Lettura

La norma e l’oltre

“L’albero di Mahewa” di Gian Ruggero Manzoni (Il Filo)

Nelle frequentazioni quotidiane di ciascuno di noi, si viene a contatto con esistenze che si trascinano stancamente, tra lavori ordinari e decisamente poco avvincenti, piccoli e grandi problemi economici e familiari, avvolte in rapporti interpersonali costretti entro schemi irrigiditi dalle convenzioni sociali e narcotizzati dal quieto vivere. Si avverte, insomma, uno sgranarsi di giornate talmente uguali e prevedibili da non lasciare il benché minimo margine alla fantasia, per lasciare anche solo immaginare quello che accadrà il giorno dopo. E’ questa la norma, la vita dei cosiddetti “normali”, la gran parte di noi, con rari slanci, noiosa e prevedibile quanto si vuole, ma generalmente ordinata e, quello che più conta, tranquilla.

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La Bestia

Raffaele SardoLa Bestia. Prefazione di Roberto Saviano. Melampo Editore

Camorra
Storie di delitti, vittime e complici

«Raffaele Sardo non si è lasciato stringere nella morsa per cui se parli di certe questioni infanghi la tua terra e invece se non ne parli la rispetti.
Ha compreso subito la perversione di questa logica omertosa.

Custodire la memoria in terra di camorra significa custodire il vaccino contro certi poteri, non dimenticare che le maschere di chi ha dominato queste terre in passato vengono indossate dai potenti di oggi».

dalla prefazione di Roberto Saviano

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E il Novecento finisce su una nave dei clandestini

di Ines Valanzuolo

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli: il 900 in sette storie di donne.

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli “livre de chevet” non da “ombrellone”, in quattrocentosessanta pagine ricostruisce momenti particolari della storia del Novecento. D’amore e d’odio – come dice il titolo del libro – ma anche di speranze e tenerezza è fatta la storia d’Italia che sette donne ci consentono di conoscere e in parte rivivere.

Nora, Elvira , Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina contemporaneamente sono generanti, generate e maieutiche di una data indimenticabile della storia italiana del Novecento: dal 1917, anno della sconfitta di Caporetto, via via al 1922 dello squadrismo fascista a Torino nella cosiddetta “ notte di San Bartolomeo” contro le organizzazioni operaie, al 1943/46 dell’Italia del Sud tra l’armistizio e la fine della guerra, al 1972 di Bologna di operaie, studentesse e probabili connivenze tra il movimento studentesco e le Olimpiadi del “massacro” di Monaco, al 1989 della caduta del muro di Berlino, al 1994 del litorale ionico a nord di Siracusa, tra il disastro dell’inquinamento industriale e del terremoto, fino al 31dicembre del 1999 e la tragedia dei clandestini.
In un lingua italiana fluida, in cui il lessico dello storico, della passione politica, accetta di ammorbidirsi nella semplicità del quotidiano, nella tenerezza dell’amore, di registrare rapidi spostamenti nel tempo e nello spazio con semplici intercalari dialettali, é un romanzo storico complesso.
Il vero storico è rappresentato dalla complessa e circostanziata ricostruzione di un avvenimento particolare del Novecento, nel quale si delinea di volta in volta il vero poetico di una figura femminile che accelera il processo storico in atto, non tanto partecipando, quanto portandovi un di più di intelligenza, ricerca, coraggio, rompendo schemi, ordine sociale, convenzioni.

E così Nora, di famiglia atea, militante pacifista, dopo la morte del marito da cui si era separata perché interventista, nel 1917 va come infermiera volontaria al fronte con la Croce Rossa. Guardata con sospetto come disfattista, denunciata dal Cappellano militare ad una ispettrice, nel dolore della morte e delle ferite che cura coscienziosamente non cerca l’espiazione per il suo comportamento nei riguardi del marito ma, nel culmine del disastro bellico, in corsia, osando dire ”bisogna avere il coraggio di chiamarli per quello che sono: morti, non caduti. Morti ammazzati…….Nora ha trovato la conferma delle sue ragioni e del torto del marito Matteo Fenoglio che era socialista ma aveva accettato la guerra..” e la forza di continuare la sua attività politica.
La stessa tecnica narrativa è intrigante e complessa “suggerita”, dichiara l’autrice, da Abraham B. Yehoshua: le vicende sono ricostruite da un personaggio che narra e risponde a domande e ragioni di un interlocutore le cui parole non sono scritte ma solo ascoltate, intuite e spesso mentalmente formulate anche da chi legge emotivamente coinvolto.
Queste donne quindi sono tutte raccontate da altri, spesso uomini, solo l’ultima, Delina, rispondendo per posta elettronica “diventa testimone di se stessa”.
Alla fine del secolo, dicembre 1999, fotografa inviata a Crotone per seguire le vicende di 300 curdi raccolti nel Mediterraneo in attesa di permesso di sbarco, riesce ad accettare la sua storia di figlia di un italiano e di una albanese, abbandonata alla fine della seconda guerra mondiale. Il percorso ormai è segnato dalle donne che l’hanno preceduta e finalmente può raccontarsi. Ricorda: sulla nave dei clandestini in attesa “Fu come infilarsi in uno strappo della realtà…..m’infilai là dentro e navigai all’indietro..” e nel presente, perché tra quei clandestini ritrova lo stesso “odore caldo e fradicio della treccia di sua madre”, odore che” adesso arriva a folate da ogni angolo del Mediterraneo.”
E il Novecento su quella nave nel Mediterraneo è veramente finito.

Maria Rosa Cutrufelli – D’amore e d’odio. Editore Frassinelli

Il Paese delle donne on line, 8 settembre 2008

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Il quinto quarto

Lo Spirito e altri briganti di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli (Mondolibri)

Quando ero poco più che un bambino, mi presero a lavorare presso una macelleria a pochi passi da casa. Era l’estate al termine delle scuole elementari, ad ottobre avrei iniziato le medie e così, un po’ per necessità, un po’ per passare il tempo, avevo cominciato la mia modesta carriera di garzone di bottega. Fu in quell’occasione che conobbi Memmo, antico e nobile membro della confraternita dei norcini, forte come un toro, capace di mettersi in spalla mezzo bue e trasportarlo dal camion del mattatoio, parcheggiato nel cortile antistante il negozio, alla cella frigorifera della macelleria. Fu sempre in quell’occasione che sentii parlare di quarti di bue, due anteriori e due posteriori, com’era naturale che fossero.
Ma fu la scoperta dell’esistenza del quinto quarto a sconvolgere le conoscenze elementari di aritmetica che possedevo e riuscivo già a padroneggiare adeguatamente . Inutile cercare di capire il concetto, l’esistenza del fantomatico quinto quarto era categoricamente esclusa dal mio pur ristretto universo matematico. Per quanto continuassi a rifletterci, qualsiasi oggetto diviso in quattro, ad esempio la classica torta, che tanto piaceva alla maestra, produceva quattro quarti, era ovvio, logico, anzi, matematico. Da dove prendeva origine questo quinto quarto? Mi ci volle un po’ di tempo per capire che con questo termine venivano indicate le frattaglie, la testa, le zampe, la coda e  tutto quello che, pur facendo parte dell’animale, non era incluso negli altri quattro quarti. Il quinto quarto era la fortuna del macellaio, il suo guadagno vivo, quello su cui poter contare per soddisfare i clienti meno facoltosi e al tempo stesso incrementare con poca fatica i propri incassi.
Tutta questa storia mi è tornata in mente quando ho terminato di leggere il libro che Guccini e Macchiavelli hanno, per così dire, confezionato, ad uso e consumo di quanti avevano avuto modo, a suo tempo,  di gustare le saporite e robuste storie narrate nella trilogia che vede come protagonista il maresciallo Santovito e come sfondo l’Appennino tosco-emiliano e i piccoli borghi che lo popolano. E, difatti, come per segnalare e sottolineare una continuità con le storie precedenti, gli autori ricorrono all’espediente narrativo di far precedere ogni capitolo da una specie di monologo del maresciallo, che funge da raccordo tra le storie e da introduzione a ciascuna di esse. Senza questo espediente, ogni storia sarebbe un racconto a sé stante, al quale mancherebbe quel valore aggiunto costituito proprio dalla presenza in funzione di testimonial del maresciallo stesso, presenza essenziale per trainare un libro altrimenti destinato a passare nel dimenticatoio.
Uno degli aspetti del libro, quello che sorprende piacevolmente, mentre si legge, è la sensazione di “leggerezza” della scrittura, dimostrazione tangibile del fatto che i due autori si sono divertiti molto a mettere insieme i fili di una narrazione capace di dare vita a storie così gradevoli da leggere. Immagino conversazioni notturne accanto ad un camino acceso, col fiasco del vino a portata di mano e le castagne che arrostiscono sul fuoco, i ciocchi della legna che scoppiettano e le parole di Guccini, alle quali fanno eco quelle di Macchiavelli, che rimbalzano sui muri e sul soffitto di un’antica cucina, annerita dal fumo.
Si ritrova in ogni pagina, praticamente intatta, la stessa atmosfera che si respira nella trilogia del maresciallo, una serie di abiti – mi si conceda la metafora – confezionati con stoffe di ottima qualità, anche se di colori e tessuti diversi. La leggera nota stonata del libro è invece dovuta alla sensazione che, pur mantenendo l’ottima fattura dei precedenti, l’ultimo nato sia stato confezionato con ritagli di stoffe rimasti inutilizzati nella bottega della premiata sartoria Guccini – Macchiavelli.
Dare del “quinto quarto” ad un’opera, per quanto minore, dei due bravi scrittori potrà sembrare forse riduttivo, se non addirittura irriverente, si tratta pur sempre di storie di un certo pregio. Per chi ha potuto apprezzare a fondo i libri che vedono protagonista il maresciallo Santovito, però, è esattamente questa l’impressione che si avverte. Le pagine che scorrono sotto gli occhi del lettore trasmettono la sensazione di essere poco più che frattaglie, rimasugli di brani espunti dai libri precedenti e confluiti in questo, forse perché  si era venuta avvertendo la necessità di proporre ai lettori anche le parti meno “nobili” delle storie già narrate. Questo, naturalmente, a pensare bene, nella più favorevole delle ipotesi. Volendo, però, pensare male e, di conseguenza, fare peccato, si potrebbe intravedere in questo libro una banalissima e scontata operazione commerciale, a rimorchio del successo della trilogia di Santovito.
In conclusione, non so decidere se condannare o assolvere i due autori, per aver tentato di carpire la buona fede dei loro appassionati sostenitori. Anche se la tentazione di propendere per una condanna sarebbe forte, preferisco sospendere il giudizio. A loro va, in ogni caso, l’onore delle armi, per il merito di avere assolto un non facile compito, quello di essere riusciti a divertire il lettore, Anche se ogni tanto si lasciano affascinare dalle sirene del mercato, meritano tutta la nostra considerazione, se non altro per quello che hanno saputo darci, singolarmente o in sodalizio, durante questi anni.

Il piacere di leggere, 3 settembre 2008

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Un elfo in famiglia

Non mi convince quello che ho letto in rete. L’essenza del testo non sta tanto, secondo me, nella difficoltà di convivenza con il diverso, con l’unknow fuori di noi riflesso pauroso dell’unknow che ciascuno di noi si porta dentro, quanto in un problema, o in una serie di problemi che, a distanza di molti anni dall’ambientazione del romanzo, sono più che mai attuali: la famiglia, i figli soprattutto, sono necessariamente garanzia di felicità? Può la maternità, possibilmente ripetuta e spontanea, essere ancora considerata la scelta più naturale per una donna? E chi è più condizionato, più vittima degli stereotipi e della retorica: colui che nella vita opta a freddo per la famiglia tradizionale o colui che la rifiuta?

Sono questi alcuni degli interrogativi più coinvolgenti che pone “Il quinto figlio” di Doris Lessing, premio Nobel 2007. In tempi di liberazione sessuale e boom contraccettivo, una famiglia volutamente numerosa costituiva un’eccezione, proprio come oggi. Ma essa era il sogno di David ed Harriet, due giovani “antichi”, alla ricerca, rispettivamente, dell’anima gemella e della “prima volta” come dono e non come svendita. Si trovano, si attraggono naturalmente, si amano, l’uno lo specchio dell’altra. “Almeno sei” era il loro programma, sei figli con i quali vivere senza lacrime e senza fatica in una grande casa, sempre aperta, a Natale, a Pasqua, d’estate, ad amici e parenti, in spirito di collaborazione e semplicità, esempio vivente di felicità possibile. I figli arrivano come Dio li manda, in un clima idilliaco da cartolina illustrata, da pubblicità patinata. Sembra il sogno realizzato, lo schema astratto della felicità calato nel reale, ma la vita, quella vera, bussa alle porte. David, nonostante il super lavoro a cui si sottopone, non ce la fa a mantenere casa e figli e sempre più spesso è costretto a dipendere dalla generosità degli assegni paterni; Harriet, spossata dalle gravidanze problematiche e troppo ravvicinate, è costretta a dipendere in casa dall’abnegazione di sua madre, nonna infaticabile e generosa ma anche risentita per l’incoscienza “senza precauzioni” della figlia. Quando arriva il quinto figlio, di nuovo troppo presto e, così dicono, stavolta puro “incidente” di percorso, la situazione precipita. Harriet non può dirlo esplicitamente, nemmeno a se stessa, sarebbe come tradire i suoi ideali e il suo progetto di vita, ma lei, questo figlio, non lo vuole, non lo sopporta. L’insolita e devastante vivacità del feto, tutto calci e colpi, più che l’annuncio premonitore di una creatura “diversa”, sembra a me la somatizzazione del desiderio materno di espellere da sé quel corpo estraneo, alieno, nemico, che le succhia la vita da dentro. Quando il bimbo nasce, ciò che Harriet vede è un mostro, una sorta di elfo, di creatura tozza e deforme alla Victor Hugo, selvatica e appartata, non amata né amabile. Man mano che il “mostro” cresce, la casa si spopola, gli altri figli partono per nonni e collegi, mentre la coppia finirà per allontanarsi, in quanto Harriet, tormentata dal senso di colpa per non aver voluto e per non amare questo suo figlio diverso, dedicherà proprio a lui tutte le sue restanti energie, mentre David si immergerà sempre di più nel lavoro, diventando quello che mai avrebbe voluto essere. Molteplici significati si addensano nel personaggio di Ben, il quinto figlio. Come dicevo all’inizio, la sua storia non è emblematica tanto della difficoltà di accettare e vivere con un “diverso”, quanto di quello che sono o potrebbero essere i figli, comunque sempre “diversi” da noi: non bambolotti a nostra immagine e somiglianza, piuttosto alieni problematici, che non sai da quale verso prendere; esseri in proprio che richiedono tempo e fatica e causano, più spesso di quanto si sia disposti ad ammettere, ansie e sofferenze; esseri che è legittimo (e rispettoso) anche non desiderare, senza sensi di colpa, a dispetto di tanta retorica familista. Credo sia questo il messaggio della Lessing, una scrittrice impietosa nello scandaglio del cuore femminile e delle relazioni umane.

Lessing Doris – Il quinto figlio. Feltrinelli, 2000

Pubblicato in La voce di Ghismunda, 23 agosto 2008

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