeta di supportarci e sopportarci e che, quindi, sia necessario un urgente cambiamento di rotta. In una situazione di questo tipo diventa indispensabile per l’intera umanità pensare seriamente a un vero e proprio Piano B, a percorsi socioeconomici molto diversi da quelli sin qui perseguiti e alle modalità per attuarli concretamente.
Gianfranco Bologna

Lester R. Brown – Piano B 3.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà. Edizioni Ambiente, 2008

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Il nuovo libro di Gian Ruggero Manzoni

Una provincia ipocrita e omertosa fa da sfondo a questo romanzo estremo che diviene affresco graffiante di un’Italia d’inizio millennio. Un nobile decaduto, un allenatore di boxe, cinque giovani boxeur “migranti”, un’affascinante ragazza algerina e due mafiosi russi di particolare e fine erudizione s’incontrano e si scontrano alla ricerca disperata di un’identità e di un valore. Una Rimini invernale, ormai preda di bande criminali e lupi giunti dai quattro angoli del pianeta, si ammanta di tragedia. Una truffa, la stanchezza di vita, il desiderio di riscatto, viaggiano su di una sura del Corano, per poi trovare rifugio tra i rami di un bonsai vecchio di duecento anni. Crudo l’epilogo, seppure sostenuto da una fierezza d’altri tempi. Infine il giocare a scacchi con la morte, come nel film di Bergman, non può che ridare nuova vita, dignità, speranza e un senso a chi ha vissuto ai bordi per anni, nel ricordo dei fasti di un passato, di un titolo di Campione d’Italia o in fuga dalla miseria o da “moderne” schiavitù.

Gian Ruggero Manzoni – L’albero di maehwa.  Edizioni Il Filo, 2008.

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