Politica

Sulla Moratoria delle esecuzioni.

Il primo marzo 1847 il glorioso Michigan aboliva la pena di morte, dimostrando così che persino negli Stati Uniti è possibile vivere senza ammazzare la gente.

Non fatevi ingannare dal silenzio piombatoci addosso dopo le celebrazioni della Risoluzione sulla Moratoria delle esecuzioni: il brutto deve ancora arrivare, visto che una sessantina di paesi forcaioli ha scritto al Segretario delle NU promettendo battaglia alla prossima Assemblea Generale.
Il capofila dei “soliti sospetti” (Cina, Corea del Nord, Islamici assortiti, Birmania, Zimbabwe, ecc.) è il “boia del mondo” Singapore e la loro posizione è estremamente solida perché, al contrario della tortura, la pena di morte non è (ancora) vietata dalle norme internazionali.
Gli incauti che, ignorando i consigli di Eric Prokosch, si sono avventurati in territori a loro sconosciuti, non sapevano che questa pena è vietata solo per i minorenni, i minorati e le donne gravide, che la Dichiarazione Universale non ne fa cenno, che l’Articolo 6 del l’ICCPR può essere letto in senso abolizionista, ma che, come le Garanzie ECOSOC, limita (ma non vieta) l’uso della pena capitale ai “most serious crimes” e che il dimenticato Secondo Protocollo è solo opzionale, anche se importante.
Insomma, l’Italia abolizionista di qualche mese fa non aveva bisogno di propaganda ma di buone letture. Purtroppo, come per la sventurata Corte Penale Internazionale di cui ricorre il decimo inutile anniversario, il danno è fatto.
I paesi forcaioli poi aggiungono che:
“Ogni stato ha il diritto inalienabile di scegliere il suo sistema politico, economico, sociale, culturale e legale, senza interferenze esterne” e che “Nulla nello Statuto delle NU autorizza queste a intervenire in materie che sono interne alla giurisdizione di uno stato.” (tradotto in italiano significa che i paesi abolizionisti sono pregati di pensare ai casi loro).
A settembre il Movimento Abolizionista italiano avrà bisogno di gente preparata e di personale competente per combattere questa battaglia, ma
“This commodity is, as always, in short supply”

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Pena di morte: 58 Paesi rimettono in discussione la moratoria

di Rico Guillermo

Il controverso dibattito sulla pena di morte, che ha diviso i 192 membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso dicembre, non e’ terminato con l’approvazione della moratoria, avvenuta peraltro solo a maggioranza (104 a favore e 54 contrari, con 29 astensioni) e con carattere non vincolante.

Un gruppo di 58 paesi fortemente favorevoli alla pena capitale ha scritto al Segretario generale Ban Ki-moon affermando di trovarsi “in persistente opposizione a qualsiasi tentativo di imporre una moratoria sulla pena di morte o la sua abolizione” ed hanno aggiunto che qualsiasi tentativo di imporre una moratoria o abolire la pena capitale e’ in violazione alle disposizioni vigenti ai sensi del diritto internazionale.

La dichiarazione – che rafforza la posizione dei 58 mediante l’uso di un atto collettivo – e’ stata diffusa a pochi giorni dalla Giornata mondiale per l’abolizione della pena di morte, che sara’ commemorata sabato 1 marzo. “Questa nota verbale, firmato da 58 delegazioni, sottolinea ancora una volta che non vi è alcun consenso internazionale sull’uso della pena di morte” ha detto l’Ambasciatore di Singapore all’ONU.

L’elenco dei Paesi comprende praticamente tutti i membri della Organizzazione della conferenza islamica (Oci), insieme con le Bahamas, Cina, Corea del Nord, Giappone, Myanmar, Thailandia, Uganda, Singapore e Zimbabwe. Almeno quattro paesi – Belize, Ciad, India e Stati Uniti – che hanno votato contro la risoluzione nel mese di dicembre, non hanno firmato la nota verbale per motivi non noti, mentre otto paesi che si erano astenuti durante il voto – Repubblica centrafricana, Guinea equatoriale, Eritrea, Figi, Guinea, Laos, Swaziland ed Emirati Arabi Uniti – hanno firmato la dichiarazione e sono quindi entrati a far parte del gruppo di oppositori.

Nella loro dichiarazione, i 58 paesi dicono che la pena capitale e’ stata spesso caratterizzata come una questione di diritti umani nel contesto del diritto dei prigionieri condannati a vita. “Tuttavia e’ in primo luogo e soprattutto un problema del sistema di giustizia penale e un importante elemento deterrente verso i crimini piu’ gravi. Esso deve pertanto essere visto da una prospettiva molto piu’ ampia e pesato contro i diritti delle vittime e il diritto della comunita’ a vivere in pace e sicurezza”.

Inoltre, secondo i Paesi non abolizionisti, “Ogni Stato ha un diritto inalienabile di scegliere i suoi sistemi politici, economici, sociali, culturali, giuridici e giudiziari, senza interferenze, in qualsiasi forma da parte di un altro Stato”. Inoltre, “niente nella Carta delle Nazioni Unite autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che sono essenzialmente all’interno della giurisdizione nazionale di ogni Stato”. Queste due ultime argomentazioni richiamano il famoso ‘emendamento Singapore’, quello voluto in passato dal piccolo Stato orientale per sminare qualsiasi proposta abolizionista presentata all’ONU.

Come risultato del documento dei 58, la questione della pena capitale sara’ riaperta durante la 63a sessione dell’Assemblea Generale, a partire da settembre di quest’anno, ma soprattutto emerge – come predetto dal dott. Claudio Giusti, membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla legalita’ e sui diritti onlus – un vanificarsi di fatto della moratoria approvata, in quanto alla fine la applicheranno solo i Paesi dove la pena di morte e’ gia’ stata abolita. Anzi, si e’ ottenuto un rafforzamento del fronte del no alla moratoria, in precedenza frammentario.

Osservatorio sulla Legalita’, 26 febbraio 2008

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Protestantesimo e differenza sessuale: storia di un incontro

Maria Paola Fiorensoli
Luce Irigaray la definì “forse l’unica grande rivoluzione riuscita del Novecento”. Parlava del percorso di movimenti femministi che avevano introdotto il pensiero della differenza e allargato lo sguardo a tutte le componenti e le variabili dei vissuti, ripensando il mondo.

Che cosa succede quando il pensiero della differenza incontra un percorso di fede, si è chiesto un gruppo di donne diverse per età, lavoro, formazione professionale e inserimento nelle chiese, gravitante intorno alle Valle Valdesi? Dopo un lungo confronto e scavo, nel partire da sé, Sabina Baral, Ines Pontet, Giovanna Ribet, Toti Rochat, Francesca Spano, Federica Tourn e Graziella Tron, hanno pubblicato La parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi, aggiungendovi le riflessioni di Franca Long “sull’altra metà del cielo”, di Daniela Di Carlo sul pastorato femminile, di Bruna Peyrot sui linguaggi di confine (memoria e identità tra storia e letteratura) e altre. Nelle sue tre parti (Da dove veniamo; pensiero della differenza sessuale e ricerca teologica; storia e genealogia), e nella postfazione dedicata alla nascita del libro, le curatrici “esplorano il territorio dei padri per incontrare l’ombra delle madri”, recuperando “la complessità delle vite umane”, “le parole della riscossa del movimento delle donne” ed esperienze di un passato vicino e lontano.

Il rimando al Museo della donna del Serre (Val d’Angrogna, Torino), aperto, nel 1990, dall’Unione femminile valdese locale dopo una significativa ricerca sulla propria genealogia femminile valdese e protestante, fa emergere maestre, balie, diaconesse, istitutrici, emigrate, missionarie, operaie, contadine attraverso oggetti, diari, lettere, fotografie. Più lontano l’incontro con le valdesi medievali; più recente quello con le suffragiste.

L’ampio spazio dedicato “alle portatrici del femminismo dell’uguaglianza e del pensiero della differenza”, nel secondo dopoguerra, offre un percorso critico e autocritico, che nomina le contiguità e le divergenze con le donne della Libreria di Milano e della Comunità filosofica di Diotima, di Verona, cui è tributato “un debito di pensiero” per il forte senso di liberazione per le donne; la distinzione tra autorità e potere; il carattere politico fondamentale della relazione tra donne che permette di superare l’amicalità selettiva e appartenere al genere che annulla le differenze.

Forti della ricchezza ermeneutica del partire da sé, le curatrici analizzano, con “riconoscenza critica” le “resistenze interiori” all’origine delle divergenze con il pensiero della differenza, attraversando la tradizione protestante per rintracciarne le cause: diversità delle rispettive formazioni teologiche; diffidenza verso l’affidamento in generale per la fortissima valorizzazione della libertà di coscienza individuale; polemica antiritualistica; difficoltà, di chi è portatrice di una lunga tradizione, d’accettare le scoperte del discorso sull’ordine simbolico; timore di confondere la dimensione simbolica con quella dell’immaginario; esperienza storica di comunità perseguitata e poi tollerata che spinge a privilegiare il concetto di responsabilità e osteggiare l’estraniazione.

Ribet G., Rochat T., Spano F., Tourn F, Tron G.
La parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi.
Torino: Claudiana, 2007; Isbn 978-88-7016-705-4.

Il paese delle donne, 13 febbraio 2008

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Presidenziali USA: gli sfidanti democratici e la pena di morte

di Rico Guillermo
I tre candidati democratici alle primarie per la presidenza USA sono favorevoli alla pena di morte, un argomento difficile da trattare soprattutto negli Stati del sud, dove i bianchi sono per lo piu’ sostenitori della pena capitale e i neri ne sono per lo piu’ vittime.

Mentre il 12% degli abitanti degli Stati Uniti sono afro-americani, infatti, oltre il 40% della popolazione nel braccio della morte e’ nera. Sebbene poi neri e bianchi siano vittime di omicidio in quasi ugual quantita’, l’80% dei detenuti giustiziati dal momento che la pena di morte e’ stata reintrodotta erano stati condannati per un omicidio in cui la vittima era bianca. Vari studi effettuati negli Stati Uniti hanno poi evidenziato pregiudizi razziali in ogni fase del procedimento di pena capitale. Uno di essi ha rilevato che piu’ l’imputato e’ percepito aderente alle stereotipo del nero, piu’ e’ probabile che sia condannato a morte. A ciò si aggiunga il fatto che oltre il 20% dei neri accusati che sono stati giustiziati erano stati condannati da giurie tutte bianche.

Insomma, nessun progresso dai tempi de “Il buio oltre la siepe”, il film degli anni ’60 (ma ambientato nel 1932) in cui un Gregory Peck da Oscar porto’ all’attenzione nazionale e mondiale il problema dei preconcetti razziali in tribunale (anche li’, peraltro, la giuria che condannava un nero innocente accusato di stupro era di tutti bianchi). E’ quindi impossibile ignorare il fattore razziale nella realta’ odierna della pena di morte, mentre se ne parla poco o punto nella campagna democratica.

I tre sfidanti democratici hanno toccato qualche volta il tema della giustizia penale razzista. In un dibattito, Barack Obama ha riconosciuto come “qualcosa di cui dobbiamo parlare” il fatto che “afroamericani e bianchi… vengono arrestati con tassi molto diversi, vengono condannati a tassi molto diversi, ricevono pene molto diverse”. Hillary Rodham Clinton, in tema di giustizia penale, ha dichiarato di volere “una profonda revisione di tutte le sanzioni”, mentre John Edwards ha detto “Come persona cresciuta nel Sud segregazionista, sento una responsabilita’ speciale a parlare della intolleranza razziale”.

Eppure nessuno dei tre leader democratici ha posto come punto centrale del suo programma la giustizia penale, e tantomeno la pena capitale. E questo perche’ Clinton, Obama ed Edwards sostengono tutti la pena capitale, anche se non lo dichiarano durante i discorsi della campagna per le primarie.

Quando era in corsa per il senato, Obama ha spiegato che “ci sono crimini straordinariamente odiosi – terrorismo, abuso di bambini”, in cui la pena di morte “può essere opportuna”. Anche di recente ha detto di ritenere che sia importante preservare l’opportunita’ di una sanzione estrema in determinate circostanze. Per il candidato nero si tratta quindi di “un male necessario”, anche se i suoi sostenitori lo presentano come un oppositore della pena di morte. Sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda Edwards, che riconosce i pregiudizi razziali in tribunale, il problema delle condanne errate e la disparita’ di rappresentanza legale, ma difende la propria posizione a favore della pena di morte.

Hillary ha evitato piu’ degli altri due il discorso della pena capitale nella sua campagna, limitandosi a parlare genericamente di “riforme”. Anche se nel 2003, ha cosponsorizzato la legge per la protezione degli innocenti, per rendere disponibile il test del DNA per i condannati a morte nei tribunali federali, aveva contribuito a limitare i ricorsi braccio della morte negli anni ’90. L’amministrazione di Bill Clinton porto’ infatti ad un enorme incremento della pena di morte federale, grazie alla ‘legge penale’, nonche’ ad una forte riduzione dei ricorsi nel braccio della morte, grazie alla legge per la lotta al terrorismo e per l’efficacia della pena di morte. Infatti fra il 1996 e il 1999 le esecuzioni piu’ che raddoppiarono.

Per fortuna le decisioni della Corte Suprema che vietavano l’esecuzione dei ritardati mentali e dei minorenni all’epoca dei fatti, nonche’ la rivoluzione delle prove introdotta grazie al test del DNA, hanno ridotto le esecuzioni ed evidenziato i limiti morali e gli errori giudiziari correlati alla pena di morte, inducendo un ripensamento in intellettuali, politici ed opinione pubblica tale da portare l’abolizione legale o di fatto della pena capitale in alcuni Stati.

Nessun merito va pero’ riconosciuto alla politica dei Democratici, i cui leader mantengono la stessa posizione pro pena di morte quasi ininterrottamente da circa vent’anni. Ed invece proprio questa campagna elettorale potrebbe essere l’occasione per marcare la differenza dai Repubblicani su un tema che rappresenta un cardine del conservatorismo e nella retorica di questi ultimi.

* si ringrazia Claudio Giusti

Osservatorio sulla legalita’, 29 gennaio 2008

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