Un’impresa che merita di essere letta

E’ uscito per i tipi di Edizioni Ambiente, il nuovo libro di Lester Brown, Piano B 3.0.
Il libro e’ disponibile anche in rete perché la traduzione italiana è frutto del lavoro collettivo e volontario di un gruppo di cittadini che crede nell’importanza della libera circolazione della conoscenza.

La necessità di un piano b
Nessuna persona sensata oggi può dubitare del fatto che i modelli di sviluppo socioeconomici dominanti siano insostenibili rispetto alle capacità del pianeta di supportarci e sopportarci e che, quindi, sia necessario un urgente cambiamento di rotta. In una situazione di questo tipo diventa indispensabile per l’intera umanità pensare seriamente a un vero e proprio Piano B, a percorsi socioeconomici molto diversi da quelli sin qui perseguiti e alle modalità per attuarli concretamente.
Gianfranco Bologna

Lester R. Brown – Piano B 3.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà. Edizioni Ambiente, 2008

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Perche’ censire cittadini italiani… solo perche’ rom?

di Francesca Zajczyk

Ma è un sogno – un brutto sogno – quello che sta succedendo oggi sotto i nostri occhi? E’ possibile che in Italia, a Roma, a Milano succedano cose impensabili fino a pochissimo tempo fa senza che nessuno alzi una voce, quantomeno esprima “forte preoccupazione”?

Qualche lamento gira sulla rete; ma sono lamenti che non riescono a trasformarsi in “voce pubblica”. I fatti: censimento fotografico e schedatura di polizia per cittadini Italiani questa mattina, 6 giugno, all’alba delle 5.00 presso il campo comunale di via Impastato a Milano.
Si tratta di un campo regolare, i cui abitanti – in Italia e a Milano dal 1943 provenienti dalla Slovenia – risultano all’anagrafe del Comune in quanto residenti a Milano. Quindi, si tratta di cittadini italiani; non solo: tra i cittadini italiani del campo c’è anche chi ha patito la persecuzione nazifascista con l’internamento in campo concentramento e chi ha meritato la medaglia d’oro al valore civile.
Tralasciando di commentare il metodo: alle 5.00 del mattino, cogliendo nel sonno bambini, anziani, come pericolosi criminali di cui si deve impedire la fuga, ciò che più inquieta è che queste persone (e sottolineo il termine) vengono schedate in quanto appartenenti ad un gruppo etnico.
Qualche sera fa Massimo Cacciari – a proposito della vicenda per certi versi analoga che si sta verificando a Venezia nei confronti di un gruppo di cittadini italiani sinti residenti nel nostro paese da più di dieci anni – richiamava l’attenzione con grande preoccupazione su quanto possa essere pericolosa questa strada che richiama (e nessuno-nessuno può negare fatti di storia) accaduti purtroppo non molti decenni orsono.
Ricordare per non dimenticare scrive Giorgio Bezzecchi.
Sono passati sessant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali e dalla pubblicazione della rivista “La difesa della razza” di Guido Landra e dei primi rastrellamenti che sfociarono dopo un breve periodo di tempo in un ordine esplicito di “internamento degli zingari italiani” in campi di concentramento (Circ.Bocchini 27/04/41)
Per non dimenticare, ma anche per sapere che, legittimando queste procedure diventa difficile prevederne il processo.
Tutto in nome della sicurezza. Il tema della sicurezza oggi “impone” la paura di schierarsi e quindi il silenzio.
Ma in nome della sicurezza non si possono ledere i diritti dei cittadini, di cittadini italiani regolarmente iscritti all’anagrafe della nostra città, che lavorano e mandano i bambini a scuola, come altri cittadini italiani (anche se non tutti… ricordate la questione della dispersione scolastica?), ma con il grave peccato originale di essere etnicamente diversi.

Brividi…
Dobbiamo avere il coraggio di rifiutare questo opportunismo del discorso pubblico, dobbiamo contribuire a far conoscere una realtà assolutamente sconosciuta relativa ad una popolazione di 130-150.000 mila persone, di cui circa il 50% ha la cittadinanza italiana con una quota ampiamente sotto il 10% che pratica ancora qualche forma di nomadismo.

Come si fa a parlare di bullismo, di educazione dei piccoli e dei giovani alla convivenza, alla solidarietà? Apriamo gli occhi e la bocca.

Il paese delle donne, 9 giugno 2008

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I diritti globali sono sempre più anche ambientali

Ma il problema è la percezione della realtà

ROMA. E’ stato presentato oggi il rapporto sui diritti globali 2008, il dossier annuale sulla globalizzazione e sui diritti del mondo e Maurizio Gubbiotti, della segreteria nazionale di Legambiente, ha fatto rilevare uno dei nuovi temi centrali sollevati dal report: «L’emergenza climatica non costituisce solo una pesante eredità per le generazioni future, ma un processo già in atto le cui conseguenze nei paesi poveri sono già una drammatica realtà. Sono, già, 150 milioni le persone nel Mondo che rischiano di dover abbandonare la propria terra perché resa invivibile dagli effetti dei mutamenti climatici. Spetta ai singoli governi e alla comunità internazionale intervenire nel proporre modelli energetici differenti, puntando su fonti pulite, rinnovabili, diffuse e democratiche. Solo in questo modo sarà possibile consumare meno e meglio, superando nello stesso tempo le differenze e le ingiustizie tra i popoli e le persone».
[…]
La sesta edizione del rapporto fotografa e analizza le criticità e i punti deboli del mondo «immaginando la globalizzazione che vorremmo – dicono io redattori – centrata sui diritti umani e sociali, attenta alla costruzione di eguaglianza, democrazia e ricchezza per tutti. Particolare attenzione viene rivolta anche all’Europa e all’Italia con un intero capitolo dedicato al problema della sicurezza, ai risvolti di intolleranza e di “industria della paura”, tema sempre più attuale e preoccupante».
Anche per l’Italia i dati sono neri come la copertina del rapporto: due milioni e mezzo di famiglie ufficialmente povere, 7 milioni e mezzo di individui, l´11% della popolazione, hanno un salario inferiore a 1000 euro; 6600 morti sul lavoro in 4 anni, un caro vita tra i più alti d’Europa, forti i problemi ambientali.
«La percezione dell´insostenibilità di questo modello di sviluppo è diffusa – spiega il presidente nazionale dell´Arci, Paolo Beni – nonostante questo, però, non si riesce a formulare un modello alternativo, perché questo sistema sta facendo leva sulle contraddizioni che genera. Frammentazione sociale, tendenza alla chiusura identitaria, abbandono di ogni forma collettiva, in parole povere una diffusa precarietà su cui si sta costruendo una strategia della paura in nome del consenso immediato . Si sta scivolando in una visione delle relazioni sociali che disconosce sempre di più i diritti fondamentali delle persone. Se non si recupera la dimensione dell´interdipendenza del mondo globale si rischia l´imbarbarimento».
Ma lo specchio in cui guardarsi sembra rotto, oppure riflette un’immagine deformante. Il rapporto fa l’esempio del bisogno di sicurezza: «L´88% degli italiani pensa che nel suo Paese ci sia più criminalità rispetto a 5 anni fa, mentre nelle graduatorie statistiche stilate a livello europeo, l´Italia risulta essere un Paese relativamente sicuro: dati Eurostat dicono che la percentuale italiana del reato d´omicidio è di 1,19 su 100mila abitanti, al di sotto di Francia (1,56) e Regno Unito (1,49). Anche rispetto ai reati di strada in Italia si sta più sicuri: nel 2006 gli episodi di aggressioni, violenze sessuali e furti con violenza sono stati 139mila, mentre nel Regno Unito sono stati 10 volte tanto e in Francia più del doppio».
Il rapporto sui diritti globali 2008 è un antidoto prezioso perché affronta sistematicamente e con passione competente i temi economici, del mercato del lavoro e della precarietà, della sicurezza sul lavoro, del welfare, dell’immigrazione, e poi le guerre, l’ambiente e i diritti umani… Un volume
unico a livello internazionale che rappresenta ormai uno strumento fondamentale di informazione e formazione per quanti operano nella scuola, nei media, nella politica, nelle amministrazioni pubbliche, nel mondo del lavoro, nelle professioni sociali, nelle associazioni.

Rapporto sui diritti Globali 2008 (a cura di Associazione SocietàINformazione) – edizioni Ediesse

In greenreport, 9 giugno 2008

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Costume e malcostume

Il mio amico S. è un guidatore come tanti altri, prudente quanto basta e generalmente rispettoso delle regole. Al mio amico S., per la verità, non piace molto guidare: lo fa solo quando è strettamente necessario, raramente per motivi banali, quasi mai senza motivo, così, tanto per fare un giro in auto. Difficilmente, quindi, lo potrete incontrare lungo una strada, se non è strettamente obbligato a percorrerla. Insomma, non è certo uno di quei fanatici della guida, che si mettono in macchina con ogni stagione e percorrono chilometri e chilometri su strade di qualsiasi tipo, semplicemente per passare il pomeriggio, senza una meta precisa.
Visto così, potrebbe sembrare un tipo piuttosto strano, soprattutto se riferito ai canoni attuali, che ci impongono sempre un continuo movimento, dinamici quasi per obbligo contrattuale, protesi ad avvalorare con i fatti l’antico detto italiota: ”Chi si ferma è perduto”. E lo si è realmente, se si pensa ai molti pericoli ai quali si può andare incontro per il semplice atto di fermarsi, fosse anche per soccorrere una persona in difficoltà o, più semplicemente, per guardarsi un po’ intorno. 
Eppure, fermarsi, ogni tanto, è necessario. Il piacere del viaggio, si sa, non consiste nel raggiungere la meta, quanto piuttosto nel viaggiare. E, certamente, la sosta è una delle componenti essenziali del viaggio. Anche la vita, durante il suo percorso, non importa se lungo o breve, esige ogni tanto una sosta. Riflettere su quanto si è visto lungo il cammino, su cosa è accaduto a noi e agli altri, fare il punto per stabilire dove ci si trova, sono componenti imprescindibili del viaggio.
I segni dei tempi si leggono sulla strada, traspaiono dai comportamenti dell’homo conductor, l’essere umano quando è al volante del suo autoveicolo. S., generalmente, guida con prudenza, ma ha scoperto che, se non si conforma alle anti-regole del traffico attuale, è meglio che se ne resti a casa. Lui appartiene ancora alla categoria di quelli – sempre meno, per la verità – che pensano che sia bene mettersi in viaggio con un certo anticipo, perché la strada è lunga e non si sa mai cosa può accadere durante il percorso. Prendere la vita con lentezza è un modo di allungarla, di rallentarne, se possibile, il corso, soprattutto quando rischia di diventare troppo impetuoso e di travolgerci. 
Il traffico è impazzito, si sente dire spesso, come se il traffico fosse un’entità astratta, una divinità capricciosa inviata dal cielo a mettere scompiglio sulla terra, e non, piuttosto, un coacervo di auto che si muovono tutte insieme, quasi mai sincronizzate, guidate da persone che una mera ipotesi di lavoro, purtroppo mai verificata fino in fondo, suppone dotate di una scintilla di intelligenza. Così ognuno si getta nel balletto del traffico; un passo falso, una mossa sbagliata bastano per mandarlo in crisi per ore. Ogni volta che S. sale in auto, si augura che quell’ipotetico cervello esista veramente e che non sia, piuttosto, il frutto di una pubblicità progresso, magari occultamente sponsorizzata da qualche casa automobilistica. 
Negli ultimi tempi, anche se con colpevole ritardo, la Pubblicità si è resa conto di quanto sia riuscita, a lungo andare, prima a disorientare e poi a surgelare senza scadenza i cervelli dei teledipendenti. Passi per un messaggio che ti spinge all’acquisto compulsivo di oggetti tutt’altro che necessari, ma quando si istiga lo spettatore, ormai non più raziocinante, a comportamenti che potrebbero esporre lui e gli altri a gravi rischi, vuol dire che si è superato ogni limite. Adesso, confidando che almeno un piccolo neurone sia sopravvissuto all’ecatombe scatenata dall’aggressione dei pubblicitari, alcuni spot cercano di inviare messaggi – per la verità piuttosto subliminali – che invitano a non emulare le gesta dei supereroi dello schermo. Se pensano che sia sufficiente un messaggio così ridicolo, per mettere in atto un’improvvisa inversione di comportamenti consolidati nel tempo, si sbagliano di grosso.
Il mio amico S. potrebbe elencare, una per una, tutte le multe – poche, in verità rispetto alla media nazionale – che ha preso in quasi quaranta anni di guida. Tra queste, nessuna per eccesso di velocità, la maggior parte per divieto di sosta o per qualche distrazione di poco conto, subito sanzionata da tutori dell’ordine, puntualmente apparsi nella circostanza in cui S. stava commettendo l’infrazione. Insomma, si sarà già capito che il mio amico S. non è una persona molto fortunata e che non ama correre e, quando una di quelle auto supertecnologiche di ultima generazione gli sfreccia accanto in autostrada, ad una velocità quasi doppia della sua, invoca sull’incauto e pericoloso pilota i fulmini della Stradale. “Ma il cielo è sempre più blu…”.
Nella cittadina, in cui S. vive attualmente, è in vigore una regola, tacitamente introdotta nel Codice della Strada locale: la sosta, improvvisa e prolungata, per conversazione. All’inizio la cosa lo faceva infuriare e, da bravo automobilista di città, iniziava a suonare il clacson all’indirizzo dell’indegno che stava bloccando il traffico, magari per scambiare quattro chiacchiere con un amico pedone di passaggio. Poi anche lui ci ha fatto l’abitudine, anzi, ci ha preso gusto e adesso si è conformato in tutto e per tutto a questa che ormai considera una simpatica norma non scritta del Codice della Strada.
In effetti, così almeno pensa S., si riconducono i rapporti tra pedone e automobilista nella corretta dimensione dialettica e questo è certamente un segno di grande civiltà: al codice della strada, comunque scarsamente rispettato, si sostituisce quello della cortesia. Ci sono ben altre cose che lo fanno infuriare: auto gigantesche con a bordo persone microscopiche, soste selvagge su marciapiedi e rampe d’accesso ai box auto, magari solo per comperare le sigarette o il giornale, risse per un parcheggio, automobilisti che, giunti in prossimità dei passaggi pedonali, accelerano improvvisamente all’apparire del pedone.
L’epidemia di SUV esplosa negli ultimi tempi indurrebbe il forestiero di passaggio a pensare che il paese del Bengodi esista veramente e che sia proprio il nostro. D’altronde, come dargli torto? Si fa fatica a pensare che gente, che lavora anche dodici ore al giorno, solo per tirare avanti fino alla fine della settimana, sia colta dall’insano raptus dell’imitazione, al punto da indebitarsi fino al collo per apparire ricca. Forse, nelle scuole che hanno frequentato non gli è stata mai letta la favola di Fedro sulla rana e il bue. O, forse, non hanno mai frequentato una scuola (e se ne fanno  pure un vanto).
“Life is now”, proclamava ammiccante una certa pubblicità. La stessa cosa, in forma più poetica e meno succube all’anglofilia dilagante, diceva un certo Lorenzo dei Medici, poco più di cinque secoli fa. Il Magnifico, come tutti noi, avrà sicuramente avuto i suoi bei problemi, ma almeno, quando si alzava la mattina, non doveva darsi troppo pensiero per procurare il pane quotidiano alla famiglia.

 

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