Politica

Pena di morte: 58 Paesi rimettono in discussione la moratoria

di Rico Guillermo

Il controverso dibattito sulla pena di morte, che ha diviso i 192 membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso dicembre, non e’ terminato con l’approvazione della moratoria, avvenuta peraltro solo a maggioranza (104 a favore e 54 contrari, con 29 astensioni) e con carattere non vincolante.

Un gruppo di 58 paesi fortemente favorevoli alla pena capitale ha scritto al Segretario generale Ban Ki-moon affermando di trovarsi “in persistente opposizione a qualsiasi tentativo di imporre una moratoria sulla pena di morte o la sua abolizione” ed hanno aggiunto che qualsiasi tentativo di imporre una moratoria o abolire la pena capitale e’ in violazione alle disposizioni vigenti ai sensi del diritto internazionale.

La dichiarazione – che rafforza la posizione dei 58 mediante l’uso di un atto collettivo – e’ stata diffusa a pochi giorni dalla Giornata mondiale per l’abolizione della pena di morte, che sara’ commemorata sabato 1 marzo. “Questa nota verbale, firmato da 58 delegazioni, sottolinea ancora una volta che non vi è alcun consenso internazionale sull’uso della pena di morte” ha detto l’Ambasciatore di Singapore all’ONU.

L’elenco dei Paesi comprende praticamente tutti i membri della Organizzazione della conferenza islamica (Oci), insieme con le Bahamas, Cina, Corea del Nord, Giappone, Myanmar, Thailandia, Uganda, Singapore e Zimbabwe. Almeno quattro paesi – Belize, Ciad, India e Stati Uniti – che hanno votato contro la risoluzione nel mese di dicembre, non hanno firmato la nota verbale per motivi non noti, mentre otto paesi che si erano astenuti durante il voto – Repubblica centrafricana, Guinea equatoriale, Eritrea, Figi, Guinea, Laos, Swaziland ed Emirati Arabi Uniti – hanno firmato la dichiarazione e sono quindi entrati a far parte del gruppo di oppositori.

Nella loro dichiarazione, i 58 paesi dicono che la pena capitale e’ stata spesso caratterizzata come una questione di diritti umani nel contesto del diritto dei prigionieri condannati a vita. “Tuttavia e’ in primo luogo e soprattutto un problema del sistema di giustizia penale e un importante elemento deterrente verso i crimini piu’ gravi. Esso deve pertanto essere visto da una prospettiva molto piu’ ampia e pesato contro i diritti delle vittime e il diritto della comunita’ a vivere in pace e sicurezza”.

Inoltre, secondo i Paesi non abolizionisti, “Ogni Stato ha un diritto inalienabile di scegliere i suoi sistemi politici, economici, sociali, culturali, giuridici e giudiziari, senza interferenze, in qualsiasi forma da parte di un altro Stato”. Inoltre, “niente nella Carta delle Nazioni Unite autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che sono essenzialmente all’interno della giurisdizione nazionale di ogni Stato”. Queste due ultime argomentazioni richiamano il famoso ‘emendamento Singapore’, quello voluto in passato dal piccolo Stato orientale per sminare qualsiasi proposta abolizionista presentata all’ONU.

Come risultato del documento dei 58, la questione della pena capitale sara’ riaperta durante la 63a sessione dell’Assemblea Generale, a partire da settembre di quest’anno, ma soprattutto emerge – come predetto dal dott. Claudio Giusti, membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla legalita’ e sui diritti onlus – un vanificarsi di fatto della moratoria approvata, in quanto alla fine la applicheranno solo i Paesi dove la pena di morte e’ gia’ stata abolita. Anzi, si e’ ottenuto un rafforzamento del fronte del no alla moratoria, in precedenza frammentario.

Osservatorio sulla Legalita’, 26 febbraio 2008

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Protestantesimo e differenza sessuale: storia di un incontro

Maria Paola Fiorensoli
Luce Irigaray la definì “forse l’unica grande rivoluzione riuscita del Novecento”. Parlava del percorso di movimenti femministi che avevano introdotto il pensiero della differenza e allargato lo sguardo a tutte le componenti e le variabili dei vissuti, ripensando il mondo.

Che cosa succede quando il pensiero della differenza incontra un percorso di fede, si è chiesto un gruppo di donne diverse per età, lavoro, formazione professionale e inserimento nelle chiese, gravitante intorno alle Valle Valdesi? Dopo un lungo confronto e scavo, nel partire da sé, Sabina Baral, Ines Pontet, Giovanna Ribet, Toti Rochat, Francesca Spano, Federica Tourn e Graziella Tron, hanno pubblicato La parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi, aggiungendovi le riflessioni di Franca Long “sull’altra metà del cielo”, di Daniela Di Carlo sul pastorato femminile, di Bruna Peyrot sui linguaggi di confine (memoria e identità tra storia e letteratura) e altre. Nelle sue tre parti (Da dove veniamo; pensiero della differenza sessuale e ricerca teologica; storia e genealogia), e nella postfazione dedicata alla nascita del libro, le curatrici “esplorano il territorio dei padri per incontrare l’ombra delle madri”, recuperando “la complessità delle vite umane”, “le parole della riscossa del movimento delle donne” ed esperienze di un passato vicino e lontano.

Il rimando al Museo della donna del Serre (Val d’Angrogna, Torino), aperto, nel 1990, dall’Unione femminile valdese locale dopo una significativa ricerca sulla propria genealogia femminile valdese e protestante, fa emergere maestre, balie, diaconesse, istitutrici, emigrate, missionarie, operaie, contadine attraverso oggetti, diari, lettere, fotografie. Più lontano l’incontro con le valdesi medievali; più recente quello con le suffragiste.

L’ampio spazio dedicato “alle portatrici del femminismo dell’uguaglianza e del pensiero della differenza”, nel secondo dopoguerra, offre un percorso critico e autocritico, che nomina le contiguità e le divergenze con le donne della Libreria di Milano e della Comunità filosofica di Diotima, di Verona, cui è tributato “un debito di pensiero” per il forte senso di liberazione per le donne; la distinzione tra autorità e potere; il carattere politico fondamentale della relazione tra donne che permette di superare l’amicalità selettiva e appartenere al genere che annulla le differenze.

Forti della ricchezza ermeneutica del partire da sé, le curatrici analizzano, con “riconoscenza critica” le “resistenze interiori” all’origine delle divergenze con il pensiero della differenza, attraversando la tradizione protestante per rintracciarne le cause: diversità delle rispettive formazioni teologiche; diffidenza verso l’affidamento in generale per la fortissima valorizzazione della libertà di coscienza individuale; polemica antiritualistica; difficoltà, di chi è portatrice di una lunga tradizione, d’accettare le scoperte del discorso sull’ordine simbolico; timore di confondere la dimensione simbolica con quella dell’immaginario; esperienza storica di comunità perseguitata e poi tollerata che spinge a privilegiare il concetto di responsabilità e osteggiare l’estraniazione.

Ribet G., Rochat T., Spano F., Tourn F, Tron G.
La parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi.
Torino: Claudiana, 2007; Isbn 978-88-7016-705-4.

Il paese delle donne, 13 febbraio 2008

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Presidenziali USA: gli sfidanti democratici e la pena di morte

di Rico Guillermo
I tre candidati democratici alle primarie per la presidenza USA sono favorevoli alla pena di morte, un argomento difficile da trattare soprattutto negli Stati del sud, dove i bianchi sono per lo piu’ sostenitori della pena capitale e i neri ne sono per lo piu’ vittime.

Mentre il 12% degli abitanti degli Stati Uniti sono afro-americani, infatti, oltre il 40% della popolazione nel braccio della morte e’ nera. Sebbene poi neri e bianchi siano vittime di omicidio in quasi ugual quantita’, l’80% dei detenuti giustiziati dal momento che la pena di morte e’ stata reintrodotta erano stati condannati per un omicidio in cui la vittima era bianca. Vari studi effettuati negli Stati Uniti hanno poi evidenziato pregiudizi razziali in ogni fase del procedimento di pena capitale. Uno di essi ha rilevato che piu’ l’imputato e’ percepito aderente alle stereotipo del nero, piu’ e’ probabile che sia condannato a morte. A ciò si aggiunga il fatto che oltre il 20% dei neri accusati che sono stati giustiziati erano stati condannati da giurie tutte bianche.

Insomma, nessun progresso dai tempi de “Il buio oltre la siepe”, il film degli anni ’60 (ma ambientato nel 1932) in cui un Gregory Peck da Oscar porto’ all’attenzione nazionale e mondiale il problema dei preconcetti razziali in tribunale (anche li’, peraltro, la giuria che condannava un nero innocente accusato di stupro era di tutti bianchi). E’ quindi impossibile ignorare il fattore razziale nella realta’ odierna della pena di morte, mentre se ne parla poco o punto nella campagna democratica.

I tre sfidanti democratici hanno toccato qualche volta il tema della giustizia penale razzista. In un dibattito, Barack Obama ha riconosciuto come “qualcosa di cui dobbiamo parlare” il fatto che “afroamericani e bianchi… vengono arrestati con tassi molto diversi, vengono condannati a tassi molto diversi, ricevono pene molto diverse”. Hillary Rodham Clinton, in tema di giustizia penale, ha dichiarato di volere “una profonda revisione di tutte le sanzioni”, mentre John Edwards ha detto “Come persona cresciuta nel Sud segregazionista, sento una responsabilita’ speciale a parlare della intolleranza razziale”.

Eppure nessuno dei tre leader democratici ha posto come punto centrale del suo programma la giustizia penale, e tantomeno la pena capitale. E questo perche’ Clinton, Obama ed Edwards sostengono tutti la pena capitale, anche se non lo dichiarano durante i discorsi della campagna per le primarie.

Quando era in corsa per il senato, Obama ha spiegato che “ci sono crimini straordinariamente odiosi – terrorismo, abuso di bambini”, in cui la pena di morte “può essere opportuna”. Anche di recente ha detto di ritenere che sia importante preservare l’opportunita’ di una sanzione estrema in determinate circostanze. Per il candidato nero si tratta quindi di “un male necessario”, anche se i suoi sostenitori lo presentano come un oppositore della pena di morte. Sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda Edwards, che riconosce i pregiudizi razziali in tribunale, il problema delle condanne errate e la disparita’ di rappresentanza legale, ma difende la propria posizione a favore della pena di morte.

Hillary ha evitato piu’ degli altri due il discorso della pena capitale nella sua campagna, limitandosi a parlare genericamente di “riforme”. Anche se nel 2003, ha cosponsorizzato la legge per la protezione degli innocenti, per rendere disponibile il test del DNA per i condannati a morte nei tribunali federali, aveva contribuito a limitare i ricorsi braccio della morte negli anni ’90. L’amministrazione di Bill Clinton porto’ infatti ad un enorme incremento della pena di morte federale, grazie alla ‘legge penale’, nonche’ ad una forte riduzione dei ricorsi nel braccio della morte, grazie alla legge per la lotta al terrorismo e per l’efficacia della pena di morte. Infatti fra il 1996 e il 1999 le esecuzioni piu’ che raddoppiarono.

Per fortuna le decisioni della Corte Suprema che vietavano l’esecuzione dei ritardati mentali e dei minorenni all’epoca dei fatti, nonche’ la rivoluzione delle prove introdotta grazie al test del DNA, hanno ridotto le esecuzioni ed evidenziato i limiti morali e gli errori giudiziari correlati alla pena di morte, inducendo un ripensamento in intellettuali, politici ed opinione pubblica tale da portare l’abolizione legale o di fatto della pena capitale in alcuni Stati.

Nessun merito va pero’ riconosciuto alla politica dei Democratici, i cui leader mantengono la stessa posizione pro pena di morte quasi ininterrottamente da circa vent’anni. Ed invece proprio questa campagna elettorale potrebbe essere l’occasione per marcare la differenza dai Repubblicani su un tema che rappresenta un cardine del conservatorismo e nella retorica di questi ultimi.

* si ringrazia Claudio Giusti

Osservatorio sulla legalita’, 29 gennaio 2008

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Hanno vinto, ancora una volta

di Ghismunda

[…]

Per onestà e franchezza, devo subito dire che se invece di insegnare nella scuola dove insegno, avessi insegnato alla Sapienza, avrei unito la mia umile firma a quella dei sessantasette docenti (tra essi tutti i più noti fisici dell’Ateneo), che si sono opposti al fatto che fosse il Pontefice ad inaugurare l’Anno Accademico della più grande Università pubblica d’Europa. Non ho timore di apparire né intollerante né una “talebana” del laicismo, secondo uno degli epiteti più colorati di queste ore. Si può benissimo invitare un Papa, come un qualsiasi altro intellettuale e studioso di fama mondiale, a tenere una lectio magistralis all’Università. Ma farlo per l’inaugurazione dell’anno accademico è fonte (voluta) di ambiguità, perché avrebbe inevitabilmente fatto di quella lezione un programma e un indirizzo per l’intero anno accademico. Cosa evidentemente inaccettabile “in primo luogo perché le università, per lo meno quelle pubbliche – scrive il prof. Marcello Cini, uno dei firmatari – sono, negli stati non confessionali, una comunità di studiosi, docenti e discenti, di tutte le discipline universalmente riconosciute, di tutte le scuole di pensiero, di tutte le culture e gli orientamenti politici e religiosi, scelti dai loro pari per i loro contributi scientifici e culturali. Nessuno di loro può però accettare che qualcuno, per quanto vanti investiture dall’Alto, possa loro prescrivere cosa debbano o possano dire, fare o pensare. Ognuno ha la propria coscienza e la propria deontologia professionale. In particolare possiamo tollerare che il papa possa dire ai nostri colleghi biologi che non devono prendere sul serio Darwin? Oppure ai nostri colleghi filosofi che è «inammissibile» – parole del professor Ratzinger a Ratisbona – «rifiutarsi di ascoltare le tradizioni della fede cristiana»?”

Ma c’è di più. Il Papa, come sappiamo e come non può essere altrimenti, si proclama depositario di una Verità assoluta che, in quanto tale, non può costituzionalmente, intrinsecamente ammettere dialogo. Si stanno capolvogendo i termini della questione e delle responsabilità: chi è veramente incapace di dialogo? Ogni di-alogo si fa in due, su un piano di parità culturale, ma si può logicamente dialogare con chi ritiene di possedere la Verità? Un dia-logo, che voglia essere veramente tale e non finto, deve presupporre scambi e modifiche reciproche sul piano delle conoscenze come dei comportamenti. Ma può un dogmatismo, quale quello religioso nella fattispecie, per sua natura fatto di ammissioni indimostrabili, credute per fede e derivate da un’autorità esterna indiscutibile, modificare se stesso? La verità, nelle Università che ne sono la sede deputata costituzionalmente alla sua ricerca, è necessariamente plurale, frammentaria, parziale, faticosa nel suo cammino e nella sua conquista: come la si può cercare con chi dice di averla già? La Verità assoluta può entrare nelle chiese, non nelle aule di una università. Può essere solo ascoltata, non dia-logata; può, tutt’al più, articolarsi nelle facoltà di teologia, non in un pubblico Ateneo. E’ una questione di competenze e di distinzione, di ambiti separati, non necessariamente ostili, ma nemmeno strumentalmente confusi.

L’occasione per riflettere filosoficamente sulla natura del dialogo ed in particolare sull’effettiva possibilità e sincerità di quello tra credenti e non credenti, mi è stata data da un articolo, per me profondissimo e illuminante, pubblicato da Zagrebelsky circa un anno fa sulle pagine di Repubblica. Ne riporto degli stralci: “Il dialogo, anche quello così frequentemente auspicato tra i cattolici e gli altri (che si indicano, in negativo, come i non-cattolici), presuppone una condizione: che le parti si riconoscano pari, in razionalità e moralità. Se si parte dal presupposto che l´altro non è solo uno che pensa diversamente, ma è uno da meno o, addirittura, è un mentecatto o un immorale, il dialogo sarà perfettamente inutile; sarà tempo perduto, adescamento o simulazione. Dove vige questo pregiudizio, ci si ignora o ci si combatte. Si potrà anche fare finta di dialogare, come lo stratega che procrastina lo scontro e rafforza intanto le posizioni. Ma dialogare onestamente, no, non si potrà. Il maestro del dialogo è quel Socrate che giungeva perfino a gioire di soccombere nella discussione (chi è colto in errore, si libera di un male e quindi riceve un bene). Ma non occorre essere Socrate per comprendere che se non c´è reciproca disponibilità e apertura, tanto vale andarsene ognuno per la sua strada, sempre che non si voglia prendere a bastonate. Onde, se sinceramente si dice: “Il dialogo, così necessario, tra laici e cattolici” (J. Ratzinger, L´Europa nella crisi delle culture, Il Regno – documenti, 9/2005), si dovrebbe supporre che questo riconoscimento di razionalità e moralità sia acquisito. Ma è così?… Il magistero cattolico segue scoscesi percorsi con l´intento di proporre un Dio avente natura razionale (logos) e sostenere che, nella concezione cristiano-cattolica attuale, fede e ragione coincidono. L´essere umano “di ragione” è tale perché è anche “di fede”, onde chi è senza o contro la fede, è anche senza o contro la ragione. Queste proposizioni rappresentano una svolta. Nella tradizione ebraico-cristiana (fino a poco fa la tradizione), Dio è potenza e amore; la nuova filogenesi greco-cristiana propone l´innesto del Cristianesimo nella concezione del Kosmos, quale ordine del mondo corrispondente alla ragione regolatrice sovrana. La “natura”, poiché nessuno può pretendere di alterarla, diventa “diritto naturale”; logos e nomos finiscono per coincidere. Proclamandosi custode dell´ordine natural-razionale, la Chiesa può proporsi come custode dell´ortodossia della ragione; non solo della ragione filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali. Gli uomini di Chiesa diventano scienziati; anzi, scienziati accreditati più di tutti gli altri, perché la loro “ragione” onnicomprensiva, che si abbevera alla scienza di Dio, la teologia, può vantare un´esclusiva garanzia di verità. Per qualche misterioso ricorso storico, riappare il volto del cardinale Bellarmino, con la sola differenza che oggi, invece d´invocare l´autorità delle Scritture contro Galileo, si invoca il logos divino. Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che si auspicava all´inizio è impossibile. L´interlocutore non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno…”

E per questo, quindi, che rispedisco al mittente le accuse di intolleranza e chiusura. Ma i mittenti sono davvero tanti in queste ore in cui le anime belle della politica si stracciano trasversalmente e strumentalmente le vesti in nome della libertà conculcata, del dialogo negato, della tolleranza rinnegata. Gli esponenti della Curia vaticana hanno riportato un’importante vittoria politica: l’astuto rifiuto ad accogliere un invito già fatto e spedito è riuscito a trasformare la libertà di una protesta, e la richiesta di una sacrosanta distinzione, nella negazione di una libertà di parola, che fa del Pontefice un martire ed una vittima dell’intolleranza. Lui che, paradossalmente, parla sempre, tutti i giorni, a tutte le ore, in tutte le Tv. Hanno vinto, ancora una volta.

La voce di Ghismunda, 16 gennaio 2008

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