Una somma di ingiustizie della giustizia

di Vincenzo Andraous

Il pianeta dei resoconti filmografici, delle sintesi romanzate, a detta di tutti è una realtà drammatica, indescrivibile per disumanità e somma di ingiustizie della giustizia.
Il carcere è diventato un lazzaretto disidratato, dove è sempre più difficile impegnare la morale, l’etica, l’onestà dei valori auspicati, mentre è sempre più facile  sparare sulla croce rossa di un indulto concesso senza alcuna preparazione né formazione, tanto meno coperture finanziarie adeguate, peggio, rese inadeguate  dall’immobilismo burocratico.

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Cosa sta accadendo nella Repubblica Democratica del Congo?

Nella Repubblica Democratica del Congo, uno dei tanti Stati africani creati dalle imprese coloniali occidentali, e’ in atto una tragedia, da ben un decennio, che pero’ il resto del mondo sembra avere dimenticato. Milizie rivali infliggono sofferenze inenarrabili alla popolazione civile, nell’indifferenza di chi detiene il potere politico. E non solo.
Quattro milioni di morti in cinque anni, donne stuprate e seviziate, bambine schiavizzate, bambini soldato. Quasi due milioni di sfollati, di cui la stragrande maggioranza in trappola nella parte orientale del Congo senza accesso ne’ a cibo ne’ ad acqua potabile, ne’ altri beni di prima necessita’. Fame, malnutrizione diffusa e condizioni igienico-sanitarie inimmaginabili, con un rischio elevatissimo di epidemie.
Il fatto che le ragioni del conflitto abbiano a che fare col controllo di minerali indispensabili all’industria elettronica del mondo occidentale, ci fanno chiudere un occhio su questa catastrofe umanitaria. Anzi, tutti e due.
Ben poco si parla dello sfruttamento disumano di gran parte dell’Africa e della poverta’ a cui i suoi abitanti sono costretti, o quando se ne parla, lo si fa in modo volutamente sbagliato. Ma vi siete mai domandati come mai in un continente così naturalmente ricco gli abitanti sono ridotti alla fame? Qualcuno lo avra’ fatto, molti no. Perche’ ai piu’ non importa della condizione di milioni di “negri” che “tanto non hanno voglia di far niente”.
E invece no. Riflettete. Pensate agli interessi fortissimi di pochi che, purtroppo, vincono sempre, a danno di tanti. Agli occhi dei colonizzatori l’Africa non e’ stata altro che una terra da violare, svuotare, distruggere, per il proprio benessere. E continua ad esserlo, perche’ non dobbiamo dimenticare che le multinazionali di oggi sono il colonialismo di ieri.
Cercano di farci credere che questa sia l’ennesima lotta intestina, combattuta da neri contro neri, da una tribu’ contro l’altra, per problemi di religione, etnia o altro. I media – quelli che ne parlano – cercano di convincerci che questa guerra e’ da imputarsi unicamente a quelle irrisolvibili e per noi incomprensibili “lotte tribali”. Ma anche la guerra dei Balcani ci era stata propinata come guerra etnica, o no?
Chi non si accontenta delle bugie propinate da giornalisti sciattoni, manovrati e controllati ad arte, sa bene che tutto questo e’ dovuto in grandissima parte allo strapotere occidentale ed all’avidita’ delle multinazionali, che giocano con la vita degli esseri umani.
D’accordo, indigniamoci pure col governo locale, che poco o niente fa per fermare la strage, e prendiamocela anche con le diverse fazioni in lotta. Ma l’ONU dove’e’? E noi? Cosa stiamo facendo?
Ogni volta che giochiamo con una play-station, che teniamo in mano un telecomando, un telefono cellulare, un computer portatile oppure (i piu’ ricchi) un gioiello con diamanti, dovremmo riflettere sulla scia di sangue e sulle vite distrutte affinche’ noi (cosiddetto mondo civilizzato) possiamo continuare a beneficiare dei lussi della moderna tecnologia, rendendoci responsabili di ulteriore, fame, distruzione, morte.

Domandiamoci: i veri selvaggi chi sono? Loro o noi?

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Donne e tecnologie: superiamo gli stereotipi!

di Michela Balocchi

L’8 settembre si è tenuta a Milano la conferenza Women&Technologies: research and innovation realizzata nell’ambito dell’IFIP WCC World Computer Congress (www.wcc2008.org). La giornata aveva lo scopo di fare il punto sulla presenza delle donne nel mondo della scienza e delle nuove tecnologie, sui loro contributi all’innovazione, alla creazione e produzione di ICT, sui passi avanti fatti nel superamento degli stereotipi di genere in questo ambito, e sulle buone pratiche di avvicinamento delle giovani alle nuove tecnologie attraverso un confronto a livello internazionale.

I temi trattati sono stati “Donne e ICT in Europa”, “Art and affective computing”, “Interazione e dialogo nelle Comunità sul Web del futuro”, “Innovazione nelle imprese e nelle istituzioni” (www.womentech.info). L’approccio alle nuove tecnologie – insieme alla risoluzione dei problemi di genere connessi al loro uso, creazione e produzione – è stato generalmente un approccio olistico e multidiscipliare, attraverso cui si è sottolineata la necessità di considerare gli aspetti sociologici della scienza così come il fatto che essa stessa è un prodotto umano e non neutro al genere.

È stato tratteggiato un breve quadro sull’ancora scarsa presenza di giovani studentesse nelle discipline tecnico-scientifiche in Italia e sulla forte asimmetria di genere presente al loro interno tra i diversi corsi: per esempio ad ingegneria, una facoltà in cui la presenza di ragazze è molto bassa, si passa dal 40% di donne nell’area bio-medica ad appena il 4% in quella meccanica (dati relativi al 2005, Badaloni). Le relatrici, che non si sono soffermate sugli effetti (pur determinanti) della socializzazione primaria e secondaria sulle scelte educative, hanno posto l’attenzione sui processi di selezione delle donne una volta inserite nei luoghi di ricerca e di lavoro: coloro che controllano l’accesso alle carriere sono prevalentemente maschi, i meccanismi di omofilia, soprattutto ai livelli alti di carriera, rimangono molto forti. Si sente la necessità di portare un’ottica di genere nei contesti decisionali e di aprire spazi alle donne per porre fine allo spreco di risorse, talenti e intelligenze femminili in questo paese. Da più parti viene sottolineata l’esigenza di un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro, e per questo è necessario un maggior intervento mirato da parte dello Stato in collaborazione con il mondo del lavoro: si parla, per esempio, di “servizi universali” per l’infanzia (Badaloni e Locatelli), che siano presenti in ogni parte del mondo perché fare ricerca significa anche essere disponibili ad un’alta mobilità, ma la cura dei familiari ostacola la mobilità delle donne, data la persistente disparità di genere nella divisione del lavoro familiare anche tra le coppie più istruite.

Una recente ricerca di Bencivenga sulle donne adulte che non usano o usano poco il computer solleva il problema dell’auto-svalutazione da parte delle donne e dell’immagine che spesso hanno e danno di sé, che riflette gli stereotipi antifemminili correnti secondo cui le donne sarebbero, tra le altre cose, “naturalmente” lontane dalla tecnologia e dalla scienza. Emerge fortemente la necessità di rendere scienza e tecnologia interessanti soprattutto per le giovani e giovanissime (Pollitzer). Un modo è anche quello di trovare modelli di ruolo potenti cui poter fare riferimento in campo scientifico, innanzitutto togliendo dall’invisibilità le donne che hanno contribuito e contribuiscono ai progressi della scienza. Dal lato delle adulte, invece, è importante anche il ruolo svolto dalle figlie nell’insegnare l’uso delle nuove tecnologie alle proprie madri (Bencivenga).

Nella sezione pomeridiana “Art and Affective Computing: Interaction and Dialogues in Communities on the Future Web” (concomitante alla sezione “Innovation in Enterprises and Institutions”), si è parlato della rete come del più grande spazio pubblico che si sia mai conosciuto fino ad oggi, con le potenzialità e i rischi a ciò connessi (Cortiana): la rete fornisce enormi possibilità di estensione delle relazioni sociali, di allargamento, arricchimento e condivisone della conoscenza, ma a questo si collegano anche problemi di inclusione e di ineguaglianze nel suo uso e nell’accesso così come la necessità di stabilire regole chiare, una sorta di Bill of Rights di Internet.

A proposito di inclusione, De Cindio si è soffermata sul diritto di cittadinanza in rete, (e)-citizenship, per le donne, e sulla necessità di creare strumenti adeguati per l’allargamento della e-participation e anche della e-deliberation, cui guarda con generale ottimismo nonostante i risultati non così lusinghieri di molte delle sperimentazioni italiane di questo tipo. I dati da lei riportati sulla partecipazione dei cittadini ad alcuni siti civici della Lombardia mostrano una ancora bassa partecipazione, soprattutto laddove la pubblica amministrazione ha meno concretamente investito nei progetti, e una ancor più scarsa partecipazione delle donne: il 20% sul totale nella sperimentazione della rete civica di Mantova, il 30% a Vigevano e a Milano, il 16% a Brescia (su un totale rispettivamente di 78, 120, 2130 e 137 partecipanti). Dalle prospettive top-down alle potenzialità delle net community e del web 2.0. Bonomo si interroga sulle caratteristiche delle communities on line, sul loro funzionamento, sugli incentivi (per lo più non monetari) su cui si basano (sentirsi efficaci, ottenere riconoscimento e reciprocità), e sulle caratteristiche dei leaders delle comunità. Si domanda perché tra i leaders prevalgano ancora gli uomini anche in una comunità spazio dell’auto-imprenditorialità come quella di e-bay, in cui le barriere all’accesso (a parte quelle strutturali) sono molto basse, e in cui tra i primi contributors più della metà sono donne (il 56%), e dove, però, i primi 10 venditori rimangono uomini. Si ricorda qui l’importanza della socializzazione all’uso della rete come strumento ludico fin dalla giovane età, ma anche dell’importanza ricoperta dai “giochi di ruolo” che funzionano da laboratorio per sviluppare capacità di leadership e che sono giochi ancora svolti per lo più da giovani maschi (l’85% sul totale) intorno ai 27 anni, che vi dedicano una media di ben 22 ore alla settimana.

Interessante anche l’intervento di Lisetti che presenta alcuni suoi studi sull’affecting computing (filone che ha avuto molte donne pioniere dagli anni ’90 in poi) e le diverse possibilità di applicazione pratica: non solo le espressioni negli avatar, ma anche l’emotion recognition per riconoscere le emozioni nei volti di piloti d’aereo, astronauti, sommozzatori, così come le attrezzature tecnologiche per monitorare i pazienti reduci di guerra che si trovano lontani dai centri medici e per stabilire una efficace comunicazione paziente-medico in contesti difficili.

La giornata di convegno è stata anche l’occasione per assegnare il premio Le Tecnovisionarie® 2008, che ha visto vincitrice Fiorella Operto per il suo impegno volto a combattere le disuguaglianze di genere coinvolgendo giovani donne nella scienza e nella tecnologia, in particolare nel campo della robotica, per esempio rafforzando l’autostima delle ragazze nelle loro capacità tecniche, e creando robot con programmi capaci di catturare l’interesse femminile che è raramente orientato all’offerta tipica del mercato di robotica quasi esclusivamente focalizzato su macchinari da guerra e giochi da combattimento. E l’esperienza insegna che corsi che tengano conto di interessi “altri” e differenti da quelli tradizionalmente dominanti hanno un valore aggiunto non solo in termini di inclusione di chi si ritrova solitamente escluso, ma anche in termini di mantenimento dell’interesse di chi è già ben inserito. La robotica è una tra le discipline maggiormente dominate dalla presenza (azione e impostazione) maschile tradizionale.

Le menti creative di donne e uomini, però, se libere di esprimersi, possono superare certi condizionamenti e barriere ideologiche: diventa allora fondamentale trovare più spazi di accesso per le giovani e combattere vecchi stereotipi dicotomici sulle presunte diverse capacità e preferenze di donne e uomini che relegano gli uni e le altre in una rigida divisione di compiti, mansioni e conoscenze, soffocando le potenzialità delle singole persone.

Server Donne, 28 ottobre 2008

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Perugia in America

22 ottobre 2008
22 ottobre 1970
Assassinio del generale cileno René Schneider. Il colpo di stato di Pinochet inizia ancor prima dell’elezione di Allende.

Mi è stato chiesto come avrebbero trattato gli americani il delitto di Perugia.

Provo a rispondere e, per prima cosa, tolgo di mezzo la polemica sulla polizia scientifica e i forensic labs, ribadendo che gli americani farebbero meglio a guardare in casa loro, dove una quantità di laboratori di polizia sono stati investiti da furiose polemiche e inchieste di cui sarebbe troppo lungo parlare. Mi limito a ricordare che il laboratorio dello Houston Police Department è stato chiuso d’autorità. Fra le molte ragioni quella che ci pioveva dentro, come del resto pioveva nel laboratorio di Dallas. Rammento poi che da quelle parti hanno fatto più del dieci per cento delle esecuzioni americane.

Tornando a Perugia iniziamo notando che il sistema giudiziario americano è completamente diverso dal nostro (come è diverso dagli altri sistemi di common law) e che è basato sull’assoluta libertà d’azione di cui dispone il District Attorney. E’ il Procuratore che decide se incriminare, chi incriminare e per quali reati, ed è sempre la Procura che decide se patteggiare e in che termini. Questa incondizionata libertà consente una enorme pressione sugli accusati e produce una totale arbitrarietà nell’imposizione della pena capitale.

La Procura ha il completo controllo della situazione e decide se chiedere o meno la pena di morte (magari dopo essersi consultata con la famiglia della vittima), se patteggiare o andare al processo con un’imputazione minore, o se utilizzare la minaccia della morte per ottenere un patteggiamento. In Europa lo chiamiamo torturare la gente, ma in America accade facilmente che le cose vadano così:
”Sei in prigione da due anni in attesa del processo quando si presenta un tizio che dice  – Se ti dichiari colpevole questa è la condanna e fra due anni sei fuori, ma, se ti ostini a proclamarti innocente, fra un anno c’è il processo e se vinciamo noi ti ammazziamo –
Voi cosa fareste?”  (Birmingham News “A Death Penalty Conversion”, 06/11/2005 e articoli seguenti)

Nei casi di omicidio con più complici la funzione del DA è stata paragonata a quella di un regista che assegna le parti in una recita teatrale. Il paragone è calzante; non tanto perché è lui che decide tutto, quanto per la pratica americana di spezzettare il processo in tanti procedimenti quanti sono gli imputati, ognuno dei quali avrà il “suo” processo. In ognuno di questi la Procura può presentare alla giuria una versione dei fatti completamente diversa dalle altre e costringere un imputato, in cambio del patteggiamento, a fornire la testimonianza adatta alla sua parte. (Il caso paradigmatico è quello di Napoleon Beazley)

La recita di cui parliamo è allestita a beneficio di un pubblico esiguo ma scelto: i dodici giurati, le loro fobie e pregiudizi, con il vantaggio che il loro gradimento non deve essere motivato perché, al contrario dei nostri giudici, non devono spiegare le ragioni per cui accettano le tesi di una parte piuttosto che quelle dell’altra. I giurati devono decidere se l’imputato è colpevole o non colpevole del reato ascrittogli, ma non devono spiegare il ragionamento che li porta a tale conclusione.

Nel processo americano (in cui non c’è la parte civile) vince chi inizia con gli opening statements più facilmente comprensibili e conclude con le arringhe (closing arguments) che raccontano una storia semplice da capire e ricordare.

Quello che convince una giuria non è la solidità delle prove, ma la coerenza del racconto del Procuratore. Se la storia che le viene esposta funziona sotto l’aspetto narrativo è difficile che la giuria vada poi a vedere se vi sono prove sufficienti della colpevolezza dell’imputato. Solo così si spiegano tante condanne a morte e tantissime condanne alla prigione: alla giuria è piaciuto di più il racconto che le ha fatto l’Accusa rispetto a quello della Difesa.

Più che un processo un premio letterario.

In America, i tre presunti complici di Perugia, sarebbero passibili di pena capitale, ma ben difficilmente questa sarebbe chiesta per tutti e gli scenari possibili sono almeno due.

Nella prima sceneggiatura, che chiameremo “Impicca il negro”, la parte principale è assegnata all’imputato di colore per il quale sarà chiesta la pena di morte. Al ragazzo bianco sarà invece data la parte del complice pentito che, in cambio di una condanna all’ergastolo, dà alla giuria una versione concordata con l’Accusa. La ragazza bianca, in questa versione della recita, se la caverebbe con poco o nulla; l’importante è che si presenti in aula in veste di vittima.

La seconda sceneggiatura è ben più intrigante e originale della prima e ha per titolo “A morte la strega”. In essa la parte principale è assegnata alla ragazza (che i tabloid inglesi chiamano Foxy Knoxy), mentre i due maschi reciteranno quella dei poveri coglioni irretiti dalla dark lady. La bionda dallo sguardo di ghiaccio sarà dipinta come una perversa mangiatrice di uomini che, nel suo delirio di onnipotenza, non si ferma davanti a nulla. Una sadica pervertita che merita la morte.

Queste sono ovviamente le mie fantasie di studioso, ma occorre tenere presente che la realtà la fantasia la supera sempre. Non per nulla a Washington (lo Stato da cui arriva Amanda Knox) un tizio ha patteggiato 48 omicidi.

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