Il branco degli scaracchi

di Vincenzo Andraous

La tortura nei riguardi di chicchessia è una ignominia, messa in atto dal branco verso un giovanissimo è qualcosa di ancora più indicibile.
La violenza è compagna di viaggio di molta parte di umanità, in questo caso c’è il gesto di crudeltà fine a se stesso, la ricerca di  prevaricazione, il dominio   sull’altro, poco importa se ottenuto arrecando dolore al più debole, fragile, indifeso.
Il branco usa tecniche ben collaudate, la bugia, l’inganno, il tradimento, esprime una caratura professionale consona alla sua età, per soggiogare, mettere sotto, rendere schiavizzata del proprio potere la vittima designata.
La baby gang lega un ragazzino a un albero, lo colpisce, gli urina addosso, tra scaracchi e risate sguaiate, poi è gia ora di ritornare a casa, ognuno con il proprio balzello ben calato nelle tasche vuote, e ciascuno conoscerà altre ferite, mentre  il dolore del ricordo scaverà nelle carni un solco indelebile.
Di fronte a questi fatti si fa sfoggio di sociologie e pedagogie di intrattenimento: genitori che non sanno più essere educatori, una società che spinge al divertimento e allo sballo infrasettimanale.
Il branco sopravvive a se stesso, costantemente disconnesso dalla quotidianità, dove esistono ancora le regole, quelle che occorre conoscere per poterle rispettare, quell’area libera da sottomissioni precostituite, dove esistono le persone avvero autorevoli, che qualche volta è possibile incocciare, attraverso la fortuità di un incontro, che però obbliga a dedicare tempo e volontà a relazionarsi nella pratica della discussione e dell’ascolto, con quanti ogni giorno rimangono contusi alle arcate sopraciliari, degli altri acciaccati nell’anima.
Violenza e paura di non essere nessuno, paura di non riuscire a essere quel che si vorrebbe, violenza e paura di non essere degni del gruppo, approvati e accettati, protetti da una omertà che consolida la sua egemonia attraverso l’ottenimento di sensazioni forti, immediate, di quelle che “sconvolgono”, ma non affaticano né impegnano più del necessario.
Persino nella infamia di questo gesto, di questa violenza imitata e imitante, di questo atteggiamento mentale terroristico, erede dei bullismi di ieri, c’è inquietante la rivolta sotterranea, la voglia di annichilirsi, di  affrancarsi dalla contaminazione di ogni eventuale “fuori quota”, fautori di una normalità insopportabile, dove c’è il rischio di incappare in quell’intelligenza e sensibilità,  che non permette ad alcun adolescente, né ad alcun adulto, di disconoscere il valore della dignità umana.
Branco, baby gang, teppisti e bulli, molte le declinazioni, poche le giustificazioni travestite da attenuanti , è violenza che scardina la libertà di crescere insieme, che nega il diritto di essere conformi nel rispetto dell’altro, che disperde il dovere di resistere fino in fondo, per essere degni di vivere con lo sguardo in alto, con il domani ben cucito sulla pelle.

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Circolo vizioso

di Ghismunda

C’è da chiedersi come possa in tempi di:
crisi economica
crac finanziari
fallimenti
disoccupazione
precariato
carovita
povertà
paura
insicurezza
violenza
razzismo

salire al 60% il consenso popolare intorno al Presidente del Consiglio. Ma forse la questione è mal posta. A ben vedere, il consenso popolare intorno al Presidente del Consiglio sale al 60% proprio perché ci sono:

crisi economica
crac finanziari
fallimenti
disoccupazione
precariato
carovita
povertà
paura
insicurezza
violenza
razzismo

Nel 1949 Aldo Capitini, di cui ricorre in questi giorni il quarantesimo della morte, auspicava ardentemente per l’Italia la fine di quell’ “impressione”, diffusa soprattutto all’estero, di un paese caotico e immaturo, sempre bisognoso di un «salvatore», di un pugno di ferro, di un «uomo della Provvidenza» e affermava l’importanza, per il nostro paese, di una pronta opera di arginamento di ogni influenza crescente di «regime»; scriveva della necessità di tornare a quel nucleo autentico di tradizione che, incarnandosi, ad esempio, nella carità di San Francesco, nella poesia di Dante, nel metodo di Galileo, è stato capace di affermare valori puri, più alti di quelli della semplice amministrazione della vita.
Nel 2008 la speranza di Capitini si rivela pura utopia. Nel brodo di coltura del disagio, dell’ignoranza e dell’inquietudine, opportunamente alimentato, cresce e alligna un bisogno diffuso di rassicurazione e un’evasione mediatica di sogno, puntualmente soddisfatti e incarnati dal leader più ricco, demagogico e populista della nostra storia.

La voce di Ghismunda, 4 ottobre 2008

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Lettera aperta al Ministro Gelmini

Lettera aperta alla Ministra Gelmini dalla dirigente della scuola primaria I. Masih di Roma

Simonetta Salacone

Gentile Ministro, sono la Dirigente scolastica di una Scuola Primaria di Roma, la «Iqbal Masih», ormai vicina all’età della pensione. Assisto con vera angoscia alla morte annunciata della scuola del Modulo e del Tempo Pieno.
Questa scuola Elementare riformata noi «anziani» maestri l’abbiamo costruita giorno per giorno.
Partivamo, è vero, da una scuola che già funzionava con buoni risultati, ma che si trovava a far fronte, per prima fra tutti gli ordini, a nuove sfide e problemi: l’inserimento dei disabili, l’integrazione in tempi brevi di massicce quote di alunni immigrati, la progressiva crisi delle famiglie e dei contesti sociali, l’emergere di nuove forme di povertà e marginalità.
Contemporaneamente eravamo chiamati a sostenere l’impatto con la società multimediale, dove, intorno agli alunni, un grande e vorticoso rumore mediatico proveniente da un orizzonte globalizzato sostituiva la calma lenta del fluire del tempo e il ricorso rassicurante degli eventi familiari.
Sono entrati, fra gli alfabeti in cui istruire gli alunni, quelli delle immagini, dei suoni, del movimento.
Si sono dilatati gli spazi geografici e gli orizzonti storici, mitologie di popoli lontani si sono aggiunte a quelli a noi consuete; abitudini e culture diverse sono improvvisamente diventate contigue, prima attraverso il telecomando TV, poi con la presenza fra noi di nuovi cittadini, di colore diverso e che parlavano tante lingue e portavano fra noi storie di viaggi, gioie e fatiche, speranze e sogni da realizzare insieme a noi e ai piccoli compagni italiani.
La scuola è diventata fucina di nuova cittadinanza e presidio prioritario per prevenire razzismi, egoismi, separazioni, emarginazioni.
Per fare tutto questo occorreva tempo, tempo, tempo….
Tempo per ascoltare tutti i bambini, accogliere le loro ansie e le loro curiosità, aiutarli a «raffreddare» le esperienze e a mettere ordine e dare senso all’enorme quantità di nuove conoscenze ed esperienze che quotidianamente andavano facendo.
Tempo di ascolto dei genitori.
Tempo per lo scambio comunicativo fra gli alunni, perché potessero apprezzare le diversità di pensiero e di atteggiamenti presenti nelle classi e crescere attraverso il confronto.
Per fare tutto questo occorrevano anche tante competenze diverse, che non potevano essere patrimonio di un unico maestro, per quanto colto e dotato di buon afflato pedagogico.
Ma questi maestri, a cui si chiedeva di intervenire per educare ed istruire bambini diversi e più curiosi, dovevano essere capaci di lavorare insieme e di affinare le loro capacità di riflessione adulta, per non disorientare gli alunni con interventi divergenti.
A questi maestri del «team» veniva affidato il compito di far affiorare lentamente e sempre più consapevolmente i diversi quadri disciplinari, come punti di vista molteplici attraverso i quali i bambini avrebbero potuto osservare e riorganizzare la realtà.
Tutto questo abbiamo sperimentato e realizzato in questi ultimi trent’anni, quasi sempre con risultati eccellenti.
Non abbiamo ampliato il tempo scuola per venire incontro alla crisi occupazionale..
Non abbiamo sperimentato la pluralità docente per lavorare di meno e in più persone.
Fa molto male sentir dire dal nostro Ministro, come ieri è avvenuto nella trasmissione «Porta a Porta» che «…se un docente sta in classe, altri due stanno fuori a non fare niente» .

Non possiamo permetterci una scuola di eccellenza, ma costosa?
Diciamolo: non inventiamo altri motivi.

Il «pedagogista» di riferimento per il nostro Ministro è il Ministro delle Finanze.
Stupisce la leggerezza, il pressappochismo, l’ignoranza di quanti, senza la minima competenza professionale, si esprimono sull’educazione delle nuove generazioni e sulla scuola.
Tornare indietro significherà umiliare la cultura dei docenti della scuola primaria, ma, soprattutto, far regredire il Paese.
Tagliare sulla Scuola di tutti è grave per la coesione sociale del nostro Paese, per la sua cultura e per il futuro dei nostri figli.
Nella nostra scuola è iniziato un movimento di protesta e mobilitazione fra docenti e genitori. Mi auguro che esso cresca e apra la riflessione nella società.
Mi auguro che lei voglia ascoltare chi la scuola la fa tutti i giorni, con passione e serietà.
Le chiedo, a nome di tanti docenti di ritirare il decreto e di presentare un disegno di legge che permetta, senza l’ansia dei tempi brevi e il ricatto del voto di fiducia, di aprire un ampio dibattito in Parlamento e nel Paese tutto Con tanta amarezza, ma anche con la speranza che voglia accogliere il mio appello, la saluto Simonetta Salacone

roma 23 settembre 2008

Coordinamento genitori-insegnanti «Non Rubateci il Futuro», 126° Circolo didattico, Iqbal Masih, Municipio VI (via Ferraironi, 38) , Roma

Contro la Riforma della scuola del Ministro Mariastella Gelmini:

http://scuolaschool.spaces.live.com

http://maestrounico.blogspot.com

Il Paese delle donne, 24 settembre 2008

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La Patria che non c’e’

di Ghismunda

“La Patria vera è una comunione di liberi ed eguali, affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. Voi dovete farla e mantenerla tale.  La Patria non è un aggregato, è una associazione.  Non v’è dunque veramente Patria senza un Diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di quel Diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze, dove l’attività di una porzione delle forze e facoltà individuali è cancellata o assopita, dove non è principio comune accettato, riconosciuto, sviluppato da tutti: v’è non Nazione, non popolo, ma moltitudine, agglomerazione fortuita d’uomini che le circostanze riunirono, che circostanze diverse separeranno… La Patria non è un territorio; il territorio non è che la base. La Patria vera è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale, finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati, finché un solo, capace e voglioso di lavoro, langue, per mancanza di lavoro, nella miseria, voi non avrete la Patria come dovreste averla, la Patria di tutti, la patria per tutti“. (G. Mazzini, Scritti politici)

E infatti, caro, inattuale Mazzini (chi lo legge più?), l’Italia non è una Patria. Non può esserlo il paese del lodo Alfano, delle ampolline del dio Po, delle miss a tutte l’ore, dei maestri “tagliati” e vilipesi, degli “sporchi negri” ammazzati, dei caduti nel lavoro, dei senza-lavoro, dei tanti e tanti privi di rappresentanza in Parlamento. No, la Patria non c’è: al suo posto, anguste patrie di egoismo, minuscole roccaforti di sicurezza, gretti municipalismi esasperati. Divisi da un muro, una strada. Dall’ignoranza. Dall’orto di casa, dal pianerottolo. Gelosi e diffidenti. Impauriti. E soli. Bacchettoni e ipocriti. Insicuri, nelle braccia di Uno. No, questa non è la “mia” Patria. Questa è solo l’Italia.

La voce di Ghismunda, 18 settembre 2008

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E il Novecento finisce su una nave dei clandestini

di Ines Valanzuolo

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli: il 900 in sette storie di donne.

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli “livre de chevet” non da “ombrellone”, in quattrocentosessanta pagine ricostruisce momenti particolari della storia del Novecento. D’amore e d’odio – come dice il titolo del libro – ma anche di speranze e tenerezza è fatta la storia d’Italia che sette donne ci consentono di conoscere e in parte rivivere.

Nora, Elvira , Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina contemporaneamente sono generanti, generate e maieutiche di una data indimenticabile della storia italiana del Novecento: dal 1917, anno della sconfitta di Caporetto, via via al 1922 dello squadrismo fascista a Torino nella cosiddetta “ notte di San Bartolomeo” contro le organizzazioni operaie, al 1943/46 dell’Italia del Sud tra l’armistizio e la fine della guerra, al 1972 di Bologna di operaie, studentesse e probabili connivenze tra il movimento studentesco e le Olimpiadi del “massacro” di Monaco, al 1989 della caduta del muro di Berlino, al 1994 del litorale ionico a nord di Siracusa, tra il disastro dell’inquinamento industriale e del terremoto, fino al 31dicembre del 1999 e la tragedia dei clandestini.
In un lingua italiana fluida, in cui il lessico dello storico, della passione politica, accetta di ammorbidirsi nella semplicità del quotidiano, nella tenerezza dell’amore, di registrare rapidi spostamenti nel tempo e nello spazio con semplici intercalari dialettali, é un romanzo storico complesso.
Il vero storico è rappresentato dalla complessa e circostanziata ricostruzione di un avvenimento particolare del Novecento, nel quale si delinea di volta in volta il vero poetico di una figura femminile che accelera il processo storico in atto, non tanto partecipando, quanto portandovi un di più di intelligenza, ricerca, coraggio, rompendo schemi, ordine sociale, convenzioni.

E così Nora, di famiglia atea, militante pacifista, dopo la morte del marito da cui si era separata perché interventista, nel 1917 va come infermiera volontaria al fronte con la Croce Rossa. Guardata con sospetto come disfattista, denunciata dal Cappellano militare ad una ispettrice, nel dolore della morte e delle ferite che cura coscienziosamente non cerca l’espiazione per il suo comportamento nei riguardi del marito ma, nel culmine del disastro bellico, in corsia, osando dire ”bisogna avere il coraggio di chiamarli per quello che sono: morti, non caduti. Morti ammazzati…….Nora ha trovato la conferma delle sue ragioni e del torto del marito Matteo Fenoglio che era socialista ma aveva accettato la guerra..” e la forza di continuare la sua attività politica.
La stessa tecnica narrativa è intrigante e complessa “suggerita”, dichiara l’autrice, da Abraham B. Yehoshua: le vicende sono ricostruite da un personaggio che narra e risponde a domande e ragioni di un interlocutore le cui parole non sono scritte ma solo ascoltate, intuite e spesso mentalmente formulate anche da chi legge emotivamente coinvolto.
Queste donne quindi sono tutte raccontate da altri, spesso uomini, solo l’ultima, Delina, rispondendo per posta elettronica “diventa testimone di se stessa”.
Alla fine del secolo, dicembre 1999, fotografa inviata a Crotone per seguire le vicende di 300 curdi raccolti nel Mediterraneo in attesa di permesso di sbarco, riesce ad accettare la sua storia di figlia di un italiano e di una albanese, abbandonata alla fine della seconda guerra mondiale. Il percorso ormai è segnato dalle donne che l’hanno preceduta e finalmente può raccontarsi. Ricorda: sulla nave dei clandestini in attesa “Fu come infilarsi in uno strappo della realtà…..m’infilai là dentro e navigai all’indietro..” e nel presente, perché tra quei clandestini ritrova lo stesso “odore caldo e fradicio della treccia di sua madre”, odore che” adesso arriva a folate da ogni angolo del Mediterraneo.”
E il Novecento su quella nave nel Mediterraneo è veramente finito.

Maria Rosa Cutrufelli – D’amore e d’odio. Editore Frassinelli

Il Paese delle donne on line, 8 settembre 2008

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